Riflessioni: Cercare l’Introvabile.

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Cercare l’Introvabile… Cercarsi e non trovarsi.

Il cercare è, in primo luogo, un’istanza del pensiero che presuppone l’identificazione, prima e la possibilità, poi, di trovare l’oggetto che viene cercato. Successivamente, l’azione della effettiva ricerca viene messa in atto mediante varie attività, sia fisiche, sia intellettuali, in ogni caso esperienziali. In parole diverse, il cercatore crede – consapevolmente o meno – che ci sia qualcosa o qualcuno da cercare, che sia possibile trovarlo, che la ricerca abbia quindi un senso compiuto, che sia un’attività concreta e organizzabile, che sia necessario il tempo per condurla in porto e che, una volta trovato l’oggetto ricercato, da tale “conquista” ne verrà qualcosa di utile e auspicabile per sé. Altrimenti… perché mai si dovrebbe cercare qualcosa, se già si sa che non sarà possibile trovarla o che non servirà a niente?

Altro fattore significativo del cercare è la soggiacente convinzione che ciò che viene cercato, nel momento presente, manchi, o non sia disponibile; in caso contrario, perché mai si dovrebbe andare alla ricerca di qualcosa che è già a disposizione, tra le nostre mani? Avrebbe senso? No, non ne avrebbe.

Ricapitolando, la ricerca presuppone: 1) il giudizio che nel momento presente manchi qualcosa, 2) che lo si possa cercare qui o là, così o cosà, 3) che sia comunque rintracciabile e acquisibile, 4) che sia necessario il tempo per concludere il processo e 5) che, raggiunto l’obbiettivo prefissato, ciò che ne verrà sarà un guadagno personale di qualche tipo.

Se osservato, questo movimento ci mostra con chiarezza che il cercatore è convinto di essere “qualcuno”, di essere dotato di capacità discriminative, di una libera volontà, di un libero arbitrio, di una possibilità di scelta, di essere in grado di identificare qualcosa o qualcuno – diverso da colui che cerca – che manca nel presente, ma raggiungibile attraverso il tempo e che, una volta acquisito, porterà un qualche tipo di giovamento personale. Ti torna?

Se al momento tu fossi disoccupato, con ogni probabilità cercheresti un lavoro; se tu fossi ammalato, cercheresti una terapia efficace e se stessi soffrendo emotivamente cercheresti la pace. E’ così strano? Parrebbe proprio di no, vero? E, infatti, non lo è. Ma vediamo di non fermarci qui.

L’organismo fisico ha bisogno di cibo per ricavarne l’energia necessaria al suo funzionamento ed alla sua sopravvivenza; in presenza dello stimolo della fame è del tutto naturale procacciarsi il cibo ed alimentarsi… altrimenti, col tempo, il corpo “muore”. Questo è un bisogno naturale che, se non soddisfatto, porta a conseguenze piuttosto drastiche, ne consegue che la ricerca di una fonte di approvvigionamento diventa necessaria… a meno che non si voglia farla finita con il corpo. Aria, acqua, cibo, sonno, spazio, luce, suono sono bisogni primari e vitali e nel caso in cui non fossero disponibili nel momento presente, giustificherebbero l’inizio di una ricerca finalizzata, con l’obbiettivo di acquisirli nel minor tempo possibile, al fine di ottenere un bene “personale”. Ma, per l’appunto, questi sono bisogni biologici ineludibili… non è però che, forse, noi cerchiamo appassionatamente anche altro? “Beni” psicologici?

La ricerca che porta alla soddisfazione di un bisogno biologico è ineludibile, pena la dissoluzione dell’organismo, ma la ricerca di soddisfazione psicologica ha lo stesso significato ed è altrettanto ineludibile? Raggiungere un determinato stato sociale ha, per esempio, lo stesso significato di raggiungere una fonte d’acqua potabile dopo 10 giorni senza bere, sotto il sole del deserto? In entrambi i casi si fissa un obbiettivo, si va alla sua ricerca, è necessario impiegare tempo e si pregusta un “guadagno” personale… ma su piani ben diversi. E’ semplice, vero?

Molti dei cosiddetti ricercatori spirituali sono alla ricerca di qualcosa… di che cosa? E perché mai sono alla ricerca di qualcosa? Qual è l’istanza che li muove? Vogliono ottenere qualcosa per sé? Vogliono conoscere se stessi, la divinità in sé, come la “moda” impone? O che altro? Bisognerebbe chiederlo ad ognuno di loro. Ma se si prova a de-personalizzare tutto, può essere che si esplicitino alcuni indizi.

Cercare di conoscere se stessi, cercare il risveglio, l’illuminazione, la consapevolezza, la beatitudine, l’equanimità, il Nirvana, il Regno dei cieli e quant’altro è il movente di ogni ricercatore spirituale. Ma non ti pare che questi siano obbiettivi prefissati? E da chi? E che ne sanno loro – cioè i cercatori – di Nirvana o Regno dei cieli, di risveglio o di illuminazione, visto che se ne sentono lontani o mancanti e che, proprio per questo, li stanno cercando? Ovviamente non ne sanno nulla; ma un’idea se la sono comunque fatta, grazie alla nutrita letteratura, ai tanti sedicenti maestri che ne parlano… in sostanza, si può affermare che se ne sono fatta un’idea… per sentito dire. Interessante, vero? Cercano quindi di ottenere un metodo, una pratica, un sistema per giungere, col tempo, la dedizione e il sacrificio, al soddisfacimento del desiderio che li ha spinti alla ricerca. Hanno letto o sentito dire che la consapevolezza, l’illuminazione, una volta ottenute, offrono la possibilità di vivere in uno stato estatico, di innamoramento, armonioso e compassionevole in ogni situazione di vita… e vogliono questo, pur non avendo alcuna “esperienza personale” o possibilità di “verifica” al riguardo… cioè, sempre per sentito dire. Ancora più interessante, no? In poche parole, non essendo “illuminati”, cercano qualcosa per sentito dire, per motivi di cui hanno ugualmente sentito dire… niente male, vero? Ma il più delle volte, le cose stanno esattamente così.

