Bernadette Roberts: L’esperienza del non-sé. Cap. 5

L’esperienza del non-sé. Capitolo 5

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Quantunque i meccanismi del cambiamento che si produsse durante il viaggio mi fossero sconosciuti, fui immediatamente in grado di riconoscere tanto la presenza di qualcosa di nuovo quanto l’assenza di qualcosa di vecchio; e il cambiamento avvenuto sulla collina, che coincise con l’inizio della seconda metà del viaggio, può meglio esser compreso se lo si rapporta ai cambiamenti che si erano manifestati in precedenza.

Inizialmente, con lo svanire del senso di una vita interiore attiva e funzionante, c’era stata la tendenza a proiettarmi all’esterno nella visione dell’Unità, con la scomparsa di tutto quanto fosse particolare e individuale. La stessa visione dell’Unità non si situava al mio interno, ma in un primo momento si manifestò come una sorta di lenti tridimensionali sovrapposte alla mia abituale percezione visiva e, in seguito, si concretizzò in un vedere che partiva dall’alto della testa. Adattarmi a questo nuovo modo esteriorizzato di vita richiese quasi un anno, dopo di che ebbe luogo sulla collina un secondo importante cambiamento. L’essenza di questo secondo cambiamento fu il venire meno di ogni cosa esterna, il che significò la scomparsa della grande Unità che m’ero abituata a vedere e contemporaneamente delle lenti a 3D, che ora non riuscivano più a focalizzare un solo oggetto o una sola idea. Fu come se il vedere, privo di oggetto, tutt’a un tratto si fosse spento. Nell’insieme questo equivaleva a vivere in uno stato in cui non c’era nulla dentro e nulla fuori: uno stato di totale mancanza di conoscenza, difficilissimo da controllare e sopportare. Cercherò ad ogni modo di descriverlo.

Dapprincipio l’esperienza del vuoto ovunque guardassi era stata solo sconcertante per la sua relativa novità. Senza dubbio, la ragione per cui la mente non riusciva più a concentrarsi su particolari oggetti o idee era il totale vuoto che trovava in questi: un vuoto che non si apriva e dissolveva più nell’Unità. Ma via via che passavano i giorni e le settimane senza un accenno di tregua o di compensazione, la situazione divenne sempre più invivibile: vedere continuamente il nulla assoluto dentro e fuori produceva un senso di indicibile aridità, una condizione esistenziale insopportabile.

Dopo un certo tempo cominciai a sentire come se la mia testa (la mente, il cervello) fosse stretta in un torchio, così che non potevo più muoverla. Non potevo volgere gli occhi indietro, verso il passato, né di qua o di là, nel disperato tentativo di fissare l’attenzione su qualcosa del presente immediato. Tutto quello che potevo fare era guardare dritto davanti: ma dritto davanti non c’era niente da vedere, era come fossi bendata e avanti avessi solo un vuoto nero e totale.

Dal momento che la mia mente non riusciva a concentrarsi su nulla né ad appoggiarsi ad alcunché di conoscibile, presto cominciai a sentire come se il cervello stesse andando a fuoco e la terribile pressione che avvertivo dietro gli occhi mi stesse portando alla cecità. Questa pressione senza tregua all’interno della testa era una specie di crudele guardiano che mi ordinava in permanenza di vedere: “Vedi! Devi vedere! Puoi vedere! Guarda e vedi!”. Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, era un martellamento continuo, finché capii che non mi sarei mai liberata da quell’orrenda situazione e non mi sarei mai sottratta al tremendo guardiano, a meno che finalmente non avessi ‘veduto’. Ma veduto cosa? Che cosa si presumeva cercassi? E come avrei mai potuto vedere, dal momento che non avevo occhi per vedere? Davanti a me c’era sempre e soltanto il vuoto e il nulla.

Per la sua terribile angustia chiami questa situazione interiore il Grande Passaggio. Non avevo idea di dove fossi o di dove stessi andando. Se la prima parte del viaggio era stata, in pratica, il movimento dal sé al non-sé, questa seconda metà era il movimento dal non-sé al non-dove; non credo infatti che il sé imboccherebbe il Passaggio: non potrebbe sopportare quello che vi si deve sopportare.

Sapevo per istinto che questa era una condizione pericolosissima, sentivo di camminare sull’orlo della follia o di uno stretto precipizio fra la vita e la morte, e che la sopravvivenza era totalmente affidata al non-sé: quella solida, inamovibile quiete di ogni cosa al mio interno. In qualche modo sapevo che il benché minimo movimento interiore poteva improvvisamente farmi perdere l’equilibrio e sarei scivolata via per sempre.

