Jean Klein: L’arte dell’ascolto.

L’arte dell’ascolto.

Jean Klein, medico e musicologo, portò per 40 anni il messaggio della non dualità con una chiarezza rara, profonda. Il brano è tratto dal suo libro “La Naturalezza dell’Essere” pubblicato da Magnanelli Editore.

Domanda: Si richiede uno sforzo, su questo sentiero? Personalmente trovo che ho sempre meno energia per fare uno sforzo in una qualsiasi direzione.

J.K.: Lei non può fare uno sforzo senza una tensione. Ma perché fare uno sforzo? Soltanto perché lei mira ad un risultato, a qualcosa che è fuori di lei. Ma quando sa veramente che quello che cerca è la sua vera natura, allora si libera dall’impulso di sforzarsi.

Prima di tutto, osservi dunque che lei sta costantemente facendo uno sforzo. Quando  lei sarà consapevole di questo processo, si troverà fuori di esso. E potrà arrivare alla percezione originale di essere lei stesso davvero silenzio.

D.: Ma questo vedere non richiede nessuno sforzo?

J.K.: No. Questo vedere è il vostro stato naturale. Siate soltanto consapevoli del fatto che non vedete. Diventate più consapevoli del fatto di essere continuamente in reazione. Vedere non richiede sforzo, perché la vostra natura è vedere, essere silenzio. Quando non cercate più un risultato, non cercate di criticare, di valutare o di concludere, ma osservate soltanto, allora potete percepire questa reazione e non esserne più complici.

D.: Nel corso della posizione, quando ha luogo il processo di svuotamento, viene questo pensiero: «Questo è soltanto un pensiero». Ma il pensiero «questo è soltanto un pensiero», è anch’esso un pensiero, non è così?

J.K.: Sì, assolutamente. Vedere non è in se stesso un pensiero, ma, all’inizio, conosciamo il vedere soltanto come percezione di oggetti. Più tardi si arriva al puro vedere, senza un oggetto. Allora c’è la percezione interiore che si è questo puro vedere e che tutto ciò che è visto appare dentro di voi. In quel momento vedere non è più toccato da ciò che è visto.

Focalizzare l’attenzione su qualcosa genera tensione. Per quanto possano esserci dei momenti di distacco, per la maggior parte del tempo siete coinvolti in ciò che state vedendo. Ma attraverso il processo dell’osservare qualcosa, potete arrivare al puro vedere, senza oggetto.

Date al vedere una libertà totale, senza cercare di controllarlo. E poiché ciò che è visto è energia proiettata sopra un’apparenza in colui che vede, quando ciò che è visto è libero da una localizzazione esso ritorna indietro verso colui che vede e si dissolve in lui, poiché il veduto è discontinuo, mentre colui che vede è continuo. L’ultimo percipiente è trovato attraverso questa relazione tra colui che vede e il veduto.

Normalmente conosciamo colui che vede soltanto attraverso il veduto. Nei momenti di puro vedere diciamo che non vi è nulla, perché conosciamo noi stessi soltanto nella relazione soggetto-oggetto. Ma quando siamo convinti che dietro il veduto vi è colui che vede e che il veduto appare in lui, allora non mettiamo più l’accento su ciò che è visto ma su colui che vede.

D.: Questo non rappresenta forse un traguardo per chi non lo ha mai sperimentato? Io non ho mai veduto senza un oggetto o senza proiettare la mia stessa immagine su di un oggetto, ma io credo che ci sia un modo di vedere in cui io non vedo soltanto le immagini create dalla mente… E allora… Trasferirsi dietro la mente?

J.K.: Tuttavia lei conosce delle occasioni, nella sua vita, in cui vi è puro vedere senza che vi sia nulla da vedere. Per esempio, lei ha un problema. Quando lei lo penetra, viene un momento in cui esso è completamente risolto. Allora vi è una completa soddisfazione, senza alcun desiderio di aggiungere o di sottrarre qualcosa.

Quando un desiderio è realizzato, lei arriva ad uno stato di completo non-desiderio in cui non sono presenti né il soggetto che desidera né l’oggetto desiderato. Lei può persino dire che vi è felicità, perché lei è la felicità.

Ma, dopo aver vissuto tutto ciò, osservi come l’ego si presenti a reclamare e ad oggettivare il momento, volgendolo in una sorta di caricatura, alla maniera di un pagliaccio di circo, che solleciti le ovazioni del pubblico, sebbene egli non sia stato affatto l’attore principale.

D.: Vuol dirci qualcosa ancora del pensiero come difesa?

J.K.: Naturalmente, quando ho detto ciò l’ho fatto a ragion veduta. Arriva il momento in cui lei può vedere che, prima del pensiero, vi è una pulsazione e la potenzialità del pensiero è già presente in essa. La pulsazione forza il cervello e lei, istintivamente, cerca il simbolo, la formulazione.

D.: Questa pulsazione può placare se stessa, prima di diventare pensiero?

J.K.: Sì, se lei è molto attento può arrestare la pulsazione. Percepirla prima che diventi pensiero riduce le vibrazioni del cervello e acquieta in tal modo l’agitazione mentale e fisica.

