Ajahn Sumedho: Contemplare il senso del sé.

Contemplare il senso del sé.

Credo che una cosa che ci interessa tutti da vicino siamo noi stessi, perché siamo noi il soggetto della nostra vita. E’ un interesse naturale, qualunque cosa pensiate di voi stessi, poiché è con se stessi che si deve vivere per un’intera vita.

L’opinione che abbiamo di noi stessi è perciò qualcosa che può darci grande sofferenza, se ci guardiamo nella maniera errata. Anche nelle circostanze più fortunate, se non guardiamo a noi stessi nella maniera appropriata, finiremo per creare sofferenza nelle nostre menti.

Perciò il Buddha tentò di indicare che il modo di risolvere i problemi non è quello di cercare di rendere soddisfacenti e piacevoli le situazioni esteriori, ma, piuttosto, quello di sviluppare la retta comprensione, la retta attitudine verso noi stessi. Questo è il punto chiave del suo insegnamento.

Vivendo oggi in Gran Bretagna, ci aspettiamo il massimo del comfort e ogni tipo di privilegi, di diritti e di beni materiali. Ciò rende la vita in molti modi più piacevole, ma allo stesso tempo, quando ogni nostro bisogno è soddisfatto e la vita è troppo confortevole, qualcosa in noi non si evolve. A volte è proprio la lotta per superare le avversità che ci fa sviluppare e maturare come esseri umani.

Ricordo che quando vivevamo a Londra, eravamo soliti camminare al mattino su fino ad Hampstead Heath per ammirare quella gente ricca che portava a spasso i cagnolini. Cominciammo a pensare che non era poi così male nascere cani qui in Inghilterra: avere qualche gentile signora costantemente pronta a viziarci, a farci dei cappottini per l’inverno, a procurarci gustosi biscottini per nutrirci..

Una tale vita, così piena di affetto e di comodità, ci sembrava potesse essere piuttosto piacevole! Ma la verità è che molti di noi la troverebbero soffocante: abbiamo bisogno di misurarci con qualcosa, abbiamo bisogno di lottare e di imparare come andare oltre i limiti che pensiamo di avere. Ci sentiamo sconfitti solo quando ci arrendiamo con rassegnazione e apatia ai limiti che abbiamo.. Allora, per forza, diventiamo depressi e infelici.

Ma, nel momento in cui cediamo o ci arrendiamo ai vincoli e alle restrizioni con saggezza, allora troviamo la liberazione! Essendo nati in questo corpo umano e dovendo vivere regolati dalle leggi di natura sul pianeta Terra, la vita stessa è esperienza di vincoli e di restrizioni.

Mentalmente possiamo elevarci fino al cielo, possiamo andare in paradiso, ma fisicamente siamo legati alle limitazioni che, invecchiando, diventano sempre più restrittive. Ciò non deve essere visto come sofferenza, perché tale è la natura delle cose.

Potete sviluppare un atteggiamento diverso e imparare ad accettare le limitazioni, non con una rassegnazione negativa, ma proprio perché vi rendete conto che ciò che state cercando veramente è in voi stessi. Non avete bisogno di cercarlo esternamente.

Non avete bisogno di pensare che è qualcosa di molto lontano o di inaccessibile. Viene attraverso la disponibilità a calmarsi, a fermare ogni resistenza, ad ascoltare e a risvegliarsi alla propria esperienza cosciente. Certamente però, il grande ostacolo alla realizzazione di ciò, è che noi abbiamo la percezione di noi stessi come se fossimo questo, quello o quell’altro.

Il senso di sé è qualcosa di cui diveniamo consci da bambini. Appena nati non c’è alcun senso di un sé come di un qualcosa di definito. Man mano che cresciamo impariamo ciò che siamo tenuti ad essere: se siamo buoni o cattivi, se siamo o non siamo simpatici, se siamo accettati o biasimati. In tal modo sviluppiamo il senso di noi stessi.

Spesso ci compariamo agli altri e abbiamo dei modelli guida di come dovremmo diventare quando cresceremo. Nella mia stessa esperienza notai che l’ego iniziò veramente a consolidarsi quando fui mandato a scuola: fui gettato dentro quelle classi, con tutti quegli strani bambini e cominciai a notare chi era il più forte, chi il più duro, chi era il favorito del maestro.

Vediamo noi stessi nei termini delle nostre relazioni con gli altri. E questo atteggiamento si sviluppa attraverso l’intero arco della vita, a meno che non scegliamo deliberatamente di cambiare e iniziamo a guardare più in profondità, invece di vivere solamente attraverso il condizionamento della mente che abbiamo acquisito da bambini.

