Riflessioni: L’ insoddisfazione del me.

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Riflessioni: L’ insoddisfazione del me.

Credo che l’insoddisfazione sia il sottofondo in ogni umana quotidianità, escluse rare eccezioni, ovviamente. Credo anche che sia l’argomento che più potrebbe coinvolgere e interessare sia i cosiddetti ricercatori spirituali, sia tutti coloro ai quali non frega assolutamente nulla della conoscenza di sé, per il semplice fatto che l’insoddisfazione non piace proprio a nessuno, mentre, per contro, tutti vorrebbero liberarsene, qualora sia presente.

L’insoddisfazione è un tormento di sottofondo, una sensazione strisciante che accompagna la vita di quasi ogni essere umano su questo pianeta. La sua intensità varia da persona a persona e, per una stessa persona, da momento a momento; a volte si presenta sotto forma di leggera inquietudine, altre, sotto forma di violento conflitto interiore, ma, troppo spesso, anche esteriore. I nomi che le vengono attribuiti sono numerosi, quali stress, ansia, paura, tristezza, depressione, ma la sostanza rimane sempre la stessa: “c’è qualcosa che non va, o c’è qualcosa che manca, o c’è qualcosa che non è come sarebbe bello che fosse, o c’è qualcosa da raggiungere e conquistare… dopodiché sarà possibile definirsi soddisfatti… finalmente”.

Mi sembra di assistere alla tipica fenomenologia del miraggio nel deserto… l’aria surriscaldata e tremula fa intravvedere in lontananza un’oasi verde; la sete ed il calore estremo paiono finalmente prossimi alla fine, la promessa di un luogo fresco, rigoglioso, riparato ed accogliente è lì, proprio davanti agli occhi… basta ancora poco, un ultimo sforzo e tutto cambierà. Il naufrago solitario nel deserto, allora, raccoglie le sue ultime forze e riprende il cammino guardando fisso davanti a sé, verso quel punto nello spazio e nel tempo che gli promette la fine della sua tribolazione. Cammina, cammina, cammina, ma nonostante ogni sforzo, non raggiunge mai la meta… fino a che non crolla a terra esausto e privo di ogni ulteriore speranza. La resa.

Nell’istante stesso in cui crolla a terra, realizza l’inganno che la vista gli ha causato… l’oasi era solamente un’illusione ottica e nulla più. A quel punto, non gli resta che affidare la propria vita e la sua anima, se crede di averne una, a Dio, o se preferisci, alla Sorgente della Vita. Le sue ultime parole, un istante prima di perdere i sensi, potrebbero essere state: “Sia fatto a me, secondo la tua volontà… ti rendo me stesso”. E, finalmente, chiude gli occhi nella pace… la sua coscienza gli ha appena rivelato che più di così, umanamente, non avrebbe potuto fare. L’insoddisfazione si è dissolta. Il tempo è compiuto.

L’insoddisfazione, dunque, è la natura stessa del me, è inseparabile dal me, è la sostanza di cui il me è fatto; questo non può cambiare ed è assolutamente assurdo il tentare di farlo. Una pera non la puoi cambiare in una mela… resterà sempre una pera, anche se la colori, la tagli, la frulli o cos’altro ti potrebbe venire in mente di fare. Quello che è… resta quello che è. Mettiamoci l’anima in pace.

Ma affinché l’insoddisfazione possa esistere, è indispensabile che, prima di essa, sia presente un soggetto che sia in grado di provare tale sensazione. In assenza di un qualcuno che possiamo definire “sperimentatore”, non è possibile per nessuno sperimentare alcunché. Direi che questo dato sia incontrovertibile. Quindi, prima deve nascere uno sperimentatore, dopodiché, ogni sensazione, emozione ed esperienza potranno essere esperite da quello stesso soggetto. Ciò ci porta ad indagare a ritroso, proprio per individuare il soggetto in cui avviene l’esperienza… il me. In altre parole, per addentrarci nella conoscenza dell’insoddisfazione, ci ritroviamo catapultati a ritroso, per fare la conoscenza di colui che si dice insoddisfatto.

Ecco allora che possiamo stabilire che non potrà esserci una vera conoscenza della sensazione “insoddisfazione”, senza la conoscenza, a priori, del soggetto insoddisfatto e, oltre a ciò, possiamo renderci conto che non siamo di fronte a due conoscenze diverse, separate, bensì ad una stessa conoscenza, o meglio, ad un “conoscere” che non può che essere un processo unitario, alla scoperta di qualcosa, con ogni probabilità, di ignoto.

Il me è il frutto di un processo di identificazione che avviene ad opera della mente, cioè del pensiero-parola, della memoria, della percezione.

Un bambino “piccolo”, un giorno come tanti, si pone davanti allo specchio e guarda le immagini riflesse, come aveva già fatto in tante altre occasioni giocose. Ma quel giorno, davanti ai suoi occhi, compare qualcosa di nuovo, che non aveva mai visto prima: si vede… vede se stesso. Vede, quindi riconosce, il proprio corpo, i propri gesti e saltella, balla e grida per commemorare quella scoperta così straordinaria. L’eccitazione è molto forte in lui… quella, ancora non lo sa, è la scoperta che gli cambierà per sempre la vita e la percezione della realtà… con ogni probabilità, fino all’ultimo dei suoi giorni sulla terra. In quel momento è stato stabilito il dogma: “Io esisto, questo è il mio corpo, io sono quello che lo abita, che pensa, parla e sceglie”. Bé, in effetti non è che avvenga proprio così, ma credo comunque che l’esempio calzi e mostri bene il processo iniziale, attraverso il quale ognuno di noi umani si è identificato con un corpo, con una mente, con un mondo.

