Carlo Sini: Ciò che si è.

Terra x Blog + Nero 2015

Carlo Sini. Come si diventa ciò che si é.

Cosa significa essere autentici? Partiamo dal fatto che la nostra condizione di partenza è “l’inautenticità”. Quando una vita è autentica e quando non lo è? Di solito la nostra condizione, almeno quella di partenza, è l’inautenticità. In cosa consiste una vita inautentica? Certamente vanno interrogati almeno due livelli: quello della vita individuale, del singolo e quello della vita sociale, anche se questi due livelli si intersecano. C’è una inautenticità dell’individuo e una inautenticità del costume sociale.

Inautenticità in che senso? Procediamo senza complimenti, senza retorica. Partiamo subito con una frase fastidiosa: “vita inautentica è quella che facciamo tutti”. L’inautenticità non è un incidente del vivere, ma è una struttura costante della vita individuale e sociale.

È difficile trovare una persona che dica di sé di essere completamente soddisfatta (ognuno di noi ha qualcosa da recriminare), sia sul piano sociale (nessuno dice più quello che diceva Leibniz, che questo è il migliore dei mondi possibili, suscitando l’ilarità di Voltaire). In generale siamo abbastanza scontenti di noi stessi, degli altri e del tempo in cui viviamo.

Ma se siamo inautentici, se ci sentiamo inautentici, se conduciamo una vita inautentica, quale sarebbe la vita autentica? La prima risposta ovvia è “quella vita di cui uno è soddisfatto, sia come persona che come luogo in cui vive”.

Ma stiamo entrando bene nell’argomento? È solamente essendo contenti o scontenti il criterio in base al quale giudicare se una vita è autentica? Aveva ragione Spinoza a supporre che forse Nerone era soddisfattissimo di se stesso e che trovasse molto divertente la persecuzione dei cristiani e cose di questo genere? Forse la testimonianza individuale non basta. Dobbiamo andare più a fondo per capire perché è giusto che in fondo siamo tutti inautentici.

Facciamo un passo ulteriore. Quando dico “Attenzione amici, siamo tutti inautentici” cosa voglio dire? Anzitutto una cosa molto semplice, sulla quale si riflette molto di rado: “nessuno di noi ha scelto di essere com’è”. Già questo è molto importante. Non siamo stati consultati, non ci è stato chiesto se questo era il nostro tempo, il nostro paese, la nostra lingua, i nostri genitori, i nostri compagni di vita. No, non ci è stato chiesto. Ci siamo trovati in questa situazione e già l’esserci trovati così è inautentico, se per autentico intendo ciò che sono, ciò che è in accordo con me, oppure ciò che vorrei essere. Sarte dice: “Io ho fatto di me quello che di me hanno fatto gli altri”. Quello che hanno fatto di me i miei insegnanti, i miei discepoli. Ognuno è fatto dell’essere fatto dagli altri. Qui si vede proprio il punto di incontro tra vita individuale e sociale. Ognuno è fatto delle persone concrete che lo “hanno fatto”, che gli “hanno insegnato a vivere”, che lo “hanno esortato a vivere”, che lo hanno minacciato: “o vivi così o te ne pentirai”.

E questi stili di vita sono sociali, storici. Oggi non si vive come ai tempi dei nostri nonni o duecento anni fa. E questa è una zona di inautenticità pura. Vedere questo, riconoscere che ciò di cui siamo fatti, che la nostra stoffa non è autentica, è derivata, nel senso che non è scelta (siamo noi che siamo stati scelti da questa stoffa, ammettere questo abbassa anzitutto la pretesa, la presunzione). Niente mi stupisce di più della sicumera delle persone che credono di pensare con la loro testa e che poi tirano fuori le cose più banali e conformiste di questo mondo. In realtà ragionano con la testa degli altri. In realtà non hanno nessunissima testa! Non sto dicendo che alcuni hanno la testa e altri no. Sto dicendo che tutti siamo fatti così.

