Riflessioni: Responsabilità e colpa.

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Responsabilità e Colpa.

Nell’assumersi la responsabilità di ciò che è, la prima cosa che si incontra è, quasi sempre, il senso di colpa: guardi il mondo, così com’è ora e, se ammetti a te stesso che potresti esserne responsabile, ti senti colpevole. Questo perché, visto lo stato attuale delle cose, l’infinita sofferenza e infelicità, l’ingiustizia palese e la distruzione ambientale, se la responsabilità fosse veramente “mia”, allora come potrei non sentirmi in colpa per ciò che vedono i miei occhi?

Ma la colpa è un solo ed esclusivamente un falso ideologico indotto, un abominevole sistema di controllo atto a generare paura e una inevitabile richiesta di salvezza per la propria anima!

La colpa è uno dei fondamenti del sistema chiamato “problema, reazione, soluzione”. In verità, non esistono nessuna colpa e nessun colpevole; questo diviene assolutamente evidente, nel momento stesso in cui si osserva ciò che è, senza il filtro della mente. E qual è il filtro che, invariabilmente, usa la mente? Ovviamente è il giudizio, la valutazione, la definizione, la separazione percepita da un finto sé, che pone da un lato lo sperimentatore della cosiddetta realtà, cioè “io” e, dall’altro, ciò che viene sperimentato, come fossero cose diverse e pertanto separate. Questa è la sola e vera illusione, il solo e vero sonno profondo: la realtà della dualità, sostenuta e alimentata incessantemente dall’io, o me, o ego, attraverso l’identificazione con il complesso corpo-mente. Questa è la radice di ogni sofferenza, subita o procurata, dell’Essere umano.

Il più delle volte, però, secondo ciò che ho potuto osservare, accade che, di fronte alla possibilità che ognuno di noi possa essere responsabile di ciò che è, la reazione dei più è di rifiuto e rabbia. Viene cioè rifiutata la possibilità di una responsabilità personale nella determinazione degli eventi, accompagnata da moti di stizza, se non addirittura da un senso di “lesa maestà”… “Ma come ti permetti di associarmi a tutto questo?”

Evidentemente, l’orrore mondano è ben percepito, ma si preferisce restarne a distanza, preferendo addossare ogni responsabilità al sistema, alla politica, alla religione, all’economia… ma mai e poi mai a se stessi. E’ un vero peccato, dal momento che, se ci vedessimo veramente come responsabili, immediatamente ci renderemmo anche conto di detenere un grandissimo “potere personale”. Sì, perché scopriremmo che il nostro pensare, dire e agire sono strumenti estremamente potenti di interattività con la cosiddetta realtà quotidiana globale.

La responsabilizzazione è una posizione “spirituale” ben diversa da quella che recita: “Cosa ci posso fare? Non dipende da me”. Se da un lato la deresponsabilizzazione ci dà l’illusione di non avere “colpa”, di poterci dichiarare “innocenti” e di percepirci “migliori” degli altri, dall’altro ci priva di ogni possibilità di agire, inibendo completamente il nostro innato e inalienabile potere creativo, o meglio, creatore. Accettiamo, cioè, l’impotenza come status spirituale. Non c’è che dire, è proprio un bel servizio che facciamo a noi stessi!!! Al contrario, nella presa di coscienza che nulla di ciò che pensiamo, diciamo e facciamo è ininfluente, non solo riconosciamo a noi stessi un ruolo fondamentale nella manifestazione degli eventi e nel tipo di relazioni in cui ci veniamo a trovare, ma, se non siamo veramente degli sciocchi, cominceremo anche ad osservare e studiare la nostra mente, ovvero il trait d’union tra Energia Spirituale e manifestazione fisica.

Questo ci potrebbe consentire di assumere consapevolezza di come ciò che pensiamo, crediamo e di cui siamo convinti influisce sulla determinazione degli eventi e di come, fin troppo spesso, siamo i primi responsabili di ogni “disavventura” in cui crediamo di incappare per casualità o karma.

Ma perché è tanto difficile e antipatico assumersi la responsabilità di ciò che è? Cosa c’è di così terribile, da non poterlo ammettere o accettare?

