Ajahn Chah: Il giusto controllo.

Il giusto controllo.

… Poni sotto controllo e fai attenzione alle sei facoltà dei sensi: dell’occhio che vede le forme, dell’orecchio che ode i suoni, e così via. Questo è ciò che andiamo insegnando instancabilmente e in vari modi. Questo è sempre il punto su cui tornare.

Cerchiamo di essere sinceri con noi stessi: siamo veramente consapevoli di quello che accade? Quando l’occhio vede qualcosa, vi è piacere? Indaghiamo realmente su ciò?

Se investigassimo, scopriremmo che è proprio questo piacere che causa sofferenza. Anche l’avversione è fonte di sofferenza. In pratica, queste due reazioni hanno lo stesso effetto. Indagando possiamo vederne i difetti. Se c’è piacere, va visto solo come piacere. Se c’è avversione, va vista soltanto come avversione. Questo è il modo per domarle.

Per esempio, di solito diamo molta importanza alla testa. Nella nostra cultura, da quando nasciamo, ci viene insegnato che la testa è di estrema importanza. Se qualcuno la tocca o la colpisce, siamo pronti a morire. Se qualcuno ci batte su altre parti del corpo non ne facciamo una tragedia, ma data l’importanza speciale che diamo alla testa, se qualcuno la tocca ci arrabbiamo per davvero.

La stessa cosa riguardo ai sensi. Il rapporto sessuale eccita la mente della gente, ma in realtà non è molto diverso dal mettere le dita nel naso. Mettere le dita nel naso vi pare qualcosa di speciale? Tuttavia, gli esseri viventi hanno questa propensione verso l’altra “entrata”; sia essa animale o umana, le danno un’importanza tutta speciale. Se è un dito che si introduce nel naso, nessuno si eccita per questo, però la sola vista di quell’altra ci infiamma. Perché? Questo è il divenire. Se non vi attribuiamo troppa importanza, corrisponde a mettere un dito nel naso. Qualsiasi cosa avvenga lì dentro, non vi eccitate; semplicemente ne tirerete fuori del muco e tutto finisce lì.

Ma quanto è lontano il vostro pensiero da questo modo di percepire? La normale, semplice verità è tutta qui.

Se vediamo in questo modo, non creiamo alcun ‘divenire’ e, senza il ‘divenire’, non avremo alcuna rinascita: non ci sarà felicità o sofferenza, non ci sarà piacere. Quando vedremo quella parte per ciò che è, non ci sarà un avido attaccamento… ma gli esseri con una visione mondana vogliono mettervi sopra qualcosa. Questo è ciò che vogliono.

Vogliono avere a che fare con un posto sporco. Avere a che fare con un posto pulito non è interessante, per cui corrono lì veloci. E non devono neppure essere pagati per farlo! Per favore, consideratelo bene. La gente si lascia invischiare da una realtà che è solo convenzionale. Questo è un punto importante, su cui dobbiamo praticare.

Se contempliamo i buchi del naso, delle orecchie e del resto, vediamo che sono tutti uguali: solo orifizi pieni di sostanze sporche. Ce ne sono di puliti? Perciò vanno considerati alla luce del Dhamma. E’ qui che bisogna aver paura, non altrove. E’ qui che gli esseri umani perdono la testa!

Proprio questa è una causa, un punto basilare per la pratica. Non credo che ci sia bisogno di porre un’infinità di domande o analizzare più di tanto. Il guaio è che non prestiamo abbastanza attenzione a questo aspetto.

Talvolta vedo dei monaci che partono muniti di un grande glot (ombrello con zanzariera) e che vanno di qua e di là sotto il sole, vagando in tutto il paese. Quando li osservo, penso quanto deve essere faticoso.

“Dove stai andando?”
“Sto cercando la pace”.

Non posso dar loro alcuna risposta. Non so dove potrebbero trovarla. Non li critico; anch’io sono stato così. Cercavo la pace, sempre pensando che fosse in qualche altro posto. Be’, in un certo senso era vero. Quando andavo in qualcuno di questi luoghi, mi sentivo un po’ meglio. Sembra che tutti siamo così!. Pensiamo sempre che la pace e il benessere si trovino altrove.