A volte ero tentata di vedere questa grande quiete come Dio, ma penso che mi sbagliassi e più avanti spiegherò perché. Un’altra tentazione era quella di vedere Dio nel terribile guardiano, perché malgrado i suoi categorici, implacabili, spietati ordini di ‘vedere e andare avanti’, sentivo per istinto che egli sapeva dove era diretto e cosa faceva. C’erano momenti in cui pensavo di mettermi alla ricerca di qualche farmaco che desse sollievo al mio cervello bruciante, ma non avendo mai assunto psicofarmaci in vita mia non avevo idea di quali potessero essere i risultati né riuscivo a credere che un dottore ne sapesse più delle sue medicine. Così affidai al guardiano il compito di portarmi in salvo, di modo che il viaggio facesse il suo corso e finisse quando era il momento; interromperlo al contrario per qualche motivo poteva significare non completare mai il Passaggio e non sapere mai se e che cosa mi aspettasse dall’altra parte.

Un’altra ragione per cui non presi in considerazione l’uso di psicofarmaci fu che sentivo il pressante bisogno di essere sempre sveglia e all’erta, in un momento in cui le mie energie personali erano ridotte al minimo. Ci fu un’occasione in cui semplicemente osservai, come un osservatore immobile osserva una luce allontanarsi e svanire del tutto, il ridursi graduale e ineluttabile dell’ultima parvenza di energia fisica che possedevo. Fu allora che appresi che la dinamica della vita non è in realtà nel fluire e nel divenire di ogni cosa, poiché, malgrado l’andare e venire di quello che chiamiamo vita ed energia, qualcosa rimane che non si muove e non partecipa all’andirivieni. Qualcosa che è semplicemente lì, semplicemente in osservazione: e ‘questo’ che rimane è la vera vita, mentre non lo sono tute le energie che vanno e vengono. Ma che cos’è quel ‘qualcosa’ che rimane lì e osserva? E che cos’è quello che affronta il passaggio? Che cos’è questa forma che impedisce la dissoluzione? E che cos’è ciò che resta quando non c’è più sé? Certo non ero io. Io ero quello che era svanito. Poteva dunque essere Dio? Bene, se lo era io non lo sapevo perché non riuscivo a vedere assolutamente nulla.

Quel giorno, osservare il mio stesso fluire mi impartì un’importante lezione. Mi insegnò quale fosse il significato della pressante insistenza sul “continuare a camminare, andare dritti avanti, confermarsi per nessun motivo” che fino a quel momento non avevo capito. Nell’osservare la vita che si stava spegnendo non provavo nessuna ansia. Nulla in me rispondeva a ciò che vedevo, finché all’ultimo mi venne fatto di pensare che a un certo punto poteva accadere di andarsene e non tornare mai più. Ma una prospettiva del genere non poteva realmente far paura a un morto: non avevo abbastanza energia per preoccuparmi. La mia vita era ora nelle mani di un fato misterioso e non c’era altro da fare che accettare la sorte. Eppure, in un momento così privo di scelta come quello della morte, sentii che non avevo ancora veduto, e che non mi sarebbe stato comunque permesso di andarmene per sempre prima che il viaggio fosse stato portato a termine. Così mi resi conto che dovevo comunque continuare la marcia, continuare a trascinare i piedi sulla terra, poiché, anche se non riuscivo a intravedere come il passaggio in cui mi trovavo avrebbe potuto essere completato qui e ora, la prospettiva di trascorrere un’eternità nel buio più totale era ugualmente respingente.

Come continuare ad andare era uno dei problemi più difficili e penosi del passaggio: occorreva imparare a sopravvivere facendo a meno di ogni minimo senso di energia personale.

Per cominciare, scoprii che era necessario tenere la mente costantemente occupata con risorse esteriori, dato che in quella strettoia non riuscivo a pensare, riflettere, formulare un’idea o un pensiero; mentre improvvisamente scoprii che ero in grado di ascoltare i pensieri e le idee altrui mantenendo contemporaneamente la mente perfettamente silenziosa e in riposo, perché la mia comprensione delle questioni pratiche restava intatta. Fintanto che ascoltavo, la mia mente era silenziosa in maniera del tutto spontanea. Questo fu l’inizio: in un secondo momento scoprii che riuscivo anche a leggere libri che non esigevano sforzo mentale e non esercitavano una specifica pressione sulla mia mente. Pur non potendo cimentarmi con la filosofia, trovai utile e interessante leggere tutti i libri sull’alpinismo che trovai in biblioteca.

