Riflessioni: Paura, rabbia, sofferenza.

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Paura, rabbia, sofferenza psicologica.

Che cosa hanno in comune la paura, la rabbia e la sofferenza psicologica?

Che sono, praticamente, comuni a tutti gli esseri umani; se vogliamo trovare un dato che, anziché dividerci gli uni dagli altri, ci possa realmente accomunare tutti, lo abbiamo trovato. Ci basta guardare come la maggior parte degli uomini e donne vive su questa magnifica Terra e, difficilmente, potremo affermare che sofferenza, paura e rabbia siano appannaggio esclusivo di alcuni e non di altri. Già questo dato, di per sé, sarebbe sufficiente a farci percepire come un tutto unico, anziché con la solita divisione e isolamento. Ogni essere umano, di fatto, conosce la paura, la rabbia, la sofferenza psichica … e questo vale, ovviamente, anche per te e per me.

La sofferenza psichica ha mille facce, si presenta sotto innumerevoli forme emotive, ma resta pur sempre sofferenza, che altro non è, se non mancanza di gioia; uno stato dell’essere che viviamo con pesantezza estrema, sconforto, confusione, desiderio irrefrenabile di agire su ciò che riteniamo essere la causa del nostro dolore, per riuscire a modificarlo in meglio. In parole povere, rifiuto di ciò che ci disturba, nel tentativo di ottenere qualcosa di soddisfacente. Ti dice qualcosa, questo? A me parla di negazione di ciò che c’è, cioè rifiuto, e di ricerca di appagamento. Siamo, quindi, alle solite: al conflitto.

La Vita si relaziona con noi in ogni istante, sotto “mentite spoglie” e, cioè, mettendoci in relazione con persone, eventi, oggetti, ambiente naturale, ambienti artificiali. La relazione avviene unicamente tra “me” e la Vita, qualsiasi forma essa abbia assunto; è una relazione molto intima, stretta, assolutamente individuale, il che significa che non è possibile demandare a nessun altro questo rapporto. Ecco perché siamo soli di fronte alla vita, indipendentemente da quanto e quanti abbiamo attorno. E che qualità ha questa relazione? Ad ognuno la sua risposta.

Questo rapporto “solitario” non è, però, da confondere con l’isolamento; l’isolamento è una forma di separazione estrema, un tentativo di sottrarsi a qualcosa che riteniamo ci disturbi. Più responsabilità o colpe affibbiamo a ciò che si trova fuori di noi, più isolamento produrremo. Se vedo la causa del mio mal-essere fuori di me, per esempio nella difficile congiuntura economica, cercherò in ogni modo di allontanarmi dal mal-essere, creando un “muro” difensivo attorno a me; questo muro può essere fatto di pensiero positivo, di ideali, di teorie, di convinzioni, di credenze, di fede, di aspirazioni che, in ultima istanza, altro non sono che attività mentale, quindi, proprio isolamento.

Come può essere possibile, allora, uscire dalla sofferenza, che è un’attività mentale, isolandosi nell’attività mentale? Non se ne esce. Questo significa che ci dobbiamo tenere la sofferenza o che ci dobbiamo rassegnare ad essa? Nemmeno per idea, chi si rassegna è perduto. Piuttosto, non ci possiamo accontentare, non ci dobbiamo allontanare dall’insoddisfazione che proviamo.
L’insoddisfazione è una grande spinta vitale. Questa affermazione ti confonde? Può sembrare che sia una spinta alla ricerca di appagamento e quindi l’innesco del conflitto?

Osserviamo con attenzione.

Innanzitutto è bene rendersi immediatamente conto che, sia la rabbia, sia la paura, sono “sofferenza”. Non conosco, infatti, nessuno che possa essere, contemporaneamente, felice ed arrabbiato, o felice e nel panico; non è umanamente possibile. La rabbia e la paura sono di sicuro condizioni psichiche in cui la gioia è assente ed è esperienza di chiunque che, sia la rabbia, sia la paura facciano soffrire. Su questo non deve rimanere alcun dubbio, ne’ alcuna confusione. E’ un dato di fatto. Punto.