Una volta, mentre stavo viaggiando, vidi il cane della casa dei Pabhakaro. Avevano un grosso cane e gli volevano molto bene. Lo tenevano quasi sempre fuori. Gli davano da mangiare all’esterno e dormiva sempre all’aperto, ma certe volte voleva entrare, per cui cominciava a grattare alla porta e ad abbaiare. Questo dava fastidio al proprietario, che lo faceva entrare e poi richiudeva la porta. Il cane gironzolava un po’ per casa, poi si stancava e voleva uscire di nuovo: ritornava alla porta, grattando e abbaiando. Il proprietario si rialzava e lo faceva uscire.

Per un po’ era felice di stare fuori, poi però voleva rientrare, abbaiando alla porta. Quando stava fuori, gli pareva che stare dentro fosse meglio. Quando era dentro, per un po’ si divertiva, ma poi, annoiato, voleva uscir fuori. La mente della gente è così, come quella dei cani. Sono sempre dentro e fuori, qui e là, senza capire quale è il luogo dove possono essere felici.

Se fossimo consapevoli di essere così, allora cercheremmo, con ogni sforzo, di calmare qualsiasi pensiero o sensazione sorgesse nella mente, riconoscendo che sono soltanto dei pensieri e delle sensazioni. E’ importante vedere come ci attacchiamo spasmodicamente ad essi.

Perciò, anche se viviamo in un monastero, siamo molto lontani dalla giusta pratica, molto lontani! Quando sono andato all’estero ho visto un bel po’ di cose. La prima volta ne trassi una certa saggezza, per un verso e la seconda volta per un altro verso. Nel mio primo viaggio, presi nota di ciò che sperimentavo in un diario. Ma la seconda volta ho tralasciato di scrivere. Pensai: la mia gente sarà in grado di comprendere le cose che scrivo?

Viviamo nel nostro Paese e non ci sentiamo perfettamente a nostro agio. Quando qualche thailandese va all’estero pensa di avere avuto un buon kamma per esserci potuto andare; ma andando per un breve periodo in un posto estraneo, dovreste chiedervi se siete veramente in grado di stare alla pari con chi vi ha vissuto per generazioni. Invece andiamo e pensiamo che sia fantastico e che siamo persone veramente fortunate ad avere un kamma così buono.

I monaci stranieri sono nati là e ciò significa che hanno un kamma migliore del nostro? Queste sono le idee che la gente coltiva a causa dell’attaccamento e della bramosia. Significa solo che quando la gente entra in contatto con le cose, si eccita. A loro piace essere eccitati. Ma quando la mente è eccitata non è in uno stato normale. Vediamo cose che non abbiamo visto e sperimentiamo cose che non abbiamo sperimentato ed è così che si diventa anormali.

Sul piano della conoscenza scientifica, riconosco che gli occidentali sono avanzati, ma per quanto riguarda la conoscenza buddhista, ho qualcosa da dir loro. Ma, certamente, per quanto riguarda la scienza e lo sviluppo materiale non possiamo competere con loro.

Alcuni hanno un sacco di difficoltà e sofferenza, ma continuano a fare le stesse cose che li fanno soffrire. Sono quelli che non si decidono a praticare e a farla finita con questo disagio; sono quelli che non vedono chiaramente. La loro pratica non è ferma e continua. Quando sorgono sensazioni buone o cattive, non capiscono cosa sta succedendo. “Respingo tutto ciò che non mi piace” e “Accetto tutto ciò che mi piace”: questa è l’opinione (presunzione) del bramino.

Per esempio, alcune persone sono veramente facili da trattare, se dite cose per loro piacevoli. Ma quando dite qualcosa con cui non sono d’accordo, allora diventa molto difficile. Questo è il massimo della presunzione (ditthi). Sono pieni di attaccamento e pensano che sia realmente un bene essere coerenti con esso.

Perciò, sono pochi quelli che percorrono questa strada. E la stessa cosa accade a noi che viviamo qui: pochi hanno una retta visione, Samma ditthi. E così contempliamo il Dhamma e pensiamo che non sia giusto. Non siamo d’accordo. Perchè, se fossimo d’accordo con esso e sentissimo che è giusto, lasceremmo perdere e abbandoneremmo tutto. Non siamo d’accordo con l’insegnamento e vogliamo vedere le cose in modo differente. Vogliamo cambiare il Dhamma, affinché sia diverso da quello che è. Vogliamo correggere il Dhamma e facciamo del nostro meglio per riuscirci.

