Riflessioni: Io Sono?

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Io sono.

Il soggetto più diffuso, più in voga, più amato, più universale, più presente, più creduto, più considerato, più vero e reale è: “io” sono.

Circa sette miliardi di esseri umani, che è l’attuale popolazione terrestre, non fanno altro che ripeterlo innumerevoli volte, durante la giornata e per l’intera durata della loro vita.

Questo è ritenuto il fatto più fatto di tutti, la verità più verità di tutte; su questo non si discute: io sono, noi siamo.

Ma sarà veramente così? Siamo proprio sicuri di quello che diciamo?

Proviamo a guardare un po’ più da vicino.

Innanzitutto, cosa vuol dire: fare attenzione?

L’attenzione non ha nulla a che fare con la concentrazione; concentrarsi significa restringere il campo di osservazione, eliminare ogni oggetto e attività che disturba, focalizzarsi su un bersaglio definito, sforzarsi di mantenere questa attività nel tempo, controllare che il movimento del pensiero non divaghi, innervosirsi qualora ciò che ci disturba travalichi la nostra capacità di estraniarci. In poche parole, la concentrazione è restringimento della visione, eliminazione degli oggetti di disturbo dal campo di consapevolezza, volontà, sforzo, tempo.

Siamo venuti così a trovarci di fronte all’ennesimo conflitto.

Voglio concentrarmi, ma il chiacchierio mi disturba … Voglio concentrarmi, ma la mente vaga per i fatti suoi … Voglio concentrarmi su quello che dicono alla radio, ma il rumore del traffico me lo impedisce … Conflitto e ancora conflitto.

Perché dire questo? Perché è molto importante non fare confusione.

Quello che stiamo per affrontare è un argomento che richiede attenzione totale, non certo concentrazione.

L’attenzione, al contrario, viene in essere da sé, nel momento in cui è assente l’attività del pensiero, cioè il pensatore.

Se dicessi: voglio fare attenzione, in realtà, sarebbe il pensatore a dirlo; è  evidente, no?

Ma chi è il pensatore?

Il pensatore non è altro che il pensiero; in altre parole, ciò sta a significare che il pensiero e il pensatore sono la stessa, identica cosa.

Ora, alla luce di quanto appena detto, chi è l’entità che afferma: io sono?

Non è forse “io”? E allora, non è forse il pensiero che, trasformatosi in pensatore, afferma con sicurezza: io sono? E’ così?

Se si osserva con attenzione, la risposta non può essere che: sì, è così.

Hai mai sentito un braccio o un piede affermare: io sono il braccio o io sono il piede?

Sono sicuro di no.

Quindi non è il corpo che afferma “io sono”. Questo è veramente facile, no?

Col pensiero, invece, cominciano le difficoltà.

Perché?

Per il semplice fatto che non mettiamo in discussione ciò a cui, per anni ed anni, ci hanno addestrato, o meglio, condizionato e cioè che l’uomo pensa. Ci viene, infatti, insegnato che il pensiero è un’attività esclusiva dell’essere umano ed è quella che lo distingue da ogni altra forma vivente presente sulla terra; in poche e semplici parole, noi siamo certi di pensare e che il pensiero sia una nostra attività.

Ma se le cose non stessero affatto così?

Chi pratica la meditazione lo sa molto bene … in assenza dell’attività del pensiero, scompare anche il pensatore. E’ un fatto assodato. Punto.

E, allora? Cosa significa questo?

Significa semplicemente che il pensiero crea un’immagine mentale, la nomina, o definisce, come “io”, si separa da essa e le attribuisce delle attività autonome, dimenticando che tale entità, in realtà, non esiste affatto; l’entità creata dal pensiero altro non è, se non un fiume di parole e memoria statica. Il pensiero/immagine-mentale, successivamente, crea l’identificazione sia con il corpo, sia con il pensatore … e il gioco è fatto;  a questo punto non riusciamo proprio più a riconoscere chi o che cosa siamo.

Questa è la condizione “normale” in cui versa la maggior parte degli esseri umani.

Ogni volta che ci viene chiesto o che chiediamo a qualcuno: chi sei tu? la risposta, immancabilmente, non è che una serie di “dati”, cioè parole, memoria, descrizione. Basta osservare, per rendersene conto: sono un uomo, sono una donna, sono alto, sono basso, sono magro, sono grasso, sono giovane, sono anziano, sono un impiegato, sono un disoccupato, sono di destra, sono di sinistra, sono italiano, sono inglese, sono ricco, sono povero, sono credente, sono ateo, sono felice, sono triste, sono intelligente, sono stupido … e via così. Parole, parole, parole. Ma le parole non sono affatto la cosa che indicano: la parola “uomo” non è, certamente, un uomo.

