Eric Baret: La sofferenza è sempre una reazione.

“Per finirla con la pretesa di sofferenza in generale e dell’amore in particolare”.

Dobbiamo constatare a qual punto stiamo sempre chiedendo il consenso di chi ci circonda. Le persone attorno non mi sono simpatiche se non supportano la mia sofferenza. Così è l’essere umano. Vuole che si rispetti la sua sofferenza: “Ho ben il diritto di soffrire! Il mio cane è morto, sono malato, la mia donna mi ha lasciato, mio figlio è scomparso, mio marito mi tradisce … Sono ben in diritto di essere infelice!”

In quel momento, alla fine, non c’è niente da dire; non c’è modo di mettere in dubbio.

Soffrire (parliamo qui della sofferenza psicologica, il dolore fisiologico richiede un approccio più sensoriale e tecnico, che non affrontiamo qui) è una malattia curabile.

“Rispettate il mio dolore”. Prima o poi ci si accorge del meccanismo: la sofferenza è sempre una reazione. Spesso si ha la pretesa che la situazione potrebbe essere diversa da quella che è.

Quando viviamo con la realtà, cioè con ciò che appare nell’istante, senza “la storia” che le cose dovrebbero essere in altro modo per esserci “gradite”, la sofferenza è impossibile. La bellezza prevale; non ci si può più battere per essere riconosciuti come “moralmente sofferenti”, non c’è più “se sapeste come soffro, mia moglie mi tradisce”.

Certi uccidono per “amore”: il pensiero di essere sposato a qualunque essere umano, fa parte di queste fantasie borghesi, religiose, delle quali le nostre società, ubriache di certezze, si compiacciono tanto.

Cosa potrebbe veramente dire essere sposato? E’ veramente amore? Allora se il vostro congiunto è felice tra le braccia della vicina, siate felice per lui. Quante distruzioni fisiche e psicologiche crea la gelosia?

Quando vi rendete conto che il matrimonio, l’amore o ogni idea di relazione non è che un concetto, cessate di imporre la vostra legge a chi vi è accanto. Amate la libertà dell’altro come la vostra. E’ tutto o niente. Ti amo. Questo vuol dire: “sono nella mia natura profonda, senza attese, non domando niente, soprattutto che tu mi ami”. Se domando che tu mi ami, è che io non ti amo, non ti rispetto, perché l’amore è senza domanda.

Il mio ruolo è d’amare. Se mi aspetto una qualche reciprocità, esco dalla mia natura, che è pienezza. In quel momento, niente mi può mai turbare, perché ciò che cerco così avidamente nell’altro non è in realtà che la mia propria libertà. E questa non è una cosa che si possa concedermi o rifiutarmi. Tocca a me scoprirla nel mio cuore, donarmela. Là, più nessuno da amare, più nessuno per pretendere di amare, l’amore trionfa, l’amore è ciò che è, è l’essenza del mondo, e questo non dipende da nessuna situazione.

Quando il richiamo alla via si fa sentire chiaramente, tutto ciò che ci sembrava essere delle limitazioni, delle restrizioni di cui ci si voleva liberare, diventa, al contrario, l’occasione d’approfondire la comprensione di se stessi, cioè la visione dei propri limiti.

Si deve celebrare questa scoperta: vedo ancora in me uno spazio non libero. Libero dal fantasma di voler essere altro da ciò che appare nell’istante; non corro dal terapeuta o dal guru alla moda, giro la testa e faccio fronte a questo limite: corpo e anima. In questa accoglienza, libero da attese, la mia costrizione diventa la porta non concettuale verso la realtà.

Quando sono uno con ciò che appare, senza la storia che le cose potrebbero essere diverse, la sofferenza non si può mantenere.

La sofferenza è sempre nel futuro. Ecco l’arte della gioia. Tutto non è che specchio che rivela la mia libertà. Fino a che vogliamo essere riconosciuti nella nostra sofferenza, essere rispettati, non è possibile alcuna via d’uscita. La ricerca della libertà non attiene che a colui che è pronto a oltrepassare la sua storia, passata, presente e futura.