Questo è il primo insegnamento che un professore deve dare ai suoi studenti. Non interessa cosa pensi. Comincia a pensare che quello che pensi non è tuo, che ben che vada è stato trasmesso nelle migliori intenzioni, ma certo non originale. C’è molta retorica sull’originalità. Non si nasce originali, si diventa faticosamente originali, dopo molto lavoro e dedizione e insieme a molta inautenticità. Questa prima lezione non piace ai giovani, quando ero giovane non sarebbe piaciuta nemmeno a me.

Questa lezione dice che una prima versione della frase di Nietszche “diventa ciò che sei” potrebbe essere letta così: “prendi coscienza della tua inautenticità”, prendi coscienza di essere l’individuo più banale e piatto che ci sia, anche là dove ti ribelli e proprio soprattutto là dove ti vuoi svincolare dal dire comune e dal senso comune. Anche là dove crediamo di assumere posizioni molto critiche, non ce le siamo mica inventate noi! Anche quelle le prendiamo da ciò che gli altri hanno fatto di noi. A noi è affidata la scelta del canale della televisione. Ma sempre quello è. Quello che il nostro tempo consente.

Non voglio fare delle critiche. Voglio fare una descrizione fenomenologica. In un certo periodo della società europea si poteva essere: realisti, girondini, giacobini, montagnardi…c’era una certa scelta. Oggi ci sono molte più opzioni. In quel tempo si potevano essere tutte queste cose, una di queste. Ognuno si lasciava compenetrare in base alla sua vicenda familiare, alle sue motivazioni profonde, ai suoi gusti, alle sue occasioni di vita, essendo montagnardo aveva dei vantaggi mentre essendo realista no, e allora era montagnardo e per questo combatteva con furore. Ebbene io vorrei abbassare questo furore. Vorrei anzitutto dire che la prima forma di vita inautentica è questo furore. È questa convinzione di essere nel vero e nel giusto e di combattere dalla parte in cui anche Dio combatte con loro (frase famosa dei nazisti).

Attenzione, quando parlo di inautenticità, non dico che Nietszche volesse dire questo, ma dico che potremmo leggere così la sua frase: “diventa ciò che sei!” Cioè diventa cosciente di ciò che sei, perché se diventi cosciente della tua inautenticità, dell’essere prodotto di una società, prodotto di una cultura, prodotto di un luogo particolare della vita sulla terra, se diventi cosciente di questa limitazione, del tuo essere finito (e in questo non c’è niente di male perché tutti sono così, a cominciare da chi vi parla), se tu prendi coscienza di questa limitazione, forse allora questa è una prospettiva attraverso la quale la visione dell’inautenticità favorisce una certa autenticità.

Sono autenticamente consapevole della mia inautenticità. Capite? Questo allora significa che c’è un margine. Il fatto che un essere vivente, mortale e parlante, come diceva Platone, mostra che non siamo totalmente inautentici, totalmente passivi, che non siamo solo un vaso che riceve e non modifica nienete di ciò che riceve. Se non altro, una cosa ce la possiamo riservare. Un passo a lato. Io ho certe preferenze, certi gusti. Come tutti. Sono i miei gusti, quelli che il mio tempo mi consente, non posso essere oggi un giacobino. Io sono capace di fare un passo di lato. È una delle opzioni del mio tempo, da dove mai arriverà? Chi è capace di questa domanda è senza età, non è né giovane né vecchio, ma è un essere umano. Incarna la possibilità più autentica dell’ essere umano, può mettere in dubbio ciò che si è e ciò che si ama è molto arduo, importante, difficile.

La prima lezione che la cultura deve dare, non l’assimilazione ad un modello (questo è troppo facile, i modelli ci sono comunque, non impariamo neppure a stare al mondo senza modelli), ma la libertà dai modelli, un certo margine di riflessione sui modelli. È bene fare così? Forse! Mi hanno detto che questo è meglio di quello. Vediamo.