Attraverso il meccanismo dell’identificazione, il pensiero vede l’io, innanzitutto, come un corpo fisico dalle varie attitudini, qualità e caratteristiche, nonché come un “tipo” psicologico caratteristico, con una “storia personale” precisa. In altri termini, il pensiero associa, confronta, valuta e, al termine di tale operazione, in base ai dati raccolti, giunge ad una conclusione, qualsiasi essa sia.

E qui si cela l’inganno fondamentale.

Abbiamo già considerato che pensiero ed emozione sono la stessa, identica cosa, per cui, quando affermiamo, per esempio, “sono arrabbiato” oppure, “ho paura”, in realtà ci troviamo di fronte ad una menzogna colossale. Perché? Per il semplice fatto che l’entità “io” è solo ed esclusivamente pensiero, cioè parole e, oltre a ciò, perché l’emozione ed il pensiero sono, appunto, la stessa cosa; questa è la ragione per cui, al fine di riuscire ad essere più aderenti al vero, dovremmo mantenerci in uno stato di attenzione.

In uno stato di attenzione, infatti, una frase del tipo “sono arrabbiato” non passerebbe inosservata e ne vedremmo istantaneamente la falsità; quello che diremmo, allora, potrebbe essere: “in questo momento c’è un’emozione che la memoria riconosce come rabbia”.

Che differenza fa? Che cosa serve? Moltissimo!

Se mi rendo conto che c’è emozione, posso chiedermi come viene in essere. Se non cerco di sfuggirle e di allontanarmene, posso rendermi conto che alla sua origine sta, immancabilmente, un pensiero; posso, perciò, ascoltare il pensiero ed osservare quali sono le conseguenze di quel pensiero, sia su di me, sia fuori di me.

Questo atteggiamento ci consente di porre una certa distanza tra noi, l’emozione e il pensiero che ne è responsabile, acquisendo una ben diversa prospettiva, diminuendo o azzerando l’identificazione con il corpo, con l’emozione e col pensiero stesso; non è certo una cosa irrilevante.

Qualcuno lo chiama “distacco”, ma vale la pena ricordare che ogni attività proposta da “me” non fa altro che aumentare l’identificazione, ragion per cui, se perseguo il distacco, in realtà, favorisco unicamente l’identificazione, che ha come sinonimo: attaccamento; e l’attaccamento è ulteriore conflitto.

La cosa più importante di tutte, in ogni caso, è riuscire a vedere, con i propri occhi interiori, che cosa è e che cosa produce questo “io”: solo ed esclusivamente conflitto, con le sue inevitabili conseguenze, quali paura, rabbia, competizione, ansia, preoccupazione, infelicità.

Io è identificazione con il corpo e, dal momento che gli occhi fisici vedono i corpi materiali separati tra loro dallo spazio e diversi l’uno dall’altro, quello che ne consegue è che tale identificazione fisica ci porta inevitabilmente a considerarci diversi e separati gli uni dagli altri; ed ogni divisione, prima o poi, porta di sicuro al conflitto. In questo modo, l’evidente diversità fisica viene traslata sul piano psicologico individuale e collettivo, e da lì, ci porta a considerare ogni essere umano come un essere completo in sé, cioè come un “uno” e non certo come una “parte” di un tutto più vasto.

Io è sicuramente un’entità definita, ma tutto ciò che viene definito è limitato e statico. Io è la storia che ognuno di noi racconta di sé, cioè è memoria, passato, tempo. Io è il riconoscimento della propria individualità, diversa da quella di chiunque altro e di qualunque altra cosa, una sorta di bolla che ci teniamo attorno, che ci isola e ci distingue da tutto ciò che non è io; è l’essenza stessa dell’isolamento. E’ una vera e propria gabbia, una prigione, le cui sbarre sono assolutamente invisibili.

Se una goccia d’acqua del mare parlasse e ci dicesse: guarda come sono diversa da tutte le altre gocce, io e il mare siamo due cose distinte, non mi piacciono quelle gocce laggiù, io sono molto più bella di ogni altra goccia … che cosa penseremmo di quella goccia? Che ha dei seri problemi; ma noi ci relazioniamo esattamente così, gli uni con gli altri e con tutto ciò che ci circonda. E questa viene chiamata “normalità”. A me pare proprio una “normalità” malata.

Ma una cosa vale la pena di essere evidenziata.

Se “io” e il pensiero sono la stessa cosa, è bene considerare che il pensiero, per quanto evoluto o aperto possa essere, sarà sempre limitato. Per quanto il pensiero possa aprirsi alla conoscenza, sarà sempre ignorante, vista la vastità con cui siamo in relazione. Per quanto il pensiero possa tentare di estendersi, sarà sempre frammentario, in quanto non può conoscere tutto ciò che c’è. Per quanto il pensiero possa immaginare, sarà sempre legato al tempo, visto che il tempo psicologico – non quello dell’orologio – è una funzione del pensiero stesso, il che significa che tempo e pensiero sono la stessa cosa. Il pensiero, infatti, è conoscenza ed esperienza e sia l’una, sia l’altra si svolgono nel tempo; il pensiero è memoria, quindi tempo e, più precisamente, passato.