Dovremmo saper vedere che entrambi, il fare e il non fare, sono ancora un fare. Il processo dell’avere e diventare cessa soltanto quando ci poniamo in ascolto, perché la nostra vera natura è l’ascolto.

Lo stato di veglia, quello di sogno e quello di sonno sono sovrapposizioni al puro ascolto. Quest’ultimo non ha riferimenti ad un ascoltatore o a qualcosa di udito. Tutti gli stati appaiono nell’ascolto. Perciò più lei è presente all’ascolto, più si manifesta un lasciare la presa rispetto al fare e al non fare.

Normalmente, quando parliamo di ascolto, intendiamo riferirci al fatto di essere attenti a qualcosa di particolare. Ma quando parlo di questo, intendo un ascolto che si riferisce soltanto a se stesso. È come qualcuno che le chieda: «Che cos’hai in bocca?» Lei risponde: «Nulla», ma in realtà ha in bocca il gusto della bocca Può non esservi né sale né zucchero in essa, ma il gusto della sua bocca è presente. Il puro ascolto ha il suo proprio gusto.

D.: Qualche volta ascolto il suo discorso, ma successivamente non riesco a ricordare una cosa che lei ha detto.

J.K.: Quando lei ascolta senza memorizzare o concludere, non può ricordare. Il discorso ritorna verso di lei, ma non attraverso il processo usuale della memoria. Se lei cerca di ritenerlo, che cosa afferra? Soltanto le parole, la formulazione e, allora, ascolta attraverso il velo di ciò che è già conosciuto, attraverso il paragone con il passato. Lei invece deve diventare innocente nel suo ascolto.

Quando lei ascolta senza abbozzare conclusioni, ad un certo punto, quello che stava dietro l’ascolto salta su, forse già il giorno dopo o dopo un mese o sei mesi, ma questo saltar su non è dovuto ad alcuno sforzo inteso ad afferrarlo. Nel processo della memorizzazione il vero sapore si perde.

D.: Ci sono cose che lei dice che mi scuotono in modo particolare e restano piantate nella mia mente. Per esempio, qualche giorno fa lei ha detto: «Cessate di eliminare: rendetevi conto che state costruendo tutto il tempo». Quest’osservazione continua a tornarmi alla mente. Eppure lei non ha fatto alcuno sforzo per ricordarlo. E’ la frase a venire verso di lei.

J.K.: In realtà possiamo ricordare così poco, in modo consapevole. Pensi a tutte le esperienze che ha compiuto durante la sua vita e a come siano poche quelle che ancora ricorda. Lei ha persino dimenticato la sensazione avuta stamane al risveglio, quello che ha mangiato ieri, persino ciò che ha pensato alle tre di oggi pomeriggio.

Quando la vibrazione del cervello diminuisce, è possibile ricordare cose che erano state dimenticate dalla memoria ordinaria. Ad una frequenza molto bassa, l’individuo può anche ritornare ad un’incarnazione precedente.

Ma questi tipi di esperienza sono più o meno delle distrazioni, modi di dare sostegno all’idea della persona. Perché, nonostante la riduzione della frequenza del cervello, continuiamo ad identificarci con l’ego. D’altra parte, la tensione sorge ancora quando uno ha realizzato il Sé. Ma colui che vive coscientemente nel Sé è fuori dal processo del divenire, così il suo cervello e le funzioni del suo corpo sono molto diverse da quelle proprie della persona che non ha realizzato il Sé.

D.: Allora i suoi sensi funzionano in modo diverso?

J.K.: In genere, tutti i nostri sensi funzionano attraverso il meccanismo dell’afferrare. La mente proietta qualcosa all’esterno, da afferrare con i sensi. In realtà, fuori non vi è altro che la nostra consapevolezza.

All’inizio, quando vediamo un uccello, vi è pura percezione Successivamente, lo concettualizziamo. Nel momento in cui vi e la concettualizzazione la percezione non è più presente, giacché il concetto e il percetto non possono sussistere simultaneamente.

D.: Se lei lascia cadere il concetto, che cosa resta?

J.K.: La sua identità con l’uccello. Ma questa identità non è un’immagine mentale di unità. E’ un’esperienza globale.

D.: E, nel momento dell’unità, lei è una sola cosa con ogni cosa, non è così? O è uno soltanto con l’uccello e non con tutto il resto?

J.K.: Lei è soltanto essere. Quando lascia la presa, lascia il nome e la forma dell’uomo che vede. Che cosa resta? Il vero uomo appare e, in esso, il suo essere uno. Nell’istante in cui lascia cadere la forma, lascia andare il corpo. Quando lascia il nome, lascia cadere la mente. Così resta soltanto l’essere e l’essere è indivisibile. Esso è la corrente della quale abbiamo parlato prima. Quando questa corrente è presente non vi è più fissazione né ripetizione, soltanto il flusso e lo scorrere della corrente.

Jean Klein

Fonte: https://ilblogdellanimale.com/2016/07/23/larte-dellascolto-jean-klein/

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