Se si assume questo atteggiamento di accoglimento dell’inautentico – essere europei non è essere autentici, essere cristiani non è essere autentici (non è un buon cristiano colui che non pone la domanda sull’inautenticità dell’essere cristiani, dell’andare a messa la domenica senza essersi veramente chiesti cosa significa essere cristiani), essere atei non è essere autentici. Kierkegard che era un uomo di profonda fede, sul suo giornale che faceva da solo, scriveva che le persone che andavano in chiesa la domenica gli facevano orrore. Lui che era un uomo di profonda fede, rispetto a quel cristianesimo, un passo di lato è libertà, una via di salvezza, di autenticità.

Possiamo allora cogliere un altro aspetto più generale, più universale, forse possiamo ricordarci il motto con il quale è nata la filosofia in occidente (che è solo una via di possibile riflessione sull’autenticità e in-autenticità, come io sto cercando di fare con modestia e umiltà, vi assicuro), il motto di Anassimandro, originario della nostra tradizione, che dice che coloro che si combattono, gli opposti (che in ogni tempo ci sono) che si fanno guerra, e ciò che vogliono è distruggere l’avversario, in modo che dove ci sia l’uno non ci sia l’altro, ma così facendo, aggiunge il motto, compiono profonda ingiustizia reciproca e ne pagano il fio, perché crepano e vanno all’altro mondo e gli uni agli altri.

Vedete, c’è un alto luogo di osservazione. La nostra inautenticità non è solo un fatto culturale, non consiste solo nella nostra cecità per cui è giusto, bello e buono quello che io faccio, sono, quello che mi hanno insegnato, quello a cui mi hanno destinato, quello a cui mi ha fatto comodo aderire, quello a cui mi hanno costretto ad aderire. È molto di più, è la scelta di chi deve stare al mondo e di chi no. Noi non ce ne rendiamo conto (bisogna rifletterci per rendersene conto), ma il fatto che ognuno di noi questa sera sia qui in questa cultura, in questa città questa sera, in questa tradizione, comporta certamente che altri non vi possano stare e non vi siano stati. Ogni determinazione, ogni identità, ogni tradizione sceglie i suoi morti, sceglie coloro che possono vivere e coloro che non possono vivere. E questo non è colpa della nostra civiltà e della nostra cultura. Sono fatte tutte così, sono tutte in-autentiche nella loro profonda, intrinseca violenza, perché tutte sono profondamente violente, avendo tutte la convinzione, la sicumera di essere l’incarnazione di ciò che è brutto, bello e buono nell’essere uomo.

Ricordandoci quello che dice Anassimandro , la vita è profondamente violenta e ingiusta. Nel regno animale la cosa è palese, non ci sono dubbi. In questo momendo nel profondo degli oceani si stanno sbranando che è un piacere. Pensateci per un momento. Nel mondo umano è altrettanto vero, le nostre culture, le nostre raffinate civiltà, le nostre religioni, hanno un ritorno economico per cui è molto chiaro quali figli vivranno e quali no. Quali vivranno a certi livelli della scala sociale e quali no. E questo non è inautentico? Il fatto che io sono complice di questa cosa senza fare niente? Io sono complice di questa lotta dei contrari e dell’ingiustizia. Anche questa è una sfera di inautenticità che assedia la mia vita e che spesso la rende molto infelice senza che me ne renda conto, certo non la rende felice. Certo ci sono dei limiti personali e sociali che sono dipendenti dalla violenza che ognuno incarna, sia che lo sappia, sia che non lo sappia. Sia che lo eserciti attivamente, sia che lasci transitare non accorgendosi. Non è questa una sfera di autenticità enorme. Accontentiamoci di questi primi assaggi sull’inautenticità, non si può certo fare in un’ora una trattazione sistematica.

