L’uscita dall’ Egitto.

Terra x Blog + Nero 2015

L’uscita dall’ Egitto.

Cosa vuole insegnare, dal punto di vista esoterico, la storia biblica dell’uscita dall’Egitto? Per cercare una risposta (non l’unica) occorre fare un piccolo sforzo di lettura simbolica.

Innanzitutto, l’etimologia del nome Egitto – in ebraico Mitzraim – significa “luogo stretto” ed è in analogia con la parola meitzarim, cioè “luoghi angusti”. L’Egitto non simboleggia solo la schiavitù, fisica ed interiore, ma anche l’angoscia, la depressione dell’anima soffocata, che non riesce più a respirare.

Tale angoscia è dovuta al fatto che non si ha la capacità o la volontà di ascoltare la propria voce interiore (o meglio non riconoscere a quale tra le tante che ci abitano dover dare ascolto). In tal modo l’anima rimane chiusa e prigioniera in se stessa, ostacolata dalla paura di attraversare le acque alla ricerca dello spazio aperto di una terra promessa. Temendo il futuro rischia di morire asfissiata e cristallizzata nel passato.

L’uscita dalla terra d’Egitto rappresenta quindi il movimento attivo di abbandono della schiavitù, verso la libertà. L’Egitto è il simbolo che rappresenta ciò che “in passato è stato buono” ma poi ha smesso di esserlo, perché ha esaurito la sua funzione.

Ognuno di noi, prima o poi, si imbatte in luoghi che diventano stretti. Gli stessi luoghi che in passato sono serviti per la nostra maturazione e la nostra crescita, diventano stretti e limitanti. Ma alle nostre tendenze non piace cambiare, uscire, anche perché non conosciamo nulla di differente delle nostre abitudini e il nuovo ci spaventa.

Quando le porte del passato si chiudono, ma quelle del futuro non si aprono, ecco che sperimentiamo la più temuta delle sensazioni: il terrore di morire. Ed è proprio questa sensazione che pervade il popolo ebraico quando si trova tra l’esercito degli egiziani e il Mar Rosso.

Senza sapere come procedere, il popolo si divide in quattro accampamenti:

il primo vuole tornare indietro,
il secondo vuole lottare,
il terzo vuole buttarsi nel mare
e il quarto si mette a pregare.

Secondo l’insegnamento chassidico, questi quattro atteggiamenti rappresentano le forme di resistenza. La stessa idea di accamparsi è in sé un modo per bloccarsi.

Colui che propone il ritorno riconosce il potere del luogo stretto. La vita ordinaria è tanto potente che è stata un’illusione lasciarsi prendere dal sogno di uscirne. Meglio ritornare nella prigione e accontentarsi dei suoi piccoli agi (la pillola azzurra di Matrix).

Lottare è, a sua volta, la convinzione che si potrà fare del luogo stretto un luogo più ampio. Se il luogo stretto è così potente da imporsi come realtà, ciò che rimane è sfidarlo, come se la ristrettezza fosse esterna e non un processo di relazione fra il mondo esterno e quello interno. Infatti il luogo stretto un tempo non era vissuto come tale.

Buttarsi in mare è l’atteggiamento della disperazione, la rassegnazione per cui, oltre a non tornare al luogo stretto, mai si potrà raggiungere un nuovo luogo ampio, fissuto come utopistico e irrealizzabile.

Pregare è invece un modo per rendere la nuova situazione una riproduzione del luogo stretto, ricercando un compromesso che non imponga di doversi ridefinire, aggrappandosi ai vecchi significati ormai decaduti (il paradosso di avere Dio di fronte e voltargli le spalle per pregare qualcos’altro).

Ma dato che nessuno di questi quattro atteggiamenti è la via appropriata, interviene Mosè per rispondere ai rispettivi tentennamenti interiori:

E disse Mosè al popolo: “non temete, rimanete fermi e osservate la salvezza dell’Eterno (a quelli che voleva buttarsi nel mare); perché gli egiziani che vedete oggi non li rivedrete mai più (a quelli che desideravano tornare); l’Eterno lotterà per voi (a quelli che volevano lottare) e voi rimarrete in silenzio (a quelli che volevano pregare)” [Esodo 14,13].

La soluzione indicata da Dio per spronare verso la libertà è: dì a Israele che marci [Esodo 14,15]. Occorre mettersi in cammino, muoversi, agire. Ma in che modo? Semplice, riconoscendo e portandosi al di là delle proprie reazioni meccaniche, proprio quei meccanismi che, nell’ombra, ci mantengono fermi in un accampamento.

Questo profondo atto di fiducia verso la vita e nel processo vitale stesso, garantisce il passaggio attraverso il vuoto; ciò che non esisteva viene ad esistere magicamente e un nuovo “luogo ampio” diventa visibile ed accessibile. Esattamente come il processo della nascita, lanciarsi verso un luogo più ampio è sempre un processo pauroso, angosciante ma anche magico.

E quando le acque del Mar Rosso si aprono e noi le attraversiamo, giunti all’altra sponda possiamo constatare estasiati l’esistenza di un’altra realtà interiore dentro di noi.

Il Magghid di Kosnitz diceva: “Ogni giorno l’uomo deve uscire dall’Egitto”.

Fonte del Post: https://associazioneperankh.wordpress.com/2015/12/30/luscita-dallegitto/#more-2031

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