Venne infine anche il giorno in cui mi accorsi che potevo anche parlare e conversare mantenendo la stessa mente silenziosa e inattiva; il che accadeva solo nei limiti in cui il parlare veniva direttamente da ‘sopra la testa’, ossia spontaneamente, senza pensiero o riflessione. All’inizio, queste conversazioni erano necessariamente brevi e limitate alle questioni pratiche, ma col tempo l’abilità di parlare direttamente dalla sommità della testa divenne una funzione stabile. In seguito chiamai questa facoltà la mia ‘mente non riflettente’ e gradualmente riconobbi che era di gran lunga superiore alla normale mente pensante, in quanto, come cercherò di spiegare più avanti, permette una grande chiarezza.

Per il momento, comunque, stavo appena cominciando a scoprire l’ascolto e la lettura come un modo di controllare la pressione nel mio cervello. In una parola, stavo lentamente imparando a sbrigarmela per continuare a vivere nelle condizioni del Passaggio evitando i rischi della passività e dell’inerzia.

Fu per evitare questi rischi che alla fine mi immersi in un nuovo tipo di attività. Era l’attività di una mente priva di pensiero e conoscenza: non c’erano energie investite nel sé, non un briciolo di soddisfazione in una cosa qualsiasi, nessuna meta all’infuori della sopravvivenza. Fu esattamente a questo punto, anche se allora non me ne resi conto, che cominciai ad affiorare a un modo di vivere totalmente nuovo, un modo di vivere che non si può concepire e neppure immaginare possibile fintanto che non ci si arriva dal lato opposto della conoscenza, ossia da quello della non-conoscenza.

L’aspetto di gran lunga peggiore del Passaggio fu quello della mancanza di gratificazione (e, bisogna dire, anche quello della durata: quattro mesi; pochi giorni o una settimana, si sopporta, ma trovarsi per quattro interi mesi in una camicia di forza mentale porta, giorno dopo giorno, al limite dell’intolleranza). Anni prima mi ero imbattuta, leggendo, in un brano a proposito di uno stato di non-conoscenza che l’autore definiva più o meno “una totale dissociazione psicologica priva di compensazioni”. Per quanto allora non riuscissi a immaginare a che cosa ci si riferisse, sentii istintivamente che doveva essere qualcosa di terribile e fui felice di non avere mai conosciuto niente di simile. Ora, durante il Passaggio, l’espressione mi affiorò alla memoria come la migliore sintesi della situazione in cui mi trovavo che la mia mente potesse formulare. Per quanto non ne conoscessi l’uso strettamente psicologico – l’autore era uno psicologo – la adottai per esprimere la mia condizione, quella di chi è totalmente tagliato fuori, dissociato dal noto, il sé, senza nessun fattore compensatorio al posto del vuoto che ha incontrato. Essa significava uno stato senza emozioni, energie, moti interiori, intuizioni, visioni, relazioni con una cosa al mondo: nient’altro che il vuoto assoluto, da qualunque parte mi girassi. La totale sterilità di questa condizione non è quasi umanamente sopportabile, specie se si protrae per un certo tempo, e il fardello della completa mancanza di conoscenza era un peso che alla lunga minacciava di schiacciarmi: schiacciarmi senza tuttavia uccidermi. Avevo già visto che la morte non era una via d’uscita, perché prima o poi il Passaggio doveva essere compiuto e non sarei stata libera dal peso della non-conoscenza fino a quando non fossi riuscita a vedere.

Questo stato non può essere paragonato alla ben nota Notte Oscura: infatti è qualcosa di più e di assai peggiore della purificazione della mente e della volontà nella loro ignoranza dello Sconosciuto. È uno stato psicologico estremo in cui la mente non può dimorare neppure nel conosciuto, e tanto meno nello Sconosciuto. Per quanto la realtà empirica restasse, non la si poteva mettere a fuoco a livello percettivo, né si potevano focalizzare a livello visivo i singoli oggetti. Gli abituali oggetti della mente venivano invece percepiti nella loro globalità, il che provocava momenti di tensione, in particolare quando ero al volante o giravo per il mercato. Uno stato del genere poteva essere paragonato allo sguardo sul mondo del bambino, in cui quest’ultimo vede ciò che vede l’adulto, senza avere però la percezione e la capacità di attenzione dell’adulto, in quanto la sua mente è ancora nello stato non-relativo della non-conoscenza. Bene, per una mente matura, inserita nella realtà, capace di conoscenza, tornare a questa condizione non-relativa mantenendosi insieme nell’ambito della normalità è un’impresa di proporzioni gigantesche. Pure, abbastanza curiosamente, la grazia salvifica, almeno la grazia riconoscibile ed evidente, è nella stessa mente condizionata.

