Alan Watts: La visione induista.

La visione induista.

Per presentare il buddhismo è necessario richiamare alla mente una panoramica del modo in cui l’India vede il mondo e la cosmologia, proprio come dovremmo studiare la cosmologia e la visione del mondo tolemaica per comprendere Dante e gran parte della cristianità medievale.

Il pensiero degli induisti sulla cosmologia e l’universo è entrato a far parte della vita giapponese attraverso il buddhismo, ma è antecedente. Il buddhismo l’ha semplicemente adottato come un dato di fatto, così come probabilmente oggi adotteremmo la cosmologia dell’astronomia moderna, se inventassimo una nuova religione.

Gli esseri umani hanno concepito tre grandi visioni del mondo.

Una è quella occidentale, secondo la quale il mondo è un artefatto, in analogia con le ceramiche e la falegnameria.

Poi c’è la visione induista, secondo la quale il mondo è un dramma, come un’opera teatrale.

La terza è la visione cinese organica, che guarda al mondo come a un organismo, un corpo.

Parleremo però della visione induista, quella che lo considera un dramma o, più semplicemente, ritiene che esista ciò che esiste, che è sempre esistito e sempre esisterà, ed è chiamato il sé: in sanscrito ātman.

L’ātman si chiama anche brahman, dalla radice bri, che significa crescere, espandersi, gonfiarsi, ed è collegata alla parola inglese breath, respiro. Il brahman, il sé nella visione del mondo induista, giocherà sempre a nascondino con sé stesso.

Quanto si può essere lontani, quanto ci si può perdere? Secondo l’idea induista, ognuno di noi è una divinità e si perde di proposito, solo per divertimento. E quanto può essere terribile a volte! Ma non sarà bellissimo quando ci risveglieremo? È questa l’idea fondamentale e ho scoperto che anche un bambino può capirlo. È molto semplice ed elegante.

Questa cosmologia o concezione dell’universo ha molte peculiarità, fra cui i kalpa, i lunghi cicli temporali che l’universo attraversa.

Un altro aspetto è quello dei sei mondi, o sentieri della vita. L’idea dei sei mondi è molto importante nel buddhismo, anche se deriva dall’induismo, ed è rappresentata in quella che viene chiamata bhāvacakra.

Bhāva significa «divenire»; cakra significa «ruota». La ruota del divenire, o ruota della nascita e della morte, è divisa in sei spicchi: quello in cima ospita i deva, quello inferiore i naraka. I deva sono angeli, coloro che rappresentano il successo supremo del mondo, i naraka sono i dannati dell’inferno e rappresentano il supremo fallimento del mondo.

Sono i due poli opposti: le persone più felici e quelle più tristi. Nel mezzo c’è il mondo dei preta, o fantasmi affamati, accanto ai naraka nell’inferno. I preta sono gli spiriti frustrati, con bocche minuscole e pance enormi: un enorme appetito, con pochissimi mezzi per soddisfarlo.

Appena sopra i preta ci sono gli esseri umani, che nei sei mondi dovrebbero trovarsi in una posizione mediana, poi si sale fino ai deva e si comincia a scendere di nuovo. Il mondo successivo è quello degli asura, gli spiriti furiosi, personificazioni di tutto lo sdegno, la rabbia e la violenza della natura. Più in basso ci sono gli animali, che si trovano fra gli asura e l’inferno.

Questi mondi non devono essere presi alla lettera; sono le diverse modalità della mente umana. Quando ci sentiamo frustrati e tormentati, ci troviamo nel mondo dei naraka; quando siamo frustrati cronici siamo nel mondo dei preta; quando siamo calmi e tranquilli siamo nel mondo degli umani; quando siamo enormemente felici ci troviamo nel mondo dei deva; quando siamo furiosi siamo nel mondo degli asura. E quando ci comportiamo da stupidi siamo nel mondo degli animali.

Sono tutte modalità diverse ed è estremamente importante capire che, nel buddhismo, più si migliora e più si sale verso il mondo dei deva, più si peggiora e più si finisce verso il mondo dei naraka. Tutto ciò che sale dovrà scendere, non si può migliorare in eterno. Se si migliora oltre un certo limite si comincia semplicemente a peggiorare, come quando affiliamo troppo un coltello e inizia a consumarsi.