Ciò che si chiama “gli altri”, “l’ambiente” non è che la creazione della nostra paura. Vogliamo essere liberi o costantemente consolati, approvati, supportati dalle immagini: la mia storia, il mio passato, mio marito, il mio amante, la mia casa, la mia razza, il mio paese, ecc.

E’ così difficile vedere quanto “mio”, “mia”, “miei” non sono che un furto, un colpo di mano, come il clown del circo che si appropria degli applausi destinati al giocoliere. Non si può dire “possiedo, questo mi appartiene, ecco mia moglie, il mio paese e anche, prima o poi, il mio corpo, il mio pensiero”. Ma “celebro, onoro, perché non c’è che Lui, che appare in tutte le forme e il solo stato dell’essere umano è di servitore”.

Niente è mio e io non appartengo a niente. Tale è la mia libertà. Questo non impedisce di adempiere alle proprie funzioni nella vita quotidiana. Per molte persone la vita familiare è più organica dell’apparente solitudine. Dei figli possono avere esigenze e voi non lasciate il gattino che dorme nel salone senza mangiare.

Se è necessario, andrete a partecipare all’apparente distruzione del corpo, chiamato momentaneamente “nemico”, secondo gli interessi finanziari e malati delle nostre democrazie. Niente vi impedisce di accumulare una fortuna, se questo avviene naturalmente, ma voi non avrete più bisogno di questo per sentirvi ricchi.

I vostri ruoli di padre, di sposo, di amante, di soldato, d’uomo d’affari, di criminale o di brav’uomo si applicano al momento, ma voi non vi cercherete più in loro. Seguite il corso della vita senza pretendere una qualsiasi autonomia. Sostenete il vostro ruolo, con la riconoscenza di essere, qualsiasi siano le modalità.

La rivelazione divina non vi dice che non dovete più sentire dolore, né che dovete essere nella misura in cui potete pagare il vostro alloggio o avere la capacità di allevare i vostri figli. Questa capacità vi è data o no all’istante; non scegliete di vivere in un paese sazio o in un paese che soffre la fame.

In una chiarezza senza storia, ciò che appare non è altro che l’essenziale, qualsiasi siano le espressioni. Vivete in funzione della vostra capacità reale e non di un capitale ipotetico, creato o sperato per bisogno di sicurezza affettiva.

Rinunciando ad ogni pretesa di una competenza a vivere, la vita si fa carico di voi, totalmente. In un istante di verità, gettiamo nella chiarezza della semplicità tutte le nostre pretese a un qualunque colore, a una qualità qualunque. Offerta del conosciuto allo sconosciuto, dall’oggetto all’ultimo soggetto, tale è il sacrificio nel fuoco dell’evidenza.

Solo la nostra storia si consuma. Fino alla visione che non era mai veramente esistita, se non nella nostra paura. Il serpente scompare; non c’è che una corda. Qui, più rispetto per la sofferenza. I forni crematori si aprono e furiose ceneri consumano il consumabile. Ecco il vero rispetto, non quello d’una fantasia, ma della stessa vita sotto tutti i suoi aspetti. Meno di questo non è che disgrazia.

Fino a che non integro tutti gli aspetti delle emozioni, sono in una storia. Fino a che non sopporto questo o quello, presente, passato o futuro, non sopporto niente, perché proietto dappertutto queste paure, nego la divinità.

Questo non può che realizzarsi nell’istante. Non ci si può liberare che qui e ora. Niente, fuga nel futuro “quando sarò pronto”. E’ l’istante o mai, non ce ne saranno altri.

Diciamo un Si senza limite, ultimo rispetto.

Eric Baret

Tratto da: 3méMillenaire n.70, Traduzione di Luciana Scalabrini.

Fonte: http://www.sviluppocoscienza.it/ericbaret2.htm

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