Avevo sempre nutrito una certa avversione nei confronti del modello condizionato di pensiero e comportamento dei behaviorismi, ma durante il Passaggio compresi come esso fosse la condizione fondamentale della sanità mentale e come le abitudini indotte di una mente equilibrata e integrata fossero assolutamente essenziali per affrontare il passaggio. Per cui gli anni precedenti al viaggio, anni di sperimentazione e di verifica dell’equilibrio psichico, furono della massima importanza; al punto che tutto ora dipendeva da questa stabilità del comportamento condizionato. Fatte due o tre eccezioni, non sperimentai nulla che si potesse chiamare grazie divina e corroborante. Per lo più, procedetti sotto il pesante, enorme fardello di una così assoluta mancanza di conoscenza, che sembra addirittura incomprensibile come ce l’abbia fatta ad andare avanti.

Nelle poche occasioni in cui trovai il sostegno divino, non ci fu modo di equivocare sulla sua natura. Questi momenti vennero verso la fine del Passaggio – cosa di cui sono in grado di rendermi conto soltanto a distanza di tempo – e furono sempre preceduti da un accumularsi di tutti gli aspetti intollerabili di questa condizione: la durata, l’apparente eternità, l’affaticamento, la pressione dietro gli occhi, lo stato mentale precario, la totale mancanza di comprensione; in breve, la tremenda condanna del non sapere e non vedere. Tutto questo e altro all’improvviso diventava insostenibile e sotto il suo peso mostruoso qualcosa cedeva. Qualunque cosa sia quello che resta in assenza del sé, esso si disintegrava, svaniva come un sottilissimo velo nell’infinito. Era la cancellazione di tutto tranne che del gioioso, divertito sorriso del divino, un sorriso in qualche modo totalmente soggettivo. La parola più immediata e incisiva con cui descrivere il fenomeno è ‘fondersi’, una vera e propria fusione dell’essere in cui Dio era tutto ciò che rimaneva.

Nonostante questa momentanea tregua, presto tornavo alla condizione consueta, per cui dovevo ricredermi sul fatto che questo fosse il ‘vedere’ finale. Il dissolversi di quello che rimaneva non era evidentemente il vedere che si esigeva da me. Se mai la cosa mi colpiva come un pietoso rabbuffo del guardiano, come se la mia aridità si fosse sciolta e lui mi dicesse: “T’ho detto che puoi vedere! Tu vedi continuamente e lo sai! Non puoi dubitarne!”. In effetti, non c’erano dubbi. La natura del passaggio non ammette dubbi intellettuali; ma per lo stesso motivo non ammette certezze. In realtà non ammette nulla.

Se si tolgono questi due momenti di tregua, la mente era immersa in un vuoto crudele, in cui non aveva dove guardare, dal momento che non poteva concentrarsi su nulla. A questo punto mi ricordai di Cristo, quando dice che non ha dove posare il capo: nel senso, almeno così io lo intendo, che non c’è nulla al mondo su cui possa concentrare l’interesse, nulla a cui la sua mente possa aggrapparsi a livello percettivo o concettuale.

Infine divenne chiaro che il Passaggio era oltre la disperazione e anche oltre la pazzia: in quanto ‘chi’ rimane per impazzire, o ‘cosa’ resta a provare disperazione? Se il sé fosse stato vivo, sarebbe impazzito immediatamente; e se non altro, io sarei saltata su a ogni occasione per gettare la spugna e tagliare la corda. Ma le nostre nozioni di ansia e di disperazione sono solo giochetti con cui ci difendiamo paragonati al carico della non-conoscenza, contro cui non ci sono difese possibili; né, quanto a questo, c’è più nulla o nessuno da difendere. Sarebbe stato quanto mai gratificante avere un sé, perché il sé è la compensazione di cui l’uomo ha bisogno di fronte allo stato della non-conoscenza, o in ogni caso questo pensavo io.

Ciò nondimeno, il meccanismo che permette di sopravvivere al Passaggio mi resta oscuro. Il sé era morto, in silenzio per sempre. Il guardiano, non più di una pressione sul mio cervello, continuava a esigere che la mia mente fosse tranquilla e ‘vedesse’. E il mio corpo ingurgitava cibi sostanziosi nel suo debole tentativo di compensare la perdita dell’energia del sé. Probabilmente è all’interno dello stesso Passaggio che si forma il meccanismo del superamento, se non altro perché quella è l’unica strada percorribile. Non ci sono scelte, non ci sono opposizioni, non c’è morte né follia; è lì e tu ci sei dentro, semplicemente, è un Passaggio e lo devi attraversare.