Se riassumiamo rapidamente, quello che si può notare è che il pensiero è limitato, frammentario, ignorante per definizione, è il conosciuto, la memoria, il passato; non c’è che dire, proprio un bel ritratto. E da quanto già considerato, è evidente che la caratteristica fondamentale del pensiero è la frammentazione, cioè la divisione; in parole diverse: la natura fondamentale del pensiero è il conflitto.

E poi ci meravigliamo di vivere in un mondo colmo di conflitti tra mariti e mogli, genitori e figli, cittadini di destra e di sinistra, credenti e non credenti, nazione contro nazione? Come potrebbe essere diversamente?

Il fatto reale è la divisione, che sfocia nel conflitto, mentre il non-fatto è la pace sociale e tra le nazioni.

Se perseguiamo la pace, pace non avremo mai e la storia dell’umanità è lì a dimostrarcelo; perché?

Per la semplice ragione che noi stessi, ovvero, che ogni essere umano è in conflitto dentro di sé e riversa fuori di sé, nel mondo, il conflitto interiore; fino a che la condizione interiore rimane questa, non possiamo fare altro, siamo senza scelta.

L’umanità è un semplice concetto mentale, non esiste in quanto tale, ma ciò che c’è realmente sono sette miliardi di esseri umani; potremmo considerare l’umanità alla stregua di un grande sacco vuoto, ma nel momento in cui riempiamo questo sacco con sette miliardi di chicchi di riso, ecco che avremo un contenuto, che è, appunto, l’umanità.

Ma qual è la qualità di ogni chicco di riso?

Se poniamo nel sacco sette miliardi di conflitti, cosa ne potremo mai ricavare, se non un grandissimo e diffuso conflitto globale?

Questa è la ragione per cui, fuori di noi, vediamo conflitti e ingiustizie di ogni tipo; ogni essere umano è identificato con “io” e, conseguentemente, è un frammento isolato, è in competizione per le risorse legate alla sopravvivenza, teme per sé, per i propri cari o il proprio clan o nazione, è attaccato alle proprie immagini mentali, alla propria esperienza e conoscenza, cioè al conosciuto, che è memoria, passato. Non c’è che dire, è proprio un ritratto veramente gradevole!

Cosa mai servirà, allora, tentare di trovare o di stabilire pace fuori di noi? Ci sarà mai?

Credo proprio di no.

Arriverà, se arriverà, solo ed esclusivamente nel momento in cui, ognuno di noi, avrà fatto i conti con il conflitto esistenziale che si porta dentro da sempre; arriverà, solo ed esclusivamente, nel momento in cui cesserà, in ognuno di noi, l’attività ego-centrata del sé, o me, o ego, o io … non importa come vogliamo chiamarlo.

Dobbiamo liberarci della spazzatura che ci portiamo dentro, non certo immaginare, col pensiero, un futuro migliore, che nel momento presente non c’è. Ma per liberarcene, in primis, ne dobbiamo essere consapevoli, il che significa che è necessaria una grandissima attenzione, cioè quell’attività di osservazione, silenziosa, di ciò che è presente nell’adesso, che è estranea al giudizio, al confronto, all’accusa, alla giustificazione, alla teorizzazione, alla supposizione e, soprattutto, che è libera da ogni condizionamento derivante dalla conoscenza e dall’esperienza personali. Facile, vero?

Ma gli inganni del pensiero non finiscono mai; se ci sforzeremo di essere consapevoli della spazzatura, se ci sforzeremo di essere attenti – ormai dovrebbe essere chiaro – aumenteremo esclusivamente il conflitto, per la semplice ragione che ciò che faremo sarà porre di fronte a noi un obiettivo, un conseguimento, ci applicheremo con una certa volontà, compiendo uno sforzo, per raggiungerlo; questa non è altro che attività del sé. E anche questo è un fatto. Punto.

La domanda che si apre ora – se si apre – sarà: cosa mi interessa veramente?

Cercare un modo per stare bene, stare meglio, sentirmi al sicuro e protetto? Oppure mi interessa veramente scoprire come effettivamente sto alimentando il conflitto in me e, di conseguenza, nel mondo intero?

Cerco appagamento per me o mi interessa scoprire quali sono le mie responsabilità nei confronti dell’umanità, in modo da non danneggiarla oltre?

A questa domanda puoi rispondere solamente tu, grazie.

Sid… Love*

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