Siamo responsabili della nostra distrazione.

Terra x Blog + Nero 2015

Noi, unici responsabili della nostra distrazione.

La vera causa della nostra crescente distrazione sono i dispositivi digitali come gli smartphone, i tablet e i computer? Stare costantemente a contatto con la loro evanescente realtà virtuale è all’origine della nostra incapacità di vivere la nostra realtà, quale essa si presenta crudamente nella vita di tutti i giorni? Per descrivere la nostra condizione contemporanea, è stato evocato il mito della caverna di Platone.

Il mito della caverna di Platone descrive una condizione nella quale uomini prigionieri si trovano all’interno di una caverna, immobilizzati, col viso rivolto verso la parete. All’interno della caverna c’è un grande fuoco. Tra il fuoco e i prigionieri c’è un passaggio di persone, animali e oggetti, in modo tale che sia possibile vederne le ombre proiettate sulla parete. I prigionieri hanno così una conoscenza del mondo solo per il tramite di queste ombre. Qualora fossero liberati, la luce del sole li accecherebbe e preferirebbero tornare nella caverna. Riuscendo a vedere le cose reali, queste ultime sembrerebbero loro meno reali delle ombre alle quali erano abituati. E volendo in caso tornare indietro per esortare i propri compagni a liberarsi, non verrebbero creduti.

Il continuo e ripetuto contatto coi media digitali ci espone effettivamente a una condizione di realtà surrogata, che rischia di indebolire la nostra capacità di comprensione del reale. Se ad esempio ci riferiamo alla sfera emotiva, assistiamo oggi a un sicuro impoverimento – rafforzato anche dall’uso di emoticons per esprimere gli stati d’animo – che fiacca la nostra capacità di riconoscere e interpretare le emozioni proprie e altrui.

Viene dunque spontaneo incolpare della nostra distrazione elementi a noi esterni, come gli smartphone o gli stimoli visivi e sonori cui siamo di continuo sottoposti. Ma a ben pensarci, si tratta solo di fenomeni neutri. Per una buona parte del nostro tempo ci troviamo in una condizione nella quale la mente vagabonda da una parte all’altra (“Mind-wandering”, o mente errante), senza un intento o un oggetto d’attenzione preciso. I neuroscienziati hanno perfino individuato alcune aree del cervello, connesse tra loro (“Default Mode Network”) che sono tipiche di questo stato, nel quale l’attenzione non è rivolta ad alcuna cosa in particolare. È per l’appunto lo stato “di default” della mente. Il problema è che la mente se ne va da una parte all’altra anche quando dovremmo essere focalizzati, ma questa è una sua caratteristica intrinseca, come ha notato la scrittrice e insegnante di meditazione Judy Lief. Se ragioniamo in termini di mente errante, dobbiamo guardare in noi stessi, anziché al di fuori di noi, e assumerci le nostre responsabilità.

Il testo che segue è un’anticipazione del prossimo libro di Paolo Subioli, attualmente in preparazione.

«In Cina, circa 1.500 anni fa, fu coniata la metafora della “mente scimmia“, molto usata in Oriente, per indicare la tendenza della mente a saltare da una parte all’altra. È una scimmia che ci portiamo sempre appresso, ovunque andiamo, e da molti secoli. I media digitali non c’entrano nulla. Sempre in Oriente, sono state messe a punto le contromisure, rispetto alla nostra distrazione cronica, ovvero la presenza mentale e la meditazione. La soluzione del problema è a nostro carico, come fu per Ulisse, trovatosi a fronteggiare il mortale pericolo delle sirene, che col loro canto richiamavano i marinai per farli poi morire. Ulisse non se la prese con le sirene, ma adottò provvedimenti intervenendo su ciò che era in suo potere. Tappò le orecchie ai marinai e legò se stesso all’albero della nave, per impedirsi di abbandonarla.

Dunque, rivolgere l’attenzione verso se stessi non è una tecnica per stare meglio o per diventare persone un po’ migliori attraverso la meditazione, ma un radicale cambiamento di prospettiva. È assumersi la responsabilità della propria mente scimmia. È preoccuparsi di capire cosa c’è veramente, dietro la nostra distrazione. Potremmo ad esempio scoprire che la distrazione è una difesa che mettiamo in atto per non vedere veramente le cose come stanno. Essere circondati da schermi di tutte le dimensioni, che di continuo richiedono la nostra attenzione, è il diversivo perfetto per non vedere i nostri problemi e gli stati di disagio, per nascondere sotto il tappeto l’ansia, la rabbia, la frustrazione e la paura.

Chögyam Trungpa ha parlato di mente dello svago (“Entertainment Mind”) per descrivere la nostra condizione di persone che hanno un continuo bisogno di distrazioni. Se non le abbiamo a disposizione, ce le inventiamo. Ci creiamo il nostro mondo perfetto, come nel film Truman Show (1998), nel quale il protagonista vive sin dalla nascita nel set televisivo di un reality show. Quando se ne accorge deve scegliere tra la tranquilla, agiata e colorata vita del set e la grigia esistenza reale delle persone comuni. L’intrattenimento continuo ci mette al riparo da ogni sorta di pericolo, ci protegge dalle minacce che provengono potenzialmente da ogni parte e da ogni persona con la quale interagiamo, come ci fa notare Judy Lief.

Un antidoto contro la paura.