Anche quando diventiamo più vecchi, a volte ci comportiamo veramente da adolescenti e abbiamo reazioni emotive infantili verso la vita. Comportamenti e reazioni che non siamo stati capaci di risolvere, se non sopprimendoli e ignorandoli. E questo può essere molto imbarazzante o scioccante per noi.

C’è una maniera di parlare del sé che lo fa sembrare molto dottrinale. I buddhisti a volte possono dire che non esiste un sé e lo fanno come se fosse un proclama al quale dover credere; come se ci fosse qualche Dio lassù che dice: “Non esiste alcun sé!” E qualcosa in noi oppone resistenza a tale imposizione. L’andare annunciando che non c’è alcun sé non sembra genuino.

Qual’è infatti l’esperienza che stiamo facendo in questo momento?

Qui sembra esserci, eccome, un senso di sé! State sentendo, state respirando, state vedendo e ascoltando; reagite alle cose, la gente può lodarvi o criticarvi, per cui vi sentite di conseguenza felici o depressi. Quindi, se questo non sono io, allora, cos’è?

E sono tenuto ad andare in giro come buddhista credendo di non avere un sé? Se devo proprio credere in qualcosa, forse è meglio che io creda di avere un sé, perché in questo modo posso dire: ” Il mio vero sé è perfetto e puro”. Questo, perlomeno, vi dà una sorta di ispirato incoraggiamento a provare a vivere la vostra vita, piuttosto che dire che non c’è alcun sé, alcuna anima, lasciando annichilire ogni opportunità.

Questi sono solo esempi dell’uso del linguaggio. Possiamo dire: “Non esiste alcun sé” come un proclama, oppure: “Non esiste alcun sé”, come una riflessione. La maniera riflessiva serve a incoraggiarci a contemplare il sé..

Il Buddha vuole dirigere la nostra attenzione sul fatto che, non appena osserviamo le mutevoli condizioni con le quali tendiamo ad identificarci, possiamo iniziare a vedere che queste non sono “sé”. Ciò in cui crediamo, ciò che tratteniamo e a cui ci aggrappiamo, ciò che presumiamo, non è ciò che veramente siamo: è una situazione, una condizione, qualcosa che cambia, a seconda del tempo e dello spazio.

Ciascuno di noi sperimenta la coscienza per mezzo del corpo umano che ci è dato. Questa è la realtà.. La coscienza è una funzione naturale e non vi è un senso del sé riguardo alla coscienza. La sola ragione per cui potremmo supporre l’esistenza di un sé, è perché la coscienza opera in termini di soggetto e oggetto.

Per essere consci, dobbiamo essere una entità separata, così che operiamo, nel qui ed ora, da questa posizione di essere individuale. E’ così che arriviamo ad ossessionarci con le nostre interpretazioni assolutamente personali di ogni cosa: ogni reazione o esperienza, che sia istintiva o altro, può essere interpretata nel senso che questa sia io stesso o che mi appartenga.

Possiamo interpretare le energie naturali del corpo in una maniera molto personale, come se fossero me, un mio problema, piuttosto che vederle come parte dell’eredità che ci vien data nel nascere come esseri umani.

Anche un bimbo appena nato ha impulsi istintivi alla sopravvivenza, così che quando ha fame piange. I neonati, di solito, ci sembrano creature così deliziose, che ci prendiamo naturalmente cura di loro e li amiamo.

Pensate che il neonato stia facendo questo deliberatamente – “provo ad essere carino, così Ajahn Sumedho mi terrà in braccio e mia madre mi amerà” – oppure questo è proprio il modo in cui le cose sono, in cui la natura agisce? Sono solo cose naturali, ma abbiamo la tendenza a vederle in modo molto personale.

Le opinioni che abbiamo uno dell’altro, spesso, ce le portiamo dietro per una vita intera: lei è così, lui è cosà. E questi pareri influenzano il modo in cui noi reagiamo e ci rapportiamo l’uno all’altro; rispondiamo proprio nel modo in cui qualcuno ci appare: piacevole, felice, accogliente, cattivo e antipatico, uno che ci loda o che ci insulta.

Possiamo portare risentimento per tutta la vita per essere stati insultati e non perdonare mai la persona che lo ha fatto. Forse l’ha fatto solo perché aveva un brutto momento, ma noi, se lo vogliamo, siamo ancora capaci di farne una questione, anche dopo trent’anni. Così questo “sé” ha bisogno di essere osservato, esaminato e contemplato in termini religiosi.

Ogni religione ha i propri insegnamenti che riguardano l’abbandono del sé: si può dire che la religione insegna a rinunciare alle tendenze egoistiche della mente, così che, prima di poter realizzare, ad esempio, il Regno di Dio, dobbiamo lasciare andare le nostre seduzioni e ossessioni egoistiche.