Da quel momento… nulla è mai stato più come prima, nulla sarà mai più come prima. Fine dell’innocenza, della libertà, dell’integrità, dell’Amore per l’ignoto… che è la Vita. Al loro posto sono immediatamente sorte la paura, la sensazione di pericolo esistenziale, il desiderio di protezione, di sicurezza, di controllo, la dipendenza, il condizionamento e, anziché dall’Amore spontaneo per l’ignoto, tutto viene mosso dal desiderio di possesso… di qualcosa di noto e di cui si ritiene di avere bisogno per soddisfare la propria permanenza nel mondo, nel migliore dei modi possibili.

Ti torna tutto ciò? … Sì? No?

Ma, allora, come potrebbe il me sentirsi finalmente e pienamente soddisfatto? Mi sa che la risposta non ti piacerà… non potrà mai esserlo, per quanto si possa credere il contrario, per quanto ci si possa sforzare, al fine di realizzarlo. Non esiste alcun me. Non esiste nessuno che possa fare alcunchè.

Ma com’è possibile ciò? Non ci avevano detto che Dio è Amore? E, allora, perché non ci dimostra che ci ama? Allora, forse, questo vuole dire che Dio non esiste o, forse, che se esiste non è interessato a noi o è arrabbiato con noi, poveri, miseri e minuscoli peccatori, che poco o nulla meritiamo. Quanti commenti su questa falsa riga abbiamo già sentito? Un bel po’, vero? Il suggerimento è di buttarli tutti nella spazzatura.

E’ evidente, o dovrebbe esserlo, che se si pone il proprio benessere, presente o futuro, in qualcosa che ora c’è e più tardi potrebbe non esserci più… che sia una cosa, una persona, un lavoro, o un ideale… si è destinati, inevitabilmente, all’insoddisfazione. Tutto, in questo strano mondo, è impermanente, di conseguenza se riponiamo la nostra soddisfazione su ciò che è impermanente, prima o poi, incontreremo nuovamente la sua mancanza, quindi l’insoddisfazione, con tutto ciò che ne consegue: lotta, paura, rabbia, egoismo.

Prendi un uomo che abbia vissuto a lungo in una collettività, della quale conosce usi, costumi, tradizioni, politica, religioni, economia, regole sociali, lingua… quest’uomo è in grado di districarsi nella quotidianità di quel mondo – che gli piaccia o meno, che sia soddisfatto o meno non fa differenza – di relazionarsi con l’esistente, sia esso fatto di persone, di attività, di leggi, di comportamenti e così via. Porta quell’uomo su un altro pianeta, dove nulla è come ciò che ha conosciuto fino a quel momento, dove persino le leggi della fisica, della chimica, della biologia sono diverse, dove anche l’aspetto, l’idioma, le leggi, le tradizioni dei residenti sono completamente diverse… credi che quell’uomo potrebbe sentirsi “solo”, in un mondo così? Probabilmente sì. Credi che potrebbe sentirsi a suo agio, al sicuro, capace di sopravvivere? La risposta, eccetto che non stiamo parlando dell’intramontabile Rambo, dovrebbe essere: No, non lo sarebbe. E, allora, perché mai tu, o io, dovremmo sentirci diversamente su questo pianeta, la terra, in questa realtà? La domanda ti spiazza un po’?

Potresti rispondere che sei nato qui e che conosci ogni cosa, quindi che l’esempio dell’emigrato terrestre non calza… ma ne sei proprio sicuro?

Al principio era il Tutto, l’Indifferenziato, l’Assoluto, l’Onnipotente, l’Uguale a Se Stesso, il senza secondo, il senza tempo… poi, guardando un’immagine allo specchio, Quello ha creduto di riconoscere qualcuno e un pensiero è sorto: “Io sono questo corpo, che vedo con i miei occhi, che tocco con le mie mani. Se lo vedono i miei occhi, se lo toccano le mie mani, allora deve essere vero”. Mai considerazione sarebbe potuta essere più falsa… mai percezione sarebbe potuta essere più illusoria… mai associazione sarebbe potuta essere più limitante e condizionante.

Un minuscolo bambino, dipendente in tutto, senza difesa alcuna, all’oscuro di ogni legge e consuetudine di un mondo immenso, sconosciuto ed estraneo, all’improvviso, riconosce di essere tale, di versare in questa condizione così impressionante e solitaria… come credi che si possa essere sentito? Non te lo ricordi più, vero? Allora te lo ricordo io: si è sentito solo, perduto, bisognoso e inadeguato. Ti torna?

Ma se quel bambino non fosse mai “nato”, se cioè non si fosse riconosciuto in quel corpo e in quei pensieri, se avesse mantenuto la chiarezza del senso di Essere con cui aveva sempre vissuto prima di quel ri-conoscimento… credi che si sarebbe sentito così solo, così inadeguato, così perso… in altre parole… credi che si sarebbe potuto sentire insoddisfatto di sé, della sua condizione e del mondo?

A queste domande, come sempre, puoi rispondere solamente Tu.

Con affetto, Sid… Love*

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