Cosa ne deriva sul piano dell’autenticità. Se tutto quello che ho detto ha qualche senso. Che cos’è allora la vita autentica. Un primo significato, dicevo prima, è nello sforzo di sincerità: guardiamoci come siamo, ammettiamo che non abbiamo deciso un accidente. Che siamo complici perché decidono tutto gli altri attraverso di noi. Siamo complici. Sarebbe superficiale dire “l’hanno fatto” e io che cosa ho fatto perché fosse diverso?

“Diventa ciò che sei”, diventa consapevole di ciò che sei, della inevitabile violenza della vita animale, umana e culturale. E non è un modo d’essere molto soddisfacente.

La prima autenticità è ammettere che la legge della vita comporta inevitabilmente una violenza, qualcosa che esclude. Le combutte, le mafie. Vieni con non noi che abbiamo ragione, gli altri hanno torto. E comunque anche se abbiamo torto vieni con noi, perché siamo noi. Questa consorteria degli esseri umani è la cosa più squallida e la trovate dappertutto. E lo diceva anche Nietzsche che di queste cose se ne intendeva parecchio. Diceva che anche i facchini vogliono avere la loro associazione. Voleva dire che non c’è livello in cui questo non accade. Agli alti livelli, nel supermercato, nel sottoscala tra gli inquilini. Chi sta di qua e chi sta di la. È terribile questo, tutti siamo presi da questo aspetto.

Dove è amicizia e dove è inautenticità, del sentirsi sicuri, protetti, identificati, dell’avere una identità della quale andare fieri. Questi sono aspetti ignobili dell’essere umano quando li guardiamo in noi stessi. Quando li guardo nel corso della mia vita mi vergogno. Ho appartenuto a quella combriccola perché mi faceva comodo, mi dava soddisfazioni narcisistiche. Il mondo è pieno di queste cose. Perché fare una conferenza e raccontare un sacco di balle. Il primo passo è riconoscersi nelle proprie inautenticità, che sono anche psicologicamente comprensibili e perdonabili, non si tratta di fustigarci. È difficile diventare grandi. Queste inautenticità hanno radici nella fragilità psichica dell’essere umano (io non sono psicoanalista o psichiatra), nella difficoltà di diventare un soggetto indipendente, per quanto uno lo possa essere fino in fondo perché è dipendente dalla sua storia personale, dai suoi traumi, dalle sue emozioni, dalle sue memorie e dalle sue inconsapevoli eredità. Si tratta di guardare onestamente, e non di andare in giro a dire: siccome penso questo, quanto sono originale. Guardiamo prima quanto tutto questo è miserabile. Tutti, senza eccezione, tranne quelli che hanno fatto un cammino terribile, i santi dell’umanità, forse sono esclusi. Bisognerebbe leggere qualcosa di Gandhi, di coloro che hanno rinunciato a tutto. Un modello ci vuole per poter comprendere tra vita autentica e vita inautentica.

Vorrei aggiungere un altro aspetto della questione. Una presa di coscienza più profonda. Vi invito a riflettere ancora sulla frase di Anassimandro. Gli antichi ci hanno lasciato poco, non avevano la carta. Se leggete in pensatori greci vi rendete conto del loro sforzo di concentrare in poche parole quello che noi esprimeremmo in poche pagine, favoriti anche dalla lingua greca che è una lingua straordinariamente espressiva. Di Protagora conosciamo due proposizioni, commentando le quali bisogna scrivere enciclopedie. Molta della loro cultura si trasmetteva oralmente. Ciò che si scriveva erano gemme preziose. La frase di Anassimandro è stata analizzata da tantissimi filosofi. Una cosa dice alla fine: “cosa accade dell’ingiustizia della vita?”. Del fatto che tutti gli esseri viventi non possono stare tutti insieme e non solo gli esseri viventi, anche gli esseri umani. Ricordiamoci il famoso motto di Esiodo che diceva che tra le fiere, gli animali feroci, gli uccelli del cielo, i pesci del mare, unica legge è la forza. Li non c’è dubbio. Vita mia e morte tua. Ogni essere vivente vive della catena alimentare. Esiodo diceva che è così per gli animali. L’uomo no, ha avuto la legge di Zeus, la legge della giustizia. È vero e non è vero. In parte è vero se stiamo discutendo fra noi così. Il fatto di denunciare le nostre inautenticità ci caratterizza. E non è vero: proprio la dove l’essere umano ha sviluppato le sue forze migliori è stato un essere terribile. Sempre nella tragedia greca si dice: “Di tutti gli esseri viventi l’essere umano è il più terribile”. Noi non siamo selvaggi, abbiamo avuto da Zeus la legge, il senso del giusto e dell’ingiusto, ma di tutti i viventi siamo i più terribili, quelli che uccidono con una quantità di vittime inimmaginabili nel mondo animale, dove un altro tipo di equilibrio governa l’aggressività reciproca. Noi non soltanto siamo in grado di uccidere a milioni uomini e animali, nello sterminare. Molte specie si stanno estinguendo ogni giorno, direttamente e indirettamente.