Se abbiamo l’intenzione di realizzare il vero Dhamma, occorre che lasciamo andare l’idea di un sé. Quindi questo può essere un altro comando dall’alto: “Non devi essere egoista! Sbarazzati di ogni egoismo e sforzati di diventare una persona pura!”.

Siamo tutti d’accordo con questo, nessuno sarebbe tentato dall’idea di diventare sempre più egoista. Ma, a volte, neanche sappiamo come non essere egoisti. Potremmo avere nobili idee su come rinunciare alle nostre ricchezze, fino a non possedere più nulla, per avvicinarci sempre più all’annullamento dell’egoismo.

Ma la cosa strana è che quando si diventa monaco o monaca, a volte, sebbene tu stia pensando che ti stai sbarazzando dell’egoismo, ti ritrovi a diventare sempre più egoista. Il tuo egoismo diventa molto concentrato, dal momento che non puoi agire in un campo così ampio come nella vita da laico.

In questo modo diventi molto più consapevole del tuo egoismo. E, se lo condanni, allora ti sembra di essere in una situazione che non ha speranza, perché inizi ad interpretare la vita da quella sensazione di “io sono egoista e mi devo sbarazzare di questo egoismo”.

Ed uno dei maggiori problemi del nostro modo di pensare è l’abbandonare quella premessa di base che ci fa dire: “Io sono questo tipo di persona e devo fare qualcosa allo scopo di diventare in futuro una persona altruista e illuminata”.

Nella nostra cultura siamo condizionati a pensare in questo modo: sii un bravo ragazzo e quindi fai questo e quello, così che in futuro sarai una persona distinta e accettata dalla società. Questo ha un senso per quanto riguarda la parte mondana della vita, perché cominciamo col non sapere nulla e dobbiamo quindi, man mano, apprendere tutto.

E, da quel momento in poi, dobbiamo studiare le varie materie scolastiche in modo da diventare qualcuno che ha il suo posto all’interno del sistema. Se falliamo, allora diventiamo qualcuno che ha fallito. E il fallimento è disprezzato.

È interessante insegnare meditazione a persone che hanno paura del fallimento. Hanno paura di fallire nella meditazione! Ma non è possibile fallire nella meditazione. Non si tratta mai di fallimento, altrimenti anche la meditazione diventerebbe solo un altro modo di metterci alla prova.

“Posso farcela. Se pratico con perseveranza, diventerò un bravo meditatore e, se tutto va bene, raggiungerò l’illuminazione, forse.”. E poi arrivano i dubbi: “Ma non penso che potrò mai diventare illuminato. Chi lo è?”.

Alla gente piace fare delle verifiche su di noi, per capire se Ajahn Sumedho è illuminato o se lo è Ajahn Viradhammo, oppure se abbiamo raggiunto un qualche livello più avanzato. Forse siamo soltanto dei tipi che non ce l’hanno fatta?

Ma c’è una maniera differente di vedere e pensare. Ed è l’opposto del vederci in termini di qualcuno che deve fare qualcosa per diventare qualcun altro o altra, che è migliore di ciò che è ora.. E’ un modo molto materialistico di pensare.

Non è forse questo ciò che le persone amano sentire: “Avevo un sacco di problemi ed ero veramente un uomo miserabile e infelice. Poi, praticando la meditazione, vidi la luce e ora sono felice ed appagato”? “Sono questa particolare persona, ho questa personalità, sono Ajahn Sumedho… sono così e sono cosà… dovrei essere e non dovrei essere” viene da un modo di pensare mondano, condizionato.

Ma l’obiettivo della meditazione buddhista è cambiare il proprio atteggiamento, usando la funzione riflessiva o intuitiva della mente.

Spesso, quando entriamo nella quiete della meditazione, possiamo essere sopraffatti dalla sensazione di sé, ci sentiamo pieni di ogni genere di ricordi e di idee circa noi stessi. A volte speriamo che “se vado a meditare, allora entrerò in uno stato di quiete e uscirò da questo orribile sensazione che ho di me stesso”.

A volte la mente si fermerà improvvisamente e faremo l’esperienza di una sorta di beatitudine o di una pace che avevamo dimenticato o a cui non avevamo mai realmente fatto caso. Ma il senso di sé stessi sarà ancora all’opera, a causa della forza dell’abitudine. Possiamo allora sviluppare un atteggiamento di ascolto di questo sé, non nei termini di credervi o meno, ma nel senso di notare veramente cos’è che nasce e che cessa.

Non importa se ci consideriamo migliori o peggiori: è tale stato in sé che viene e va. Solo lasciando andare, abbandonando il sé, non tentando di sbarazzarci di esso ma consentendogli di andarsene, cominceremo a fare l’esperienza della genuina natura della mente, che è beatitudine, silenzio.

