Ajahn Sumedho: La via della consapevolezza.

“Oltre la morte: la via della consapevolezza”.

Consapevolezza dell’ordinario.

Nel corso della prossima ora praticheremo la meditazione camminata, prendendo come oggetto di concentrazione l’azione del camminare, portando l’attenzione al movimento dei piedi e alla pressione dei piedi sul terreno. Si può anche associare alla camminata il mantra “Buddho”: “Bud'” sul piede destro, “dho” sul sinistro, per tutta la lunghezza del sentiero del jongrom. Vedete se vi riesce di rimanere in contatto con la sensazione, pienamente svegli alla sensazione di camminare, dal principio alla fine del tratto del jongrom.

Camminate a velocità normale, potrete poi rallentare o aumentare l’andatura a seconda dei casi. Tenete un’andatura normale, perché la nostra meditazione si interessa alle cose ordinarie, più che a quelle speciali. Usiamo il respiro normale, non uno speciale “esercizio di respirazione”, la posizione seduta piuttosto che tenerci in equilibrio sulla testa, un’andatura normale, invece di correre, saltellare sul posto o camminare a passo deliberatamente rallentato: semplicemente un’andatura rilassata. La nostra pratica ha per oggetto l’ordinario, perché lo diamo per scontato. Ora però portiamo la nostra attenzione a tutte le cose che abbiamo dato per scontate e non abbiamo mai notato, come la nostra mente e il nostro corpo.

Perfino i medici esperti di fisiologia e anatomia non sono realmente in contatto con il proprio corpo. Ci dormono insieme, ci sono nati insieme, invecchiano, devono conviverci, nutrirlo, esercitarlo, eppure vi parleranno del fegato come di quella cosa che sta sugli atlanti di anatomia. È più facile guardare un fegato disegnato che essere consapevoli del proprio, non è vero? Sicché noi guardiamo il mondo come se in un certo senso non ne facessimo parte e ciò che è più ordinario, più comune, ci sfugge, interessati come siamo allo straordinario.

La televisione è lo straordinario. Alla televisione fanno ogni sorta di cose fantastiche, avventurose e romantiche. È un oggetto miracoloso, sul quale quindi è facile concentrarsi. Davanti alla “tivù” è facile restare ipnotizzati. Anche quando il corpo diventa straordinario – quando è molto malato o molto dolorante o prova sensazioni esaltanti o meravigliose – allora sì che lo notiamo! Ma la semplice pressione del piede destro sul terreno, il semplice movimentò del respiro, la semplice sensazione del corpo seduto sulla sedia, quando non c’è nessuna sensazione estrema – è a questo tipo di cose che ci risvegliamo. Portiamo la nostra attenzione alle cose così come sono, in un’esistenza ordinaria.

Quando la vita prende forme estreme, o straordinarie, ce la sappiamo cavare benissimo. Spesso i pacifisti e gli obiettori di coscienza si sentono rivolgere la fatidica domanda: “Voi rifiutate la violenza; ma cosa fareste se un maniaco aggredisse vostra madre?”

Ecco un dilemma che non credo si sia posto spesso alla maggior parte di noi! Non è il tipo di evento che capita di norma nella vita quotidiana. Ma se una situazione così grave si dovesse verificare, sono sicuro che reagiremmo nella maniera più opportuna. Anche il più tonto sa essere presente a se stesso in circostanze estreme. Ma nella vita normale, quando non succede nulla di grave, ora che siamo semplicemente seduti qui, possiamo permetterci di essere completamente tonti, no? Nel Piitimokkha (la regola monastica) si dice che il monaco non deve picchiare nessuno. Ecco allora che comincio a preoccuparmi di cosa farei se un maniaco aggredisse mia madre.

Ho creato un grosso problema morale in una situazione ordinaria, mentre sono seduto qui e mia madre non è neppure presente. In tutti questi anni nessun maniaco ha mai attentato all’incolumità di mia madre (diversamente dagli automobilisti californiani!). Le grosse questioni morali si risolvono al momento e nel luogo opportuni, a condizione che, adesso, siamo consapevoli di questo momento e di questo luogo.

Dunque stiamo portando l’attenzione sull’ordinarietà della nostra condizione umana; il corpo che respira, camminare da un punto all’altro sul sentiero del jongrom, le sensazioni di piacere e dolore. Nel corso del ritiro prendiamo in esame assolutamente tutto, lo osserviamo e lo conosciamo per quello che è. Questa è la nostra pratica di vipassana: conoscere le cose così come sono, non in base a una teoria o un assunto creati da noi.

Ascoltare i pensieri.

Praticando l’apertura mentale – ossia “lasciando andare” – portiamo l’attenzione sul semplice fatto del guardare, dell’ essere il testimone silenzioso, che è consapevole di quello che viene e va. In questo tipo di meditazione, che si definisce vipassana, osserviamo i fenomeni fisici e mentali alla luce delle tre caratteristiche: anicca (cambiamento), dukkha (carattere insoddisfacente), anattà (impersonalità). Così facendo, liberiamo la mente dalla tendenza a reprimere ciecamente; dunque, se ci troviamo ossessionati da pensieri banali o paure, sentimenti di preoccupazione o di rabbia, non è necessario analizzarli. Non dobbiamo capire perché li abbiamo, ma solo farli emergere pienamente alla coscienza.

Se siete molto spaventati, siate spaventati consciamente. Non ritraetevi, ma notate la tendenza a volervi sbarazzare della paura. Fate emergere l’oggetto della vostra paura, pensateci deliberatamente e ascoltate i vostri pensieri. Non si tratta di analizzarli, ma di portare agli estremi la paura, al punto in cui diventa così assurda da poterne ridere. Ascoltate il desiderio, la furia del “voglio questo, voglio quello, devo averlo, cosa farò se non riesco ad averlo, lo voglio assolutamente … “. A volte nella mente c’è solo un grido inarticolato: “voglio!” – ed è possibile ascoltarlo.