Allora che cosa è la vita autentica? Forse sta in questo sforzo di sincerità! Decidono tutto gli altri attraverso di noi, essendo noi complici di questa inautenticità. Io sono complice di quello che succede nelle università italiane e il risultato finale non mi piace. Ma sarebbe sciocco affermare: “l’hanno fatto” visto che anche io ero li. Diventa ciò che sei allora significa diventa consapevole della violenza intrinseca nella vita umana e culturale. Non è un modo d’essere soddisfacente. Riconoscere che la legge della vita comporta inevitabilmente una violenza. Qualcosa che esclude, e se include è per escludere. Questo è uno degli aspetti più tragici, secondo me, della vita sociale degli esseri umani.

Allora “Diventa ciò che sei” significa diventa mortale. Che non vuol dire mettiti la cenere sul capo o ritirati dal mondo. Vuol dire: renditi conto della grande, grande produttività della morte. Non si tratta di combattere la morte, di vivere la vita contro la morte. Negandola attraverso le religioni che promettono l’aldilà, oppure negandola perché non ci voglio pensare. E mi distraggo con mille cose, che vanno bene e nessuno dice che siano da respingere. Ma il punto vero è “ma ti rendi conto che cosa preziosa ha in mano l’essere umano, perché unico dei viventi ha il sapere della morte!”. La morte è solo la morte. Davvero seleziona. Davvero consente che si realizzino quelli che sono i segni dell’umanità. Chi ha salvato qui versi di Anassimandro, chi ha salvato qui versi di Esiodo se non la morte, sulla quale nessuno di noi ha alcun potere, la quale non segue la nostra logica e le nostre preferenze. Chissà come sarà? È ai nostri occhi accidentale! Forse l’aveva capito Anassimandro che diceva che la morte era qualcosa e non la negazione di qualcosa, forse si. È lei che ha selezionato (grazie a Dio) non noi, nella nostra piccola ottusità, nella inautentica visione delle cose che abbiamo nel nostro piccolo mondo finito noi mortali.

Se finalmente diventiamo mortali, in accordo con la nostra mortalità, non contro la nostra mortalità, allora credo tutta la nostra vita cambia di senso, tutto diventa di un valore incomparabile perché niente viene trattenuto ma tutto viene trasmesso e donato. Tutto viene fatto perché transiti attraverso la mia mortalità e così vita in una vita che si potrebbe dire genericamente eterna. La consapevolezza di diventare ciò che siamo, mortali, ci fa vedere l’immortalità della vita. Sapere che dovremo morire ci fa vedere una vita che va al di la della nostra vita. Allora tutto torna a prendere un’altra luce. Allora non si allevano figli per gettarli contro altri figli, perché loro abbiamo garanzie di futuro e gli altri no, ma figli come tutti i figli, mortali come gli altri. Con un atteggiamento che non esclude la passione dell’amore, ma che non fa dell’amore uno schermo della morte, ma un transito della morte. La mia mortalità era iscritta sin dall’inizio nella mia capacità di generare, ma ciò che ho generato è mortale e non può che trasmettere questa vita che non dipende da noi, che attraversa noi, e la specie dell’homo sapiens sapiens da più di 70.000 anni e della specie umana da ancora più anni e della vita sul pianeta terra da miliardi di anni.