La mente egoica ha i suoi sistemi di difesa; se sul piano fisico è naturale che sia così, per garantire ogni possibilità di sopravvivenza di fronte ad ogni sfida o pericolo reale per l’organismo, dal lato psicologico, vista l’identificazione con il corpo-mente, il fuggire o rifuggire di fronte ad un pericolo ipotetico ha ben altro significato e ben altre conseguenze.

Di fronte ad un pericolo reale, è noto che si attiva quello che viene definito il “Complesso di attacco e fuga”, che consiste nell’attivazione del sistema nervoso simpatico, con la conseguente secrezione di neurotrasmettitori tipici, atti ad implementare determinate caratteristiche o “modalità” organiche, quali la vasocostrizione, la tensione muscolare in previsione di uno sforzo, la visione selettiva, la sospensione della digestione, la sparizione dello stimolo della fame, la ricerca di una possibile via di fuga e tanto altro ancora. Questi processi richiedono un dispendio di grandi quantità di energia e non possono essere mantenuti per un periodo di tempo troppo prolungato; se questo accade, è come se si viaggiasse in autostrada con il piede pigiato a fondo sull’acceleratore. A parte il consumo esagerato di carburante-energia, che prima o poi dovremo reintegrare, a lungo andare il motore, così sfruttato, ci pianterà in asso… ed ecco la malattia.

Ma cosa accade, invece, di fronte ad un pericolo ipotetico, magari proiettato nel futuro, supposto tale solo dalla mente? Accade la stessa identica cosa, cioè si innescano gli stessi identici processi biochimici. E questo perché, se crediamo che qualcosa possa metterci in pericolo, quel pericolo diventa assolutamente reale per noi. E quale pericolo potrebbe mai essere più grande, per chi non è abituato a sentirsi responsabile, che scoprire la propria innegabile responsabilità di fronte al mondo intero? Non è forse un mettere a repentaglio la nostra presunta integrità? Non ci priva forse della nostra “bella faccia”, o maschera, così faticosamente costruita, giorno dopo giorno? Non vorrete mica che il bluff venga scoperto, vero?

Se è pur vero che questo “mondo” ha fatto di tutto e da sempre per farci percepire come esseri insignificanti, posti su un pianetino insignificante, in un remoto angolo insignificante di un universo “alieno”, sterminato e colmo di insidie, così da indurci a ricercare fuori di noi le risorse, l’autorità e la possibile salvezza, è vero anche che, almeno un sospetto, dovrebbe essersi presentato nella coscienza di chiunque. Credo, infatti, che nell’esperienza di vita di ognuno di noi si siano presentati eventi che ci hanno chiaramente dimostrato come i nostri pensieri di paura abbiano effettivamente attirato eventi paurosi “reali”. Credo anche che la stessa cosa si possa dire nei confronti di eventi gioiosi o di “miracoli” accadutici. Sono certo, dunque, che la possibilità di consapevolezza si sia presentata a tutti noi almeno una, o più volte nella vita. Nessun alibi, quindi.

Una cosa però è certa: ignoranza a parte, molti sono coloro che preferiscono demandare ad altri. Pigrizia, egoismo, indifferenza, aridità, superficialità rendono l’essere umano alieno a se stesso e a tutto ciò che sta fuori del giardinetto di casa. Si demanda pertanto all’autorità il compito di organizzare e prevedere, salvo poi lanciare strali contro di essa, non appena il giardinetto viene toccato, generalmente proprio dall’autorità stessa a cui era stato chiesto di proteggerci. Questa è la genesi del diffuso rapporto amore-odio nei confronti dell’autorità, sia che coinvolga il governo, lo stato, la chiesa, sia che coinvolga il vicino di pianerottolo, il coniuge o il datore di lavoro… e compagnia danzante.

Ma se non ci si rende conto che il bene di tutti è indispensabile per il bene di ognuno, che ogni singolo è responsabile dei molteplici, che l’autorità privilegia e alimenta solo se stessa, che la divisione è solamente un concetto mentale, che la paura non ha nulla a che fare con il pericolo reale… dimmi Tu, come sarà mai possibile uscire da questa empasse così dolorosa?

A questa domanda, come sempre, puoi dare risposta solamente Tu.
Con affetto, Sid… Love*

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