La buddhità, liberazione o illuminazione, non si trova in nessuno dei mondi della ruota, a meno che non ne sia il centro. Se si ascende e si migliora, ci si lega alla ruota con catene d’oro. Se si scende e si peggiora, ci si lega alla ruota con catene di ferro. Ma un buddha è colui che si libera del tutto delle catene.

Questo spiega perché il buddhismo, a differenza dell’ebraismo e del cristianesimo, non significa cercare disperatamente di essere buoni, ma cercare di essere saggi. Vuol dire essere compassionevoli, che è un po’ diverso dall’essere buoni: significa provare un’enorme empatia, comprensione e rispetto nei confronti di tutte le persone ignoranti che non sanno di esserlo, ma che giocano al bizzarro gioco di essere «io e te».

Ecco perché un induista, quando saluta un fratello, non gli stringe la mano ma unisce le proprie inchinandosi. E, fondamentalmente, è anche il motivo per cui i giapponesi si inchinano uno di fronte all’altro e i rituali buddhisti sono pieni di cenni di inchino: perché in questo modo onoriamo il sé che svolge il ruolo di tutte le persone che ci circondano. E bisogna onorarlo ancor di più quando il sé ha dimenticato cosa sta facendo e quindi si trova in una situazione bizzarra.

Queste sono, in sintesi, la visione del mondo induista e la cosmologia associata al buddismo.

A seconda dei gusti, del temperamento, delle tradizioni, delle credenze popolari e così via, esiste l’idea aggiuntiva che quando il padrone, o il sé, finge di essere ciascuno di noi, finge prima di tutto di essere un’anima individuale, chiamata jīvātman, che si reincarna attraverso una serie di corpi, vita dopo vita.

Secondo il cosiddetto karman, che letteralmente significa «azione» o «la legge dell’azione», gli eventi accadono in serie e sono collegati l’uno all’altro da una catena indistruttibile. Il karman è la vita che ognuno si crea, passando attraverso innumerevoli vite. Non approfondirò, perché molti buddhisti non ci credono.

Per esempio, i seguaci dello zen hanno opinioni differenti su questo argomento e dicono di non credere letteralmente alla reincarnazione – ossia il fatto che dopo il funerale diventiamo improvvisamente qualcun altro, che vive da un’altra parte. Per loro la reincarnazione significa che se tu, che ora siedi qui, sei davvero convinto di essere la stessa persona che è entrata in questa stanza mezz’ora fa, allora ti sei reincarnato. Se sei libero, capirai che non l’hai fatto. Il passato non esiste; il futuro non esiste. Esiste solo il presente. Questo è l’unico te stesso che esista.

Il maestro zen Dōgen lo spiega in questi termini: «La primavera non diventa estate. Prima c’è la primavera e poi c’è l’estate. Ogni stagione rimane al proprio posto». Allo stesso modo il te stesso di ieri non diventa il te stesso di oggi.

T.S. Eliot ha espresso la stessa idea nel suo poema Quattro quartetti, dove dice che, quando ci sediamo sul treno per leggere il giornale, non siamo la stessa persona che poco prima era sul binario. Se pensiamo di esserlo, stiamo collegando i nostri momenti con una catena.

È questo che ci lega alla ruota della nascita e della morte, a differenza di quando riconosciamo che il momento in cui siamo è l’unico momento che esista. Quindi, un maestro zen dirà: «Alzati e attraversa la stanza». E quando tornerete indietro chiederà: «Dove sono le tue impronte?». Sono sparite. Dove sei? Chi sei?

Quando ci chiedono chi siamo, di solito recitiamo una specie di storia. «Mi chiamo così e così. Sono stati i miei genitori a darmi questo nome. Ho frequentato la tal scuola. Nella mia professione ho fatto questo e quest’altro». Produciamo così una breve biografia. Il buddhista risponderà: «Lascia perdere; quello non sei tu. È una storia ormai passata. Io voglio conoscere il vero te, il te che sei adesso».

Nessuno sa chi è, perché non conosciamo noi stessi, oltre l’ascolto dei nostri echi e la consultazione dei nostri ricordi. Ma poi il vero te stesso porrà questa domanda: chi è il vero me?

Dovremo analizzare come i kōan zen gestiscono la questione, per farvi uscire dal vostro guscio e scoprire chi siete veramente.

Tratto da: “Buddhismo – Religione senza religione”, di Alan Watts

Fonte: https://www.facebook.com/groups/meditare.it/permalink/1551326518212693/

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