Passati quattro mesi, avevo in qualche misura imparato come venire a patti con una condizione del genere. Con ‘venire a patti’ non intendo un atto di rassegnazione ma solo un adattamento all’inevitabile. Per quanto ne sapevo avrei potuto vivere a quella maniera per il resto dei miei giorni, motivo per cui facevo del mio meglio per costruirmi un modo di vita che mi permettesse di andare avanti. Probabilmente è estremamente importante il fatto che finii con l’adattarmi al vuoto, rendendomi conto che solo il tempo poteva farci qualcosa, come dimostrava il fatto che dopo un po’ il problema aveva finito col passare quasi inosservato.

Sembra che quando il vuoto dell’esistenza non prende più tutta l’attenzione, il ‘fare’ diventi tutto. Così, nel corso del Passaggio, l’accento si spostò dal semplice esistere, come l’avevo conosciuto sulle montagne, al fare, che ora divenne un modo di vita. E tuttavia, in quel periodo, mentre passeggiavo per le colline, a tratti ero assalita dalla tristezza di fronte al vuoto e alla totale sterilità dell’uomo e della natura. Mi rattristava il fatto che l’uomo viva tutta la vita nella falsa presunzione che dietro, sotto o oltre ciò che è, si nasconda una realtà ultima. E ricordavo la mia intera vita di ricerca, di cui ora vedevo che spreco assoluto era stata.

Tutte le esperienze della mia vita non erano state altre che un trip mentale, una grande beffa, un girare a vuoto di cui ora mi ritrovavo al punto di partenza, sapendo della vita e di Dio né più né meno di quello che sapevo al momento della mia nascita. Che pensare di tutta l’energia sprecata a studiare, meditare, praticare, cercare, lottare, soffrire, sperimentare e così via? Tutto uno spreco! In realtà, tutto ciò che l’uomo sa è al cento per cento riflessione e pensiero volenteroso, ciecamente stimolati, questo è certo, da un sé che chiede ostinatamente di sopravvivere. Che imbroglio da parte della mente! Che inganno senza rimedio! E quale uomo al mondo non è stato preso per il naso e cacciato in questa trappola, la trappola rappresentata dal sé? Eppure, cosa c’è al di là del sé? Se sono il vuoto e il nulla tutta la verità e nient’altro che la verità, l’uomo non può fare a meno del suo sé e dei suoi inganni; deve avere questa compensazione per una realtà ultima che si rivela puro e semplice nulla.

Incessantemente in queste passeggiate per le colline e lungo il fiume mi domandavo anche se ci fosse in me un’ultima traccia di quella che si chiama ‘fede in Dio’. Inizialmente ero stata ansiosa di rinunciare a quel qualcosa chiamato sé perché avevo in qualche modo la certezza che Dio fosse oltre esso. Così avevo creduto e avevo amato, e fino al Grande Passaggio non m’ero sentita ingannata. Ma ora quella fede era definitivamente andata in pezzi, non riuscivo a trovarla in nessun posto. In suo luogo c’era una mite delusione e l’accettazione ultima di ciò che è: vale a dire del fatto che tutto ciò che abbiamo è ciò che vediamo.

Questo significa anche il semplice fare qualsiasi cosa ci sia da fare in qualsiasi momento del giorno, senza farsi domande, attaccarsi a cavilli, sollevare obiezioni. Fare semplicemente quello che si presenta da fare, nient’altro.

E questa era la fine del discorso. Avevo finalmente trovato la grande verità: tutto è vuoto, il sé ha semplicemente riempito il vuoto, tute le parole dell’uomo sono vuote etichette fornite da una mente che non sa niente di niente del mondo in cui vive e non riesce a tollerare uno stato di non-conoscenza. E va bene: potevo convivere con questa realtà.

Per quanto l’urto contro la grande verità mi fosse quasi costato la vita, finalmente stavo scoprendo come conviverci; dopotutto era questo lo scopo del viaggio: scoprire la verità e niente di meno. Potevo continuare a rattristarmi per tutti quelli che ancora sprecavano la propria vita nell’inconsapevole ricerca del vuoto, ma non ardevo dal desiderio di informarli prima del tempo: sapere la verità non porta necessariamente a vivere meglio una vita che deve continuare comunque, contenga o no la verità. A questo punto, con questa ‘visione’, certa di aver completato il circolo, potei finalmente mettere via l’intera faccenda e darmi da fare per guadagnarmi da vivere.

Bernadette Roberts

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Fonte: http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/misticacristiana/broberts.htm

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