Riflessioni: Morire a Se stessi.

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Morire a Se Stessi.

Vangelo di Matteo: 16 – 24, 25, 26

24 Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. 25 Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. 26 Qual vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio della propria anima?

Cosa significa: “Morire a se stessi”?
Forse che ci dobbiamo suicidare? Oppure sopportare pazientemente ogni ingiustizia e avversità senza proferire parola, cioè subendo in silenzio? Negare se stessi e compiacere gli altri? Rinunciare a ciò che amiamo o riteniamo importante per noi?

Nulla di tutto ciò! Nulla di più lontano! Nulla di più stupido!

Anziché iniziare dal tentativo interpretativo di questa affermazione, la logica suggerirebbe di scoprire, in primo luogo, chi è il soggetto in odore di morire a se stesso e, dunque, scavare direttamente fino ad esporre la radice di questo soggetto. Detto in altre parole, chi è che dovrebbe morire a se stesso? Tu? Io? O chi?

Quasi ognuno di noi è completamente identificato con il cosiddetto complesso corpo-mente. Chi è così identificato ritiene che il corpo, la mente e la vita siano “cose” sue, che gli appartengano. Definisce se stesso come un non meglio identificato “io”, capace di pensare, di scegliere, di agire e che se ne sta dentro un corpo umano, che è nato e che dovrà morire… fine della storia.

Per costui la vita ha una durata limitata, come tutto quello che compare davanti ai suoi occhi, nel mondo, come nell’universo; è ovvio quindi che, essendosi identificato con qualcosa di limitato e temporaneo, non possa nemmeno essere in grado di concepire il senza limite o l’eterno. E’ ugualmente ovvio che, essendosi basato sulla forma fisica, quale realtà indiscussa ed unica, non possa che ritenersi diverso e separato da tutto ciò che lo circonda, a partire dagli altri esseri viventi, fino ad ogni forma materiale di cui può fare esperienza. Ma, senz’altro, la divisione maggiore che percepisce è quella tra sé e la Vita – che ritiene quasi sempre un mistero insondabile ed ingiusto – sulla quale vorrebbe costantemente agire, al fine di plasmarla a suo piacimento.

Avendo fatto del limite la sua stessa essenza, non può che percepire limiti ovunque ed in chiunque. Il limite e la scarsità sono la sua Bibbia. Scarsità di tempo, scarsità di spazio, scarsità di risorse, scarsità di gioia, scarsità di amore, scarsità di libertà, scarsità di comprensione, scarsità di soddisfazione, scarsità di autostima, scarsità di lavoro, scarsità di denaro… basta così? Direi proprio di sì.

I risultati di questa psicologia interiore sono davanti agli occhi di tutti noi: paura, conflitto, egoismo, competizione, prevaricazione, sfruttamento, accaparramento, depressione, sofferenza, follia, distruzione… e mi fermo, per non rigirare il coltello nella piaga. Mi pare ovvio che, in queste condizioni, sorgano spontanei sia la non accettazione di questo ordine di cose, sia il desiderio di cambiarle. In un certo senso, nulla da eccepire. Ma quali sono le ricette per cambiare tutto ciò? Ed è veramente possibile agire SU qualcosa?

Chi è identificato con il “proprio” io, quindi separato da tutto ciò che è, ritiene plausibile agire sulle “cose” esteriori per modificarle. Riforme, leggi, dottrine, dogmi, politica, economia diventano pertanto il teatro di scontri ideologici e religiosi riguardo le vie da perseguire al fine di raggiungere questo o quel risultato auspicabile. Nel proprio intimo, ugualmente, il desiderio e la ricerca di appagamento lo portano a perseguire un risultato, piuttosto che un altro. In entrambi i casi – nel mondo e nell’intimo – l’unico risultato che si ottiene è il conflitto, che non può che peggiorare la situazione.

Qualunque attività che comporti uno sforzo volitivo atto a raggiungere qualcosa che al momento presente non c’è, oltre che un’illusione, è una frizione, una resistenza, un attaccamento e, in ultima analisi, un conflitto tra ciò che è e ciò che vorremmo che fosse, ma ora non è. E’ “tempo” in azione, memoria, passato, cioè il conosciuto che viene proiettato in un tempo futuro, ma che parte, invariabilmente, dal passato di cui abbiamo fatto esperienza… nulla di veramente nuovo, nulla di ignoto. Con simili premesse, nulla potrà mai cambiare realmente… si otterranno esclusivamente effetti maquillage sul cadavere del nostro passato. Amen.

C’è quindi qualcosa che non cambia mai, che ci portiamo sempre dietro, sia nella lamentela, sia nel desiderare altro, sia nella paura, sia nel conflitto… e che cos’è? E’ il punto da cui osserviamo tutto quanto: il mondo e noi stessi… il fulcro di ogni considerazione, di ogni valutazione, di ogni scelta, di ogni desiderio, di ogni sforzo, di ogni obbiettivo… “io”. Punto.