Viviamo in un’epoca dominata dalla paura. I cambiamenti climatici ci assicurano che il mondo del futuro sarà più difficile di quello attuale. La globalizzazione porta perdita dell’identità culturale e salari più bassi. Il debito pubblico è un macigno che pesa sulle generazioni future. Una popolazione mondiale che raggiungerà per lo meno quota 9-10 miliardi porterà molti problemi in più e nel frattempo le tecnologie digitali rendono superflui sempre più posti di lavoro, in un’economia dominata da interessi finanziari fuori da ogni controllo.

Questa paura permea ormai ogni nostra azione, individuale e collettiva. Ma non viene mai manifestata in forma diretta. Nei dibattiti pubblici, ad esempio, non si parla se non di rado dei cambiamenti climatici e delle loro conseguenze, ma nel frattempo i genitori della mia generazione (nati dopo gli anni ’50) sono tutti molto più apprensivi rispetto ai padri e alle madri che li hanno cresciuti. Cos’è, se non paura del futuro?

Abbiamo questa e molte altre paure e inoltre sappiamo sempre meno gestire la nostra convivenza con gli altri, dalla relazione di coppia alle dinamiche all’interno dell’azienda. In queste relazioni domina il non detto e il non espresso. Nell’opacità che ricopre tutto emerge di continuo il sospetto, l’idea sempre sottesa ma mai riconosciuta che gli altri possano costituire una minaccia per noi.

La soluzione più facile e sempre più a portata di mano è accendere lo smartphone per scorrere lo streaming, mai troppo impegnativo, di Facebook o cimentarci in una vacua conversazione di gruppo su Whatsapp.

Se le cose stanno così, i nostri dispositivi digitali hanno forse qualche colpa? Questi schermi, che escono dal negozio come oggetti del tutto privi di connotazione, diventano per noi come l’orchestra della nave da crociera, alla quale viene ordinato di suonare ininterrottamente, anche mentre la barca sta colando a picco. Una volta, nel corso di un incontro di meditazione il facilitatore chiese. “Chi di voi si trova bene con se stesso?” Con mio grande stupore, mi accorsi di essere stato l’unico ad alzare la mano. Com’è possibile? Mi sono chiesto. La risposta non è difficile. Appena tutti i suoni e le luci tacciono intorno a noi, ci ritroviamo faccia a faccia con la miseria e il dolore dei nostri sentimenti più disagevoli: rabbia, paura, ansia, insoddisfazione. E allora ci giudichiamo, reputandoci inadeguati, e ci sentiamo in colpa. La mente giudicante è sempre in agguato.

L’intenzione fa la differenza.

Se prendiamo consapevolezza di ciò, possiamo compiere il salto di qualità e imboccare la strada della liberazione. Non è la strada che ci porta verso una vita meno stressante, nella quale impariamo a prenderci delle pause, a rilassarci nei momenti giusti per essere delle persone più calme e comprensive. È la strada della saggezza, che ci porta verso una comprensione nuda e senza veli della realtà come si manifesta nel momento presente. In ogni momento presente della nostra vita.

Tutti i maggiori maestri spirituali hanno insegnato che l’intenzione è il fattore che più di tutti incide nella nostra capacità di diventare persone liberate e felici. L’intenzione è ciò che fa la differenza. Se ci sediamo in meditazione col chiaro proposito di imparare a osservare la realtà per quello che veramente è, e non per quello che vorremmo che sia; se siamo disposti a cogliere in tutte le sue conseguenze la natura impermanente e inaffidabile del mondo che ci circonda e di cui noi stessi siamo parte; se diamo per buono il proposito di abbandonare una visione basata sull’idea di un sé separato. Se facciamo un esercizio quotidiano del nudo incontro con la realtà del momento presente così come si manifesta, impareremo – e succederà pian piano – a stare volentieri da soli con noi stessi. Perché smetteremo di giudicarci, diventando in grado di osservare sul serio di cosa siamo fatti: un corpo; sensazioni basate sui 5 organi di senso; percezioni basate sulla nostra memoria della realtà; formazioni che si creano nella mente sotto forma di pensieri, stati d’animo, sentimenti; una coscienza che si crea non appena ci rendiamo conto di ciascuna di queste cose. Non c’è altro da scoprire che questo e questa rivelazione ci mette finalmente in pace con noi stessi e di conseguenza con gli altri.

Se l’intenzione è saggia, i dispositivi digitali escono pienamente assolti da qualsiasi processo a loro carico. Siamo noi che li comandiamo. I computer, i tablet e gli smartphone sono strumenti “general-purpose”, cioè progettati per coprire un’ampia gamma di funzionalità diverse. Ci si fa di tutto. Si presentano con un hardware e un sistema operativo, i quali possono equanimemente ospitare qualsiasi tipo di applicazione. Siamo noi che installando determinati programmi o app, decidiamo cosa fare di un dispositivo, che comunque possiamo accendere o spegnere a nostro piacimento, lavoro permettendo.

Anzi, a differenza di altri potenziali fattori di distrazione, i dispositivi digitali possono essere volti a vantaggio di una maggiore consapevolezza, se decidiamo di adottare certe app o di fruire di certi tipi di contenuti anziché di altri. La distrazione è una nostra responsabilità al cento per cento.

Paolo Subioli

Fonte del Post: http://zeninthecity.org/unici-responsabili-della-nostra-distrazione/

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