Questo viaggio mi ha fatto pensare a molte cose. Ho incontrato alcuni che praticavano yoga. E’ stato molto interessante vedere come riuscivano a prendere tutte quelle posture: se ci provassi io, sicuramente mi slogherei una gamba. Sentono che le loro giunture e i muscoli non vanno bene e così cercano di scioglierli. Hanno bisogno di farlo ogni giorno, per sentirsi bene. Io però ho pensato che facendo così si stavano procurando parecchio dolore. Se non lo fanno non si sentono bene, per cui sono costretti all’esercizio quotidiano. A me sembra che si stiano creando dei problemi inutili e che non se ne rendano conto. La gente è così: prende subito l’abitudine a fare qualcosa.

Una volta ho incontrato un cinese. Era da quattro o cinque anni che non si sdraiava per dormire. Stava sempre seduto e si sentiva bene così. Si faceva il bagno una volta all’anno. Eppure il suo corpo era forte e sano. Non aveva bisogno di correre o fare esercizi fisici; se li avesse fatti, probabilmente non si sarebbe sentito bene; perché si era abituato in un altro modo.

Perciò è solo la ripetizione abituale che ci fa sentire bene con certe cose. Possiamo persino aumentare o diminuire i disagi di una malattia per mezzo di ripetuti esercizi. E’ così che succede. Perciò il Buddha ci insegnò ad essere completamente consapevoli di noi stessi: non facciamoci sfuggire nulla; cercate di non lasciatevi afferrare dall’attaccamento. Non lasciatevi esaltare dalle cose.

Per esempio, stiamo bene qui nel nostro Paese, in compagnia dei nostri amici spirituali e dei nostri maestri. In realtà, però, non c’è nulla di veramente piacevole in ciò. E’ come quando dei pesciolini vivono in un grande lago: nuotano a loro agio. Se mettessimo un pesce grande in un piccolo stagno, si sentirebbe stretto. Quando stiamo qui, nel nostro Paese, ci sentiamo comodi, con il cibo e la casa che abbiamo e anche con tutto il resto. Se andiamo altrove, ogni cosa è diversa e allora ci sentiamo come il grande pesce nel piccolo lago.

Qui, in Thailandia, abbiamo la nostra cultura e ci sentiamo soddisfatti quando tutti si comportano secondo le nostre abitudini. Se arriva qualcuno che le sovverte, non ne siamo affatto contenti. Ora siamo pesciolini in un grande lago. Se un grande pesce dovesse però vivere in un laghetto, come si sentirebbe?

Lo stesso avviene per gli abitanti di altri paesi. Quando sono a casa loro e tutto è familiare, si sentono a loro agio, nel loro ambiente: pesciolini in un grande lago. Se vengono in Thailandia e si devono adattare a condizioni e usi diversi, si sentirebbero forse oppressi, come il grande pesce nel piccolo lago. Tutto è diverso: il cibo, il modo di vivere. Ora il grande pesce è andato a finire nel piccolo lago e non può più muoversi liberamente.

Anche le abitudini e gli attaccamenti delle persone variano. Alcuni si attaccano a destra, altri a sinistra. Perciò, la cosa migliore per noi è essere consapevoli. Essere consapevoli delle consuetudini, ovunque si vada. Se pratichiamo la consuetudine del Dhamma, ci adatteremo facilmente agli usi della società, sia all’estero che a casa. Se invece non capiamo le consuetudini del Dhamma, allora non sapremo come cavarcela. Le consuetudini del Dhamma sono il punto di incontro di tutte le culture e tradizioni.

Ho udito le parole del Buddha che diceva: “Quando non capite il linguaggio di qualcuno, quando non capite il loro modo di parlare, quando non capite il loro modo di agire in quel Paese, non dovreste mostrarvi altezzosi e darvi delle arie”. Posso affermare per esperienza che queste parole sono il giusto modello a cui attenersi, sempre e ovunque. Mi ritornarono in mente quando stavo viaggiando all’estero e le ho messe in pratica in questi due anni in cui sono stato fuori dal mio paese. Sono molto utili.