Questo “io” è una storia, conservata come una sacra reliquia, nella memoria. La cosa buffa, se non fosse tragica, è che la stessa storia cambia a seconda delle convinzioni che via, via mutuiamo dalle esperienze che viviamo. “Un tempo credevo che le cose stessero così e cosà, ma ora riconosco che…”. “ Un tempo ero così, ma ora sono diventato cosà e un giorno chi sa come sarò…”. Crediamo veramente di essere colui che ha memoria, colui che ricorda, colui che sceglie, colui che agisce e crediamo pure veramente che questo “soggetto” sia separato da tutto ciò che lo circonda e che possa modificarlo in un modo o in un altro. Qualcuno afferma persino di non sapere chi è, altri di essere sul sentiero per trovarsi, essendosi perso non si sa dove e non si sa quando; altri ancora vogliono essere o diventare qualcosa di diverso da quello che sono ora. Come bene si evince, anche in tutte queste circostanze è il punto di osservazione che non cambia mai… è sempre lo stesso io che dice, fa e disfa. Ti torna?

Ma, allora, tornando allo spunto di riflessione iniziale: cosa significa e cosa c’entra “morire a se stessi”?

Se si riconoscesse che il punto di vista auto-centrato non fa altro che creare problemi inesistenti, conflitti, paure, sofferenza e devastazione di ogni genere, che si preoccupa sempre e solamente della “propria” sopravvivenza, che questa sopravvivenza è separazione, divisione, conflitto e illusione, che si muove nel tempo, riproponendo incessantemente il passato della memoria e che non conoscerà mai ciò che è ignoto e quindi ciò che è veramente nuovo e fresco… non sarebbe quindi logico mandarlo a quel paese? Per quanto mi riguarda il sì è scontato.

Allora… che autorità avrà mai questo “io”? Per me… nessuna. In quale considerazione si dovranno tenere i desideri, le aspettative, la volontà, gli obbiettivi, gli sforzi, le richieste, le resistenze, gli attaccamenti di questo “io”? Per me… nessuna. Ma se si prova, almeno per un istante, a immaginare di disconoscere ogni desiderio, ogni valutazione, ogni strategia per il futuro, ogni obbiettivo da raggiungere… che effetto fa? Non è, almeno un po’, come morire? Non si sente la “propria” vita, la propria sopravvivenza, privata dell’autorità del nostro “discernimento”, in grande pericolo? L’effetto che fa, a non voler essere ipocriti, è proprio questo: senza quel centro non si sa più come fare e, immediatamente, insorge il terrore di non potercela fare.

Vangelo di Matteo: 26, 39:

39 E, andato un poco in avanti, si gettò con la faccia a terra e pregava dicendo: «Padre mio, se è possibile, allontana da me questo calice; tuttavia, non come io voglio, ma come vuoi tu».

La Vita, spesso, pare un calice molto amaro da bere e “io” non lo accetta, ma cerca in ogni modo di allontanarlo dalla propria bocca, attraverso molteplici strategie. Si va dai guru, dai facilitatori, dai maestri, dai counslelors, si legge questo e quello, si pratica su e si pratica giù, si leggono leggi su leggi – attrazione, risonanza, pendoli, indeterminazione – eccetera. Tutto pur di non accettare quello che c’è, tutto per tentare di modificare quello che c’è. In questi atteggiamenti manca però la fondamentale presa di coscienza su quale possa essere l’origine, la sorgente di questa mancanza di accettazione e del desiderio di ottenere qualcosa di più soddisfacente. Mancano cioè le domande: “Chi è che non accetta? Chi è che desidera? Chi è che vuole ottenere qualcosa? Chi è che giudica e valuta cosa è buono e cosa non lo è? Migliore o peggiore in relazione a che?”

Colui che E’ integro in se stesso – privo cioè di un punto di osservazione auto-centrato, che lo mantiene separato da tutto il resto – al contrario del caso precedente, rinuncia alla “propria” volontà, non certo come segno di resa o di sottomissione, ma per il semplice fatto che ha riconosciuto interiormente che una tale volontà nasce da un’illusione, dal momento che, in effetti, non c’è proprio nessuno che desidera, non c’è proprio nessuno che possa Essere diverso da Quello che E’. Chi è integro in se stesso non crede ai problemi creati dal pensiero, non agisce per modificare alcunché, non desidera ottenere risultati, vive ogni evento e relazione istante per istante, senza la benché minima aspettativa, si astiene da ogni forma di giudizio e giustificazione. Questo è il morire a se stessi. Tutto il resto sono solo chiacchiere da salotto.

E Tu, stai morendo a te stesso, o vuoi sopravvivere ad ogni costo?

A questa domanda, come sempre, puoi rispondere solamente Tu.

Con affetto, Sid… Love*

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