Ma, a prescindere dall’oggetto della ricerca, qual è l’origine, il “movente” che li spinge a ricercare? Non sarà il disagio, la sofferenza, il malessere che hanno provato o che provano al presente? Non sarà che tale disagio, soprattutto se prolungato, abbia innescato il desiderio di porvi finalmente fine? Non sarà che stiamo parlando, tanto per cambiare, del desiderio di benessere e appagamento? Non sarà che ci troviamo di fronte al giudizio e alla mancata accettazione di Ciò che c’è e conseguente desiderio di cambiarlo in “meglio”? Lascio a Te la risposta.

Il “ricercatore spirituale” non ha nulla di diverso dal “cercatore di fama e successo”, o da colui che cerca “l’amore della vita”, o di qualsiasi altra cosa. E’ l’atto del cercare che li accomuna, che li rende psicologicamente identici. Stiamo parlando di un atto che, invariabilmente, nasce da un giudizio personale, circa la presenza o meno di ciò che serve per stare bene… già, hai letto bene, ciò che serve… come se il benessere dipendesse da quello che, al momento, c’è o non c’è. In ogni percorso di ricerca, infatti, ciò che viene ricercato è sempre diverso da noi ed è sempre fuori di noi… è cioè un oggetto. Se per certi versi si potrebbe dire che un lavoro non è noi e quindi è diverso da noi, che un compagno o una compagna non sono noi e quindi sono diversi da noi, che dire se l’oggetto della ricerca siamo noi stessi? Non si dice sempre: “conosci te stesso” ? E questo te stesso chi è, o dov’è? E’ diverso da Te? O da me? Quindi, se l’oggetto della ricerca spirituale è ciò che siamo, andremo alla ricerca di quello che siamo come andremmo alla ricerca di un posto di lavoro? In questo tipo di atteggiamento ci si viene a trovare di fronte al paradosso di essere il soggetto della ricerca, cioè il cercatore, che va alla ricerca di se stesso come se fosse un oggetto… instaurando la schizofrenia di un soggetto che si cerca come oggetto. E quando mai si troverà?

Ovviamente, il trovare (o meno) è comunque un’esperienza, di conseguenza si può dire che il soggetto (il ricercatore) va alla ricerca di fare l’esperienza di se stesso, della propria reale essenza, guardando nella direzione degli oggetti… giungendo così allo strabismo spirituale. Ciò che siamo non è e non può essere un oggetto, o ancora meglio, ciò che siamo non può essere oggetto di esperienza. Se si cerca di scoprire chi o che cosa siamo veramente, dobbiamo mettere in conto che non ne potremo mai fare l’esperienza, dal momento che l’esperienza riguarda solamente gli oggetti esperiti nella coscienza. Oltre a ciò, è bene ricordare che l’esperienza prevede sempre un soggetto – lo sperimentatore – e un oggetto – ciò che viene sperimentato – nonché l’atto stesso di sperimentare; dove sta la non-dualità? Nessuna traccia!

A questo punto, però, entra in gioco il solito processo di identificazione con il corpo-mente: il corpo-mente è, senza dubbio alcuno, un oggetto di coscienza, altrimenti non potremmo nemmeno parlarne. Se è un oggetto di coscienza, molto facile da comprendere, non può essere il soggetto. E, allora, il soggetto dove sta e come lo cerchiamo?

Se lo cerchiamo allo stesso modo in cui cerchiamo di essere consapevoli del respiro, o del battito del cuore, di una sensazione, di un pensiero o di un’emozione, cioè di un oggetto di coscienza, non lo troveremo mai!

Piuttosto, si potrebbe intuire che una simile ricerca è priva di significato, in quanto ciò che siamo lo siamo già e non abbiamo nessuna necessità di andarlo a cercare di qua o di là, in un modo o in un altro… ma solamente di “accorgercene”. Non possiamo fare esperienza di noi stessi, possiamo solamente esserlo. Non si può trovare il “me”, l’ “io”… si può solamente esserlo, come in effetti già lo siamo. In caso contrario, se volessimo comunque continuare imperterriti la ricerca, non troveremo proprio nulla, se non il punto in cui cesseremo di cercare ciò che, in realtà, non è possibile trovare, dal momento che non esiste proprio nessuno che possa cercare o trovare alcunché.

La cosa veramente buffa è che se c’è un “qualcuno” che crede di avere trovato… significa che gli è lontano anni luce… e, quindi… campa cavallo che l’erba cresce.

E Tu, stai ancora cercando qualcosa o qualcuno?

Come sempre, a questa domanda puoi rispondere solamente tu.

Con affetto, Sid… Love*

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