Una cosa che, di sicuro, non sto affermando è che la sofferenza – o infelicità – sia naturale, patrimonio inalienabile dell’essere umano, ne’, tantomeno, che ce la dobbiamo tenere o che la dobbiamo eliminare. Non sto affatto parlando di “accettazione” o di “rifiuto”.
Sto semplicemente affermando che l’infelicità è diffusa a tutto il genere umano, che la possiamo rintracciare e riconoscere sia dentro di noi che fuori di noi; anche questo è un dato di fatto. Sto affermando anche che l’infelicità viene in essere, solo ed esclusivamente, in seguito ad un nostro giudizio, ad una nostra valutazione o conclusione nei riguardi di ciò che c’è; valutiamo la nostra relazione con l’esistente, cioè con la Vita, la giudichiamo ed in seguito al giudizio emesso, proveremo una data emozione, senza via di scampo, per la semplice ragione che giudizio ed emozione sono inseparabili, immancabilmente conseguenti l’una all’altro. Tale è il giudizio, tale è l’emozione, non si scappa. Se osserviamo con attenzione il movimento del pensiero e il sorgere dell’emozione in noi stessi, avremo sicuramente una conferma a tutto ciò; basta semplicemente farlo, senza la necessità di scomodare uno psicologo.

L’infelicità, facile a dirsi, non ha mai fatto felice nessuno e, di conseguenza, non è per nulla strano che un infelice non abbia nessuna intenzione di continuare ad essere infelice; nemmeno piace a nessuno vedere altri che soffrono, per empatia, per il “richiamo” che la sofferenza altrui evoca in noi. Ovvio, quindi, che la sofferenza produca un senso di insoddisfazione, di incompiutezza. I problemi nascono quando, dopo innumerevoli tentativi di allontanare l’infelicità dai nostri giorni, ci ritroviamo sempre al solito punto, cioè nell’infelicità. Accade spesso, in simili circostanze, che nasca un sentire diverso, tetro, che ci suggerisce all’orecchio che la sofferenza c’è e c’è sempre stata, da che mondo è mondo, che non la si può evitare o eliminare, che tanto vale rassegnarsi e cercare di vivere al “meglio” possibile, magari accontentandosi di “qualcosa” di meno. Ecco che entra in gioco quella che poc’anzi ho chiamato insoddisfazione, con il suo ruolo fondamentale nella conoscenza di sé.

Facciamo un esempio: Se sono infelice, non posso sentirmi soddisfatto, questo è evidente, ma se non indugio in un movimento psichico atto ad allontanarmi da tale insoddisfazione, la posso osservare, ascoltare, percepire come vibrazione cellulare, frequenza del respiro, battito cardiaco. Il corpo, letteralmente, diventa una porta aperta, che conduce direttamente al “vocabolario” con cui si esprime l’emozione, fino all’autore del “romanzo” in questione: il movimento del pensiero. In questa attività, non è presente una meta, un conseguimento, un obbiettivo da raggiungere; c’è solamente interesse, passione, attenzione silenziosa. In questo stato di attenzione, si riconosce che “io” e l’infelicità sono la stessa cosa, inseparabili, indivisibili. In questo stato scompare la percezione del “diverso da me” e di conseguenza viene a decadere ogni causa esterna di sofferenza, che non è più “mia” o “tua”, ma è sofferenza e basta. In questo stato, si evidenzierà, da sé, il tipo di pensiero che origina la sofferenza del momento e, a questo punto, è possibile che si verifichi un insight, una realizzazione silenziosa profonda, che porterà a coscienza ciò che era inconscio; è la trasmutazione, la trascendenza dell’emozione. Nessun controllo, nessuna imposizione, nessuno sforzo, nessun sacrificio, nessuna fuga, nessun obbiettivo; solo ed esclusivamente ascolto silenzioso.

Quanto dura un insight? Un istante; ed è tutto ciò che serve per venirsi a trovare di fronte alla nostra verità interiore. Non c’è alcuna necessità di sottoporsi a pratiche estenuanti, discipline, coercizioni, sforzi di volontà. Solo un istante di profonda e silenziosa realizzazione di qualcosa di falso. Falso? Esattamente così.

Per quanto ci si creda capaci di conoscere alcuni aspetti della Verità, questa non è che una pia illusione. Ciò che riteniamo verità, non è mai Verità, tutt’al più può solo indicarla.