Ecco, vedersi in questa ottica (anche senza abbandonare il proprio angolino perché nessuno può abbandonare il proprio angolino) ed aver rivendicato la dignità della sua morte in quanto testimonianza di un cammino di vita, di un’epopea della vita, questo è un piccolo sguardo di quello che forse possiamo definire autentico, rispetto all’inautenticità della vita singola con i suoi problemi individuali, sociali, economici, materiali, spirituali., etc.
Proviamo a pensare che la nostra vita è mortale, come Heidegger ci ha invitato a fare, non semplicemente immaginando la morte come un evento che sta in fondo alla nostra vita (questa è la morte rispetto agli altri, perché nessuno può vivere la propria morte in quanto se è presente non è morto, come diceva il grande Epicuro, “se ci sono io non c’è la morte e se c’è la morte non ci sono io”), non tanto accogliendo la morte nella nostra vita mortale e nella nostra limitatezza come evento che non mi riguarda (in questo senso la nostra vita è senza confini, perché la morte è al di la della vita e non mi riguarda più) ma come diceva Heidegger “una decisione anticipatrice” (ideale di vita dei Gesuiti e in oriente una visione abbastanza diffusa).

Morte come decisione anticipatrice. Ora muoio, adesso si muore, oggi sono morto. E la morte seleziona, i miei ricordi, i miei segni, quel tanto delle mie opere che rimangono. Chi può dire chi sono io? Gli altri. E questo è il frutto della morte quotidiana. Una selezione vivificatrice, quella che dice: “Ciò ha avuto un significato”. Mille cose abbiamo fatto i giorni scorsi, ma avranno significato quelle che la morte avrà selezionato. Lasciando cadere le altre ha fatto brillare queste, quelle parole di cui quella persona non si dimenticherà più. Speriamo di dirne tante cosi.

Domande e approfondimenti.

Felicità.

Uno dei momenti in cui siamo contenti, sereni, felici è quando ci dimentichiamo di noi. Ne sono assolutamente convinto anche perché l’ho sperimentato. Quando faccio una cosa e tutto l’interesse è verso la cosa e non verso di me, mi dimentico di me. Quando non pensiamo al nostro possesso, al nostro ego, dicendo “io ho fatto questa cosa” oppure sono in una cosa talmente grande che io mi sono dimenticato di me, sono nel vero amore per cui la cosa è più grande di me. La cosa non è più come voglio io ma come vuoi tu. Più cose sappiamo fare in questo modo e più la nostra vita fa del nostro essere inautenticamente qui un’occasione di autenticità e probabilmente anche di serenità.

Dopo si sta bene, se si è fatta una cosa non per il piacere di vedere come la cosa è riuscita. Se uno lo ha fatto nell’oblio di se e non nella pretesa di possesso, anzi facendosi transito, ci si rende conto che questa cosa non l’abbiamo fatta noi. È stata fatta attraverso di noi, utilizzandoci. Quello che diceva Ravel, un grande compositore, “io vedo come una partitura che passa nel cielo, l’afferro e la scrivo”

Il sé è come cammino.