Prima mi aggrappavo strettamente, ora mi aggrappo, ma non così forte. Prendo su qualcosa per guardarlo, poi lo poso. Prima prendevo su le cose e le trattenevo. Le tenevo strette. Ora le tengo, ma non strette. Perciò dovete permettermi di parlarvi duramente o arrabbiarmi con voi, perché lo faccio “tenendo, ma non stringendo”, prendendo su e poi lasciando andare. Vi prego di tenere sempre presente questa considerazione.

Se comprendiamo il Dhamma del Buddha potremo essere veramente felici e contenti. Per questo apprezzo gli insegnamenti del Buddha e pratico per unificare le due usanze: quella del mondo e quella del Dhamma.

Durante questo viaggio ho compreso qualcosa che vorrei condividere con voi. Ho sentito che avrei fatto qualcosa di benefico, benefico per me, per gli altri e per l’insegnamento; benefico per la gente in generale e per il nostro sangha, per ognuno di voi. Non sono andato per turismo, non son andato a visitare altri paesi solo per curiosità. Sono andato per un giusto scopo, per me e per gli altri, per questa vita e per la prossima, per lo scopo ultimo. Quando si arriva a ciò, tutto diventa uguale. Chi ha saggezza vedrà le cose proprio così.

Chi ha saggezza cammina sempre sulla via giusta, trovando un significato per il suo andare e venire. Vi darò un’analogia. Andando in qualche posto potreste incontrare una persona cattiva. In questo caso, alcuni reagirebbero con avversione. Ma uno che ha il Dhamma, se incontra una tale persona, pensa “Ho trovato il mio maestro”. Attraverso di quella, si può capire com’è una persona buona. Anche quando si incontra una persona buona, si trova un maestro, perché essa fa capire com’è una persona cattiva.

E’ bene vedere una bella casa e, allora, potremo capire com’è una brutta casa. E’ bene vedere una brutta casa e, allora, potremo capire com’è una bella. Quando c’è il Dhamma, non scartiamo alcuna esperienza, neanche la più banale (in questo modo non scartiamo neanche una piccola parte del Dhamma). Perciò il Buddha disse: “O Bhikkhu, considerate questo mondo come un carro reale, ornato e ingioiellato, da cui gli sciocchi vengono incantati, ma che non ha alcuna importanza per il saggio.”.

Quando stavo studiando il Nak Tam Ek (livello basilare dello studio del Dhamma), spesso riflettevo su questo detto. Mi sembrava molto utile. Ma solo quando cominciai a praticare, il suo significato mi divenne chiaro. “O Bhikkhu”: si rivolge a tutti noi seduti qui. “considerate questo mondo”: il mondo umano, l’akasaloka, i mondi degli esseri senzienti, tutti i mondi. Se uno conosce chiaramente il mondo, non c’è bisogno di fare nessuna meditazione speciale. Se uno sa che “il mondo è così”, secondo la realtà, non avrà bisogno di nient’altro.

Il Buddha conosceva chiaramente il mondo. Conosceva il mondo per quello che era realmente. Conoscere il mondo chiaramente è conoscere i livelli più sottili del Dhamma e dal mondo non essere più invischiati o preoccupati. Non saremo più influenzati dai dhamma mondani, perchè non ci saranno più.

Gli esseri con una visione mondana sono governati dai dhamma terreni e sono sempre in uno stato di conflitto (perchè sono vie sempre in conflitto). Perciò, qualunque cosa troviamo o vediamo, la dobbiamo contemplare attentamente. Ci dilettiano della vista, dei suoni, degli odori, dei gusti, delle sensazioni tattili e delle idee. Ora vi chiedo di contemplare tutto ciò. Voi sapete cosa è. Sono le forme che l’occhio vede, come per esempio quelle di uomini o di donne. Certamente sapete anche cosa sono i suoni, e così pure gli odori, i gusti e il contatto fisico. Poi ci sono le impressioni mentali e le idee, perchè ogni volta che abbiamo un contatto attraverso i sensi fisici, sorge anche un’attività mentale. Tutto converge qui.