Il pensiero, che è sempre limitato e frammentario, non può avere alcun accesso alla Verità, quindi è perfettamente inutile, vano, prodursi in innumerevoli sforzi per trovare la Verità. Nemmeno ce la possiamo immaginare, proprio no. Ma una cosa, di sicuro, è alla nostra portata e, cioè, accorgerci della falsità di qualcosa; se scopriamo il falso, quello che resta è il vero.

Se, anziché tentare di allontanarci a gambe levate dall’insoddisfazione o dall’infelicità, ce ne restiamo buoni lì, con attenzione silenziosa, è molto probabile che ci verremo a trovare di fronte al moto del pensiero responsabile del conflitto, visto che infelicità e conflitto sono sempre la solita unica cosa, per l’appunto attività del pensiero. Quel pensiero reciterà frasi del tipo: sto male, sono insoddisfatto, voglio stare bene, devo cambiare, devo riuscire, devo trovare, non so come fare, ho un problema che non riesco a risolvere … vuoi aggiungere tu qualcosa? Per me è sufficiente così.

Se osservassimo attentamente il movimento del pensiero in noi, ci accorgeremmo che “la voce” nella nostra testa mente spudoratamente. In cosa consiste la menzogna? La voce non fa altro che ripetere io, io, io … la voce si spaccia per il pensatore e, ovviamente, cosa fa un pensatore? Pensa. Quindi la voce nella testa si propone come la “tua” o la “mia” voce interiore, visto che tu o io saremmo i pensatori; riesci a vedere se è così anche per te? Per me lo è eccome, per me è un fatto. Se ci convinciamo di essere i pensatori, senza dubbio, riconosceremo quella voce sia come la nostra voce, sia come il nostro pensiero. Ma il pensiero non è ne’ tuo, ne’ mio; il pensiero è pensiero e basta. Il pensiero è parola, è memoria, è tempo al passato e basta. Il pensiero è utilissimo per ricordare la strada di casa, per costruire un ponte, per parlare una lingua, programmare un lavoro, fare gli auguri di compleanno nel giorno corretto. Ma il pensiero non è certamente “te” o “me”.

Per esser più chiari, devo ammettere che le cose non stanno proprio così; il pensiero, infatti, è “io”. Punto. Quindi è sia “te”, sia “me” se ci riconosciamo in esso, perché diventa la nostra – falsa – identità. Ma in che modo possiamo accorgerci di questa mistificazione? Nell’attenzione silenziosa, in cui è completamente assente l’attività del sé, cioè del centro dell’esperienza. Tutto qui.

Immagino ti sia capitato spesso di ascoltare qualcuno che parla; ad una conferenza, ad una lezione, alla televisione, alla radio, per strada, al bar, a casa tua. Se ti interessa quello che viene detto, ti disponi all’ascolto, senza divagare col pensiero. Se ci hai fatto caso – e se non ci hai fatto caso provaci – tutto quello che compare nel campo della tua consapevolezza è quanto viene detto; se ascolti con tutto te stesso, non si produce nessuna attività mentale atta a giudicare, valutare, confutare, confrontare quello che viene detto con quello che conosci già. Questa è attenzione totale, spontanea; niente a che vedere con la concentrazione, che di spontaneo non ha proprio nulla.

Se ti poni in ascolto della voce interiore con la stessa predisposizione, ti accorgerai che la voce si acquieta immediatamente; quello che resta è silenzio totale. In quel silenzio non è per niente presente alcuna attività del sé, che è sempre ed esclusivamente dialogo, voce, parola. In uno stato di questo tipo ti potresti facilmente accorgere che “io” è solo una parola, un’immagine mentale, memoria, conosciuto, pur se carico di ogni associazione ed identificazione possibile ed immaginabile. Di fronte ad una tale presa di coscienza, ti accorgeresti anche che “io ho un problema” è un’affermazione completamente falsa, in quanto non esiste alcun soggetto che fa esperienza, non esiste alcun pensatore, ma semplicemente pensiero. Punto.

Tutto questo che importanza ha? Bè, se non credi più che la voce sia vera, ne’ che dica il vero … in che considerazione terrai le sue farneticazioni?

A questa domanda puoi rispondere solamente tu.
Grazie.

Sid… Love*

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