Due cose sono importanti per me e la prima riguarda il Sé, la formazione del Sé. Una cattiva impostazione è quella che dice: sono autentico quando sono genuinamente me stesso. Questa impostazione è ingenua, secondo me, perché nessuno è genuinamente se stesso, ma diventa se stesso in relazione con l’altro. Genuinamente se stessa è la vita vivente che ognuno di noi è nascendo, ma quella non è ancora vita umana. Diventerà vita umana perché entra in relazione con il linguaggio umano, con l’affetto umano, con il fatto che gli altri mi identificano, mi danno l’identità. Inevitabilmente il Sé è una nascita inautentica, è un dono degli altri. È la mia vita che viene educata, tirata fuori. Se sono nato in una civiltà mussulmana sono tirato fuori come mussulmano, se sono nato come cristiano sarò tirato fuori come cristiano e così via, se sono nato in una cultura buddista come buddista, ma non l’ho scelto io.

Quest’ essere stato educato, “tirato fuori”, mi da un Sé che per sua natura è un prodotto degli altri, quello che gli altri hanno fatto di me. Tuttavia, proprio per la natura della cultura umana, dello spirito umano (qui il discorso sarebbe lungo e facciamo una scorciatoia), se il mio Sé, il mio profondo mi è dato dagli altri, mi è data anche la possibilità di identificarcimi oppure no. Questo è l’autentico. Io posso mettere in discussione quello che tu vuoi fare di me. Io non sono come tu mi vuoi.

C’è una frase famosa del vangelo in cui Gesù invoca il Padre suo che sta nei cieli perché gli venga sottratta la morte in croce, il calice, ma poi aggiunge però “come vuoi tu” e non come voglio io. Questa è una delle più grandi pedagogie che il cristianesimo può offrire alla terra. Ogni educatore, ogni genitore, chiunque abbia una certa supremazia, che può trasmettere comportamenti, passioni e amori aggiunga sempre “come vuoi tu e non come voglio io”. Che restituisca insieme al dono che lo cattura, anche al contrario la possibilità che sia un mimo della verità. La verità te la faccio vedere, poi tu fanne quello che credi, quello che vuoi, quello che puoi.

Non c’è all’inizio un Sé, qualcosa che sono io. Il mio io è una costruzione, è un cammino di liberazione, di verità, un cammino che non cessa mai nella vita, che se si fermasse saremmo finiti, delle mummie sociali e non più degli esseri viventi.

La verità.

Tra i miei colleghi sono noto per sostenere che la verità e l’essere in errore sono la stessa figura. Qualcuno dice che sono un relativista. Io non la penso così. Quello che io penso è che bisogna distinguere tra il fatto che noi incarniamo la verità come evento, in transito, per cui ognuno di noi incarna la verità, dice “il mio modo di essere è vero”, magari vorrebbe sostituirsi con la condizione umana chi è molto ricco, bello però non rinuncerebbe mai alla sua identità (gli sembrerebbe di morire) il che vuol dire che la sua identità è ciò che lui considera un’incarnazione della verità (e su questo credo che non ci sia nulla da obbiettare), in ognuno di noi transita la verità della vita nella sua figura ed errore. Se non si vedono insieme questi due aspetti non si capisce. Quando parlo della verità sembra che parlo dell’errore e quando parlo dell’errore sembra che io parli della verità.

Ma è proprio così, perché della verità siamo testimoni tutti, ma testimoni in errore. Non come voglio io ma come vuoi tu, perché la verità accade nella molteplicità delle sue figure e noi la incontriamo nella morte progressiva delle figure. E questo è molto bello. Che io dico della mia infanzia, in ogni tappa della mia vita un’altra cosa rispetto a quella che dicevo prima, è il cammino di verità che io faccio dicendo “no questo non è abbastanza vero, non è proprio così, mi sembrava ma mi sbagliavo”. La verità è questo cammino, non ce ne un’altra. Non è che c’è una proposizione, e chi la pronuncerebbe questa proposizione, chi potrebbe dire la verità della mia infanzia? I miei genitori? I miei fratelli e sorelle? Anche loro farebbero la stessa esperienza. Che idea della verità ci possiamo fare se non un cammino che progressivamente nelle sue figure le attraversa e le abbandona. Che altro è la vita eterna se non questa. Quando questo non accada più non abbiamo più nulla da dire ne a noi stessi ne agli altri. Ogni figura della verità è un transitare, un congedo. Ma ogni figura della verità è della verità, sempre che la verità non diventi una pretesa di possesso, una fantasia, un dogmatismo, un “narcisismo”. Che la verità soffi dove vuole lei e non dove voglio io anche se è dentro di me com’ è dentro tutti.