Possiamo camminare un intero anno o un’intera vita insieme al Dhamma senza comprenderlo. Ci viviamo insieme tutta la vita senza conoscerlo. I nostri pensieri vanno troppo lontano. I nostri scopi sono troppo grandi; desideriamo troppo.

Per esempio, un uomo vede una donna, o una donna vede un uomo. I due provano un grande interesse. Perché gli diamo troppa importanza. Quando vediamo una persona attraente del sesso opposto tutti i nostri sensi ne vengono coinvolti. Vogliamo vedere, sentire, toccare, osservarne i movimenti, insomma fare ogni sorta di cose. Ma se ci sposiamo, vediamo che non è poi una gran cosa. Dopo un po’ sentiremmo forse il bisogno di mettere una certa distanza tra noi due (perfino farsi monaco!), ma non possiamo.

E’ come un cacciatore che insegue un cervo. Quando vede il cervo, è tutto eccitato. Tutto quello che riguarda il cervo lo interessa, le orecchie, la coda, tutto. Il cacciatore è completamente su di giri. Il suo corpo è leggero e vigile. Ha paura soltanto che il cervo scappi.

La stessa cosa quando un uomo vede una donna che gli piace, o una donna vede un uomo: ogni cosa è così eccitante: la vista, la voce… ci fissiamo talmente su questo che nessuno può distoglierci; pensiamo e guardiamo quanto più possiamo, fino al punto che il nostro cuore ne è dominato interamente.

Proprio come il cacciatore che, quando vede il cervo, è eccitato e si preoccupa che l’animale non lo veda. Tutti i suoi sensi sono all’erta e da questo ricava un gran piacere. Il suo solo timore è che il cervo scappi, ma cosa sia il cervo veramente, lui non lo sa. Lo insegue, alla fine gli spara e lo uccide. Il suo lavoro è finito. Raggiungendo il posto dove la bestia è caduta, la guarda: “Oh, è morta!”. Ora non è più eccitato: c’è solo della carne morta. Forse si cuocerà un po’ di carne e la mangerà, poi avrà la pancia piena e non saprà che altro fare. Osservando le varie parti del cervo non è più eccitato a quella vista. L’orecchio è solo un orecchio. Tira la coda ed è solo una coda. Ma quando era vivo, ah che roba! Allora non era indifferente. Vedere il cervo, osservarne ogni movimento, era completamente avvincente ed emozionante, non poteva neanche pensare di andarsene.

Siamo anche noi così, vero? La forma di una persona attraente dell’altro sesso è così. Fino a che non l’abbiamo catturata, la vediamo incredibilmente bella. Ma, se finiamo per viverci insieme, ce ne stanchiamo. Come il cacciatore che ha ucciso il cervo e ora può liberamente toccarne le orecchie o tirargli la coda. Non ne rimane un granché, nessun eccitamento una volta che l’animale è morto. Quando ci sposiamo possiamo appagare i nostri desideri, ma non è più una gran cosa e finiamo per cercare una via d’uscita.

Questo perché non consideriamo le cose da tutti i punti di vista. Credo che, se contemplassimo veramente, non ci troveremmo un granché, non molto di più di ciò che ho appena descritto. Il fatto è che noi ingrandiamo le cose più di quanto non siano in realtà.

Quando vediamo un corpo, sentiamo che saremmo in grado di consumarne tutte le parti, le orecchie, gli occhi, il naso. Dal modo sfrenato in cui corrono i nostri pensieri, ci facciamo persino l’idea che quella persona, da cui siamo attratti, non debba neanche fare i suoi bisogni. Non lo so, ma può darsi che la pensino così in Occidente. ci facciamo l’idea che non faccia la cacca, o forse solo un po’. E’ come un gatto che si avvicina furtivamente a un topo. Prima di prenderlo, il gatto è vigile e concentrato. Quando gli balza addosso e lo uccide perde ogni entusiasmo. Il topo giace lì morto e il gatto non sente più alcun interesse e se ne va per la sua strada.

E’ tutto qui. L’immaginazione rende la cosa più grande di quello che è. E’ qui che ci roviniamo, a causa della nostra immaginazione. A proposito della sensualità, i monaci qui devono dominarsi più degli altri. Kama significa concupiscenza, ma in questo contesto significa desiderare le cose che ci attirano, significa sensualità. E’ difficile liberarsene.

Quando Ananda chiese al Buddha: “Quando il Tathagata sarà entrato nel Nibbana, come praticheremo la consapevolezza? Come dovremo comportarci con le donne? Che è un argomento così estremamente difficile. Come ci consiglia il Venerabile di praticare la consapevolezza a questo proposito?”.

Il Buddha replicò: “Ananda! E’ meglio che tu non veda affatto le donne.”

Ananda ne fu sorpreso; come è possibile non vedere gli altri? Ci pensò su, poi chiese di nuovo al Buddha: “Se si presentano dei casi in cui è impossibile evitare di vederle, come ci consiglia di praticare, il Venerabile?”

“In questi casi, Ananda, non parlare. Non parlare!”

Ananda considerò la risposta, ma pensò “Talvolta ci capita di camminare in una foresta e perdere la strada. In questo caso dobbiamo parlare con chiunque ci capiti di incontrare”. Perciò chiese: “Se c’è assoluto bisogno di parlare, come pensa il Venerabile che dobbiamo agire?”

“Ananda! Parla con consapevolezza!”

Sempre e in ogni situazione, la consapevolezza è la virtù di gran lunga più importante. Il Buddha istruì Ananda su come comportarsi in caso di necessità. Anche noi dovremmo contemplare cosa dobbiamo fare in un tal caso.

Quando la mente è in uno stato impuro e ha pensieri lascivi, non parlate affatto. Ma noi di solito non agiamo così. Anzi, più la mente è impura, più vogliamo parlare. Più la mente è lasciva, più vogliamo fare domande, guardare, parlare. Sono due strade incompatibili. Perciò ho paura, ho veramente una gran paura. Voi non siete spaventati, ma è possibile che stiate peggio di me. “Non ho alcuna paura su questo punto. Non ci sono problemi!” Per me è necessario rimanere con la paura. Capita mai che un vecchio sia lascivo? Comunque, a scanso di equivoci, nel mio monastero io tengo i due sessi il più possibile separati. A meno di una stretta necessità, non ci dovrebbe essere alcun contatto tra di loro.

Quando praticavo da solo nella foresta, talvolta vedevo delle scimmie che copulavano sugli alberi, e sentivo nascere il desiderio. Allora mi sedevo li a guardare e pensare, e sentivo la lascivia: “Non sarebbe un male andare da loro, essere una scimmia come loro!” Ecco cosa può fare il desiderio sensuale: perfino una scimmia lo può suscitare.

In quei giorni, le donne laiche non potevano venire a sentire il Dhamma da me. Avevo troppa paura di quello che avrebbe potuto succedere. Non è che avessi qualcosa contro di loro; semplicemente mi sentivo troppo insensato. Ora se parlo alle donne, parlo a quelle più anziane. Devo sempre stare in guardia. Ho fatto esperienza di quanto sia pericoloso per la mia pratica. Mentre parlavo non aprivo troppo gli occhi e non mi agitavo per intrattenerle. Avevo troppa paura di agire in quel modo.

State attenti! Ogni samana si trova ad affrontare questa situazione e deve esercitare il controllo. E’ una cosa molto importante. Se non fosse possibile, ma tutto è possibile. Veramente, tutti gli insegnamenti del Buddha sono sensati e veri sotto ogni punto di vista.

Ci sono cose che mai avreste immaginato che fossero come in realtà sono. E’ strano. All’inizio non riponevo nessuna fiducia nel fatto di sedere a occhi chiusi in meditazione. Mi chiedevo che valore potesse mai avere, a che scopo uno lo faceva? Poi c’era la meditazione camminata: camminavo da un albero all’altro, avanti e indietro, avanti e indietro e mi annoiavo e allora pensavo: ‘Ma che cammino a fare? Camminare avanti e indietro non ha nessun senso.’ E’ così che pensavo. Invece, la meditazione camminata è molto importante. Sedere a praticare samadhi ha molta importanza. Ma certe volte ci sono alcuni temperamenti che hanno le idee confuse a proposito della meditazione seduta o camminata.

Non possiamo meditare sempre in una sola postura. Ci sono quattro posture: in piedi, in movimento, seduti e distesi. Gli insegnamenti parlano di rendere le posture armoniose e uguali. Da ciò potreste ricavare l’idea che uno dovrebbe stare in piedi, camminare, sedere o giacere per un uguale numero di ore, nella stessa postura. Quando sentite questi insegnamenti, non riuscite a capire cosa vogliano dire, perché usano il linguaggio del Dhamma, non il linguaggio ordinario. “Va bene, starò seduto per due ore, starò in piedi per due ore, poi mi sdraierò per due ore”. Forse pensate che dovreste fare così. E’ quello che ho pensato anch’io. Ho cercato di praticare in quel modo, ma non ho risolto nulla.

Questo capita perché non si ascolta nel modo giusto, si travisano le parole, udendo semplicemente il loro suono. “Rendere le posture uguali” si riferisce alla mente e a nient’altro. Significa rendere la mente luminosa e chiara, in modo che nasca la saggezza, che vi sia la conoscenza di tutto ciò che avviene in ogni postura e in ogni situazione.

In qualsiasi postura siate, conoscete i fenomeni e gli stati mentali per quello che sono: impermanenti, insoddisfacenti e impersonali. La mente rimane stabile in questa consapevolezza, continuamente e in ogni postura. Quando la mente sente avversione, quando sente attrazione, non perdete la strada, ma riconoscete queste condizioni per quello che sono.

La consapevolezza è ferma e continua; lasciate andare con determinazione e continuità. Non vi fate ingannare dalle condizioni buone. Non vi fate ingannare dalle condizioni cattive. Rimanete sulla retta via, la vostra è una retta pratica. Questo è ciò che si intende per “rendere le posture uguali”. Si riferisce all’interno, non all’esterno; si parla della mente.

Se con la mente rendiamo le posture uguali, quando veniamo lodati non ci sentiamo esilarati. Quando veniamo calunniati non ce la prendiamo. Non andiamo su e giù a causa loro, ma rimaniamo fermi dove siamo. E perché? Perché vediamo il pericolo insito in queste cose. Lo vediamo sia nella lode che nel biasimo e siamo stabilmente consapevoli di esso come insito nei fenomeni buoni e in quelli cattivi. Questo significa rendere le posture uguali. Manteniamo continuamente questa consapevolezza interiore, sia che osserviamo fenomeni interni che esterni.

Nel modo usuale di sperimentare le cose, abbiamo una reazione positiva quando qualcosa ci sembra buono e una reazione negativa quando ci sembra cattivo. In tal modo le posture non sono uguali, armoniche.

Se sono armoniche è perché abbiamo sempre consapevolezza. Sappiamo quando ci attacchiamo alle cose buone o a quelle cattive; questa è la cosa migliore. Anche se ancora non possiamo lasciar andare, siamo sempre consapevoli di questi stati mentali. Se siamo continuamente consapevoli di noi stessi e dei nostri attaccamenti, arriviamo a capire che tutto questo aggrapparsi non può essere la Via. Lo sappiamo, ma cinquanta volte su cento, non riusciamo a lasciare la presa.

Però, anche se non siamo in grado di lasciare andare, capiamo che il lasciar andare ci porterebbe pace. Vediamo i difetti e il pericolo nelle cose piacevoli e spiacevoli, nella lode e nel biasimo, con una continua consapevolezza. Perciò cerchiamo di rimanere sempre consapevoli sia quando veniamo lodati che quando veniamo criticati.

La gente ‘normale’, quando viene criticata o calunniata, non lo sopporta; si sente profondamente ferita. Quando vengono lodati, invece, si sentono contenti e eccitati. Nel mondo è una cosa naturale. Ma chi sta praticando sa che dove c’è lode c’è pericolo e anche dove c’è biasimo c’è pericolo. Sa che attaccarsi a uno dei due porta cattivi risultati. Sono tutti nocivi, se ci attacchiamo ad essi e diamo loro importanza.

Quando abbiamo questo tipo di presenza mentale, conosciamo i fenomeni man mano che accadono. Sappiamo che se sviluppiamo attaccamento ad essi, ci sarà una vera sofferenza. Se non abbiamo presenza mentale, allora ci aggrappiamo a tutto quello che crediamo buono o cattivo, ed ecco nata la sofferenza.