Ci sono quindi dei momenti della nostra vita in cui il sé smette di funzionare ed entriamo in contatto con lo stato puro dell’esperienza consapevole. Questo è ciò che chiamiamo beatitudine. Ma nel momento in cui abbiamo tali esperienze di beatitudine, immediatamente, ci sopraffà il desiderio di averne ancora delle altre e non importa quanto strenuamente ci impegniamo per riottenerle: finché restiamo attaccati all’idea di avere nuovamente uno stato di beatitudine, questo non si realizzerà.

Non è così che funziona. Volerlo, significa che lo abbiamo già reso impossibile. L’attitudine, quindi, è quella di lasciar andare il desiderio. Non di sopprimerlo, perché questo è un altro tipo di desiderio: il desiderio di sbarazzarci del desiderio fa parte dello stesso problema. Quindi, se stiamo tentando di sopprimere o di annientare il desiderio, non funziona.

Non funziona neanche se semplicemente lo assecondiamo. Invece, in uno stato di vigile consapevolezza, iniziamo a vedere cosa sta veramente accadendo ed allora possiamo lasciare andare le cause della nostra sofferenza. Vediamo le cose così come veramente sono ed abbiamo la saggezza intuitiva del lasciar andare.

Quindi, in questa vita da esseri umani, ogni istante, dalla nascita alla morte, è un’opportunità per saper comprendere nel giusto modo. Il successo o il fallimento non significano nulla, perché, anche se falliamo, ne possiamo ricavare un insegnamento. Ciò non significa che non dobbiamo più tentare o cercare di avanzare, ma che il nostro obiettivo non è più quello di raggiungere il successo, ma quello di capire le cose.

Ci vuole molto tempo per andare oltre tale visione del sé, perché è questa un’influenza che pervade interamente la nostra esperienza conscia. Inoltre, con la meditazione, portiamo l’attenzione su cose molto ordinarie, come il respiro e il corpo e in tal modo impariamo a stare nel momento presente, a sostenere l’attenzione, piuttosto che essere intrappolati nel tentativo di diventare qualcosa, o di ottenere qualcosa dalla nostra pratica.

Tale “provare ad ottenere qualcosa” non funziona, perché qualsiasi cosa noi otteniamo siamo destinati a perderla. Quindi, se avete la sensazione di avere ottenuto samadhi, significa anche che lo perderete.

Quando partecipiamo ad un ritiro di meditazione in cui il silenzio è molto intenso, possiamo ottenere uno stato di beatitudine. Ma poi, quando il ritiro termina, perdiamo tale stato. Questo non significa rinunciare ai ritiri, ma provare a guardare a tali opportunità, non più da una posizione materiale, auto-centrata, ma da una posizione d’osservazione di come le cose sono non appena rimuoviamo le stimolazioni sensoriali.

O come sono quando usciamo dalla situazione ideale, in cui gli stimoli sensoriali sono ridotti al minimo e ci incamminiamo fuori nella strada, con il rumore del traffico, l’inquinamento e la gente attorno che corre. Ci possiamo sentire anche peggio di prima, perché adesso siamo diventati più sensibili e il mondo volgare è ancora più insopportabile.

Ma, se contempliamo nel modo giusto, vediamo la deprivazione o la stimolazione sensoriale “così com’è”. Di conseguenza, i sensi non si agitano o si irritano e rimaniamo più o meno in contatto con la natura della mente, che è serena. Tale natura è sempre presente, ma quando siamo intrappolati nell’irritazione e nell’agitazione non lo notiamo.

L’approccio buddhista è quello di sviluppare consapevolezza, piuttosto che andarsene in luoghi protetti, in cui le stimolazioni sensoriali siano al minimo o diventare un eremita.

Infatti, attraverso la presenza mentale, iniziamo a realizzare che la pura natura della mente è sempre con noi, anche in questo momento. Se manterremmo la presenza mentale anche quando siamo agitati o irritati, sperimenteremo una beatitudine naturale, che sta oltre quelle condizioni. E, una volta che realizzeremo questo come esperienza personale, allora sapremo come non provare sofferenza.

La fine della sofferenza sta nel vedere le cose come realmente sono, di modo che il nostro rifugio non sia nella condizione reattiva ed eccitabile degli occhi, delle orecchie e del naso, della lingua, del corpo, del cervello e delle emozioni.

Qui ci sono solo condizioni che irritano e agitano. Attraverso la presenza mentale, invece, realizziamo ciò che trascende tali condizioni. Quello è il nostro autentico rifugio. Possiamo realizzare ciò, come esseri umani, attraverso una saggia contemplazione delle nostre proprie difficoltà personali.

Tratto da un discorso del venerabile Ajahn Sumedho, tenuto nell’estate 1993. Dal “Forest Sangha Newsletter” n°44

Fonte: https://www.amadeux.it/forum/topic.asp?TOPIC_ID=21757

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