La morte.

Ci sono due morti. Quella constata dagli altri e quella morte che dipende dal sapere. Quella constatata dagli altri non è solo la morte fisica, ma di una intera personalità umana, ma che fa parte della vita degli altri. Si muore agli altri, appunto. L’altro aspetto della morte, che ha a che fare con la consapevolezza di essere mortali, è il sapere (qualsiasi antropologo lo definirebbe così). Che cos’è che sappiamo, che ci definisce come umani? Che moriremo. Questo sapere della mortalità è costitutivo della vita dello spirito, come Hegel sapeva molto bene. Il sapere di morire. Mentre l’animale è semplicemente vivo, ma non ha un sapere spirituale, l’essere umano sa che morirà, sa che può anticipare questo evento.

Il terrore da cui Epicuro voleva guarire gli esseri umani, “che sarà di me dopo la morte”, che istituisce tutto il cammino della civiltà (la civiltà egizia per esempio è incentrata su questo terrore) è un terrore su cui riflettere. Di me non ne sarà niente, perché non sarò presente. La risposta a questo è la risposta della civiltà, di ognuno di noi che prende partito (non dicendo io credo nell’aldilà), nel senso che la sua vita, con questa risposta, diventa diversa, proprio nel senso in cui nei promessi sposi un frate cappuccino si rivolge ai pochi guariti che escono dal lazzaretto e dice loro “la vostra vita non potrà più essere come prima”. Perché avete visto la morte degli altri, avete visto la vostra morte, la morte come negazione della vostra identità. Tornerete nella vita guariti dal terrore della morte, disponibili ad un altro sapore della vita, ad un altro senso della vita. Questi sono grandi insegnamenti. Io non sono religioso ma sono pieno di ammirazione per insegnamenti di questo genere.

Autenticità e inautenticità.

Non è che c’è da scegliere tra autenticità e inautenticità. C’è un altro modo di stare nell’inautenticità, così come c’è un altro modo di stare nella mortalità. Posso stare nella mortalità negandola disperatamente, in modo consapevole o inconsapevole, o posso stare nella mortalità accogliendola. Dicendo: questa è la mia occasione, la mia giornata, la mia ora. Se non faccio niente ho perso una occasione, ho perso un momento di verità.

Lo stesso vale per l’inautenticità. Certamente qualunque cosa ci è arrivata da altri e non l’abbiamo scelta noi, però sta in noi il viverla senza superstizione, dicendo “questa cosa si può anche guardare come una figura della verità, come il modo in cui la vita autentica, che è una vita che transita nella sua inautenticità, potrebbe essere guardata attraverso la mia inautenticità”. Inautenticità non è la negazione, non c’è altro che vita inautentica fin dall’inizio, ma dipende da come ci stai, se ci stai tutto compiaciuto da questa inautenticità, tutto cieco… Allora l’inautenticità è un passaggio abbastanza banale, anche se non bisogna disprezzarlo. Noi nella nostra inautenticità continuiamo la trama della vita umana. Ci trasmettiamo le cose di tutti i giorni, indispensabili alla vita comune. Certo c’è un modo di stare nell’inautenticità privo di qualunque spessore e c’è un modo che è un rendersi conto di ciò che abbiamo ereditato, che è anche un dare valore, fare di questi limiti non una chiusura, ma un’occasione. Trasformare l’errore in una occasione di verità è la formula dell’autenticità.

Carlo Sini
Conferenza tenuta Giovedì 21 ottobre 2010 a Ferrara.

Fonte del Post: http://www.stampalibera.com/index.php?a=29598

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