Se, invece, facciamo attenzione, vediamo questo attaccamento; vediamo come ci teniamo aggrappati a ciò che è buono o cattivo e come ciò causa sofferenza. All’inizio ci afferriamo alle cose, ma poi, con la consapevolezza, ne vediamo i difetti. E come avviene? Proprio perché, attaccandoci freneticamente, sperimentiamo sofferenza e, conseguentemente, cercheremo una via d’uscita per essere liberi.

Ci chiediamo così: “Cosa devo fare per essere libero?”

L’insegnamento buddhista ci dice di non aggrapparci, di non tener stretto nulla. Ma noi non lo capiamo completamente.

Il punto è di tenere, ma non stretto, di tenere senza attaccamento, di stringere senza attaccamento.

Per esempio, vedo davanti a me questo oggetto. Sono curioso di sapere cos’è, perciò lo raccolgo e lo guardo: è una torcia. Ora lo posso mettere giù. Questo è tenere, ma non stretto.

Se ci dicessero di non aggrapparci completamente a niente, che cosa potremmo fare? Non sapremmo cosa fare. Penseremmo che non dobbiamo praticare la meditazione seduta o camminata. Perciò, all’inizio, dobbiamo tenere e stringere, ma senza forte attaccamento. Potreste dire che si incomincia con tanha, che finirà per diventare parami.

Per esempio, siete venuti a Wat Pah Pong; prima di farlo, dovete aver avuto il desiderio di farlo. Se non aveste avuto desiderio non sareste venuti. Possiamo dire che siete venuti a causa del desiderio: è come aggrapparsi. Poi andrete via: è come non attaccarsi. E’ un po’ come quando uno non è sicuro di un certo oggetto, lo tira su, lo osserva un secondo e lo rimette giù. Questo è tenere senza aggrapparsi, o più semplicemente, conoscere e lasciar andare.

Prendere su per osservarlo, conoscerlo e lasciarlo andare; conoscere e rimetterlo giù. Le cose potrebbero essere buone o cattive ma voi le conoscete soltanto e le lasciate andare. Siete consapevoli di tutti i fenomeni, buoni e cattivi e li lasciate andare. Non vi afferrate ad essi con ignoranza. Li tenete con saggezza e poi li rimettete giù.

In questo modo le posture possono essere eque e armoniose. Significa che la mente è capace, la mente è consapevole e da qui nasce la saggezza. Quando la mente ha saggezza, cosa ci può essere di più? Prende le cose senza nuocere, non si tiene aggrappata strettamente, le conosce e le lascia andare. Quando sentiamo un suono, pensiamo: “il mondo dice che è una cosa buona” e lo lasciamo andare. Il mondo potrebbe dire “E’ una cosa cattiva”, ma noi lo lasciamo andare lo stesso.

Conosciamo il bene e il male. Chi non conosce il bene e il male, vi si attacca e ne ottiene solo sofferenza. Chi ha la conoscenza, non ha questo tipo di attaccamenti.

Poniamo la domanda: A che scopo viviamo? Cosa vogliamo ottenere dal nostro lavoro? Viviamo in questo mondo, ma a che scopo ci viviamo? Lavoriamo: ma cosa vogliamo ottenere dal lavoro?

Nella concezione mondana, uno lavora perché vuole ottenere alcune cose e considera questo atteggiamento una sequenza logica di causa e effetto. Ma l’insegnamento del Buddha va oltre. Ci dice: Fate il vostro lavoro senza desiderare nulla. A livello mondano facciamo una cosa per ottenerne un’altra, facciamo questo per ottenere quello, facciamo sempre qualcosa per ottenere qualcos’altro. Questo è il modo di agire a livello mondano. Il Buddha ci ha detto “Lavorate per amore del lavoro, senza volere null’altro”.

Ogni volta che lavoriamo con il desiderio di ottenere qualcosa, soffriamo. Controllatelo voi stessi.

Articolo del Venerabile Ajahn Chah

Ringraziamenti a: © Ass. Santacittarama, 2003. Tutti i diritti sono riservati. Soltanto per distribuzione gratuita. Traduzione di Silvana Zivian.

Fonte: http://www.amadeux.it/forum/topic.asp?TOPIC_ID=20382

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