Ho letto qualcosa sulle tecniche del confronto terapeutico, sapete, quelle situazioni in cui ci si gridano in faccia a vicenda tutti i sentimenti repressi; l’effetto vorrebbe essere catartico, ma manca la saggia riflessione. Manca la capacità di ascoltare quel grido come una condizione della mente, invece di “lasciarsi andare” a dire tutto quello che passa per la testa. Manca l’equilibrio mentale, la disponibilità a tollerare anche i pensieri più orribili. Così facendo, non li consideriamo come problemi personali, ma, piuttosto, portiamo all’assurdo la rabbia e la paura, al punto in cui vengono viste come una naturale catena di pensieri. Ci mettiamo a pensare delìberatamente a tutto quello a cui abbiamo paura di pensare, non ciecamente, ma osservando e ascoltando quei pensieri, in quanto condizioni della mente, piuttosto che come difetti o problemi personali.

Sicché, con questa pratica cominciamo a lasciar andare. Non c’è bisogno di andare a cercare qualcosa in particolare; ma, se vi sentite infastiditi da contenuti che tendono a riemergere ossessivamente e che cercate di allontanare, fateli venire a galla ancora di più. Pensateci deliberatamente e restate in ascolto, come ascoltereste qualcuno che parla dall’altro lato del cortile, una vecchia pescivendola pettegola: “Abbiamo fatto questo e poi quest’altro e abbiamo fatto questo e poi quest’altro … ” quella vecchietta che non la finisce più di chiacchierare! Ora esercitatevi ad ascoltarla come una voce e basta, invece di giudicarla, invece di dire: “No no, spero proprio di non essere io, che non sia la mia vera natura”, o cercare di tapparle la bocca: “Ma quando la finisci vecchia strega!”.

Facciamo tutti quanti un po’ così, anche io ho questa tendenza. Ma è solo una condizione della natura, vi pare? Non una persona. Sicché, questa abitudine fastidiosa dentro di noi: “Mi ammazzo di lavoro e mai nessuno che mi dica grazie” – è una condizione, non una persona. A volte, quando siete di malumore, nessuno fa le cose come si deve e, anche se lo fa, non va bene lo stesso! Anche questa è una condizione della mente, non una persona. Il malumore, l’irritabilità della mente, viene riconosciuto come una condizione: anicca, è impermanente; dukkha, è insoddisfacente; anattà, è impersonale.

C’è la paura di quello che penseranno gli altri se arrivate tardi: avete dormito troppo, entrate nella stanza e cominciate a preoccuparvi di quello che pensano gli altri del vostro ritardo: “Penseranno che sono pigro”. Preoccuparsi del giudizio degli altri è una condizione della mente. Oppure, siamo sempre puntuali e qualcun altro arriva in ritardo: “Sempre in ritardo, mai una volta che arrivino puntuali”. Anche questa è una condizione della mente.

Allora faccio emergere il tutto alla piena coscienza, queste cose banali, che si possono benissimo trascurare perché tanto sono banali e non abbiamo voglia di avere a che fare con le banalità della vita; ma quando non vogliamo averci a che fare, tutto questo viene represso e diventa un problema. Cominciamo a sentirci in ansia, ostili a noi stessi o agli altri, o subentra la depressione; tutti effetti del nostro rifiuto di lasciare che le condizioni, banali o orribili che siano, emergano alla coscienza.

Poi c’è lo stato mentale del dubbio, la perenne incertezza sul da farsi: c’è timore e dubbio, insicurezza ed esitazione. Fate emergere deliberatamente quello stato di perenne incertezza, solo per imparare a rilassarvi con lo stato in cui si trova la mente quando non è attaccata a nulla in particolare. “Che devo fare? Restare o andarmene? Dovrei fare questo oppure quest’altro, devo praticare ànapiinasati oppure la vipassana?” Osservatelo. Ponetevi domande senza risposta, tipo “Chi sono?”. Notate lo spazio vuoto che precede il pensiero “chi” – restate vigili, chiudete gli occhi e un attimo prima di pensare “chi” osservate: la mente è vuota, vero? Poi: “Chi-sono-io?”, seguito dallo spazio dopo il punto interrogativo. Quel pensiero nasce dal vuoto e torna al vuoto, no? Quando siete presi dal pensiero abituale non potete scorgere l’origine del pensiero, vero?

Non potete, potete cogliere il pensiero solo dopo esservi accorti di stare pensando; quindi cominciate a pensare deliberatamente e cogliete il principio di un pensiero, prima di cominciare a pensarlo effettivamente. Prendete un pensiero deliberato, tipo:

“Chi è il Buddha?”. Pensatelo deliberatamente, in modo da percepire l’inizio, il formarsi del pensiero e poi la fine e lo spazio che lo circonda. Si tratta di osservare pensieri e concetti in prospettiva, invece di limitarsi a reagire alla loro presenza.

Mettiamo che siate arrabbiati con qualcuno. “Ecco che ha detto, ha detto questo e quest’altro e ha fatto così e cosà e non ha fatto bene, ha sbagliato tutto, è un vero egoista … ricordo ancora quello che ha fatto al tal dei tali, e poi … “. Un pensiero tira l’altro, vero? E vi ritrovate coinvolti in questa catena di pensieri motivata dall’avversione. Perciò, invece di farvi coinvolgere in tutta una serie di associazioni e concetti, pensate deliberatamente: “È la persona più egoista che abbia mai conosciuto”. Poi fine, il vuoto. “È un bastardo, un disgraziato, ha fatto questo e quest’altro”; a quel punto è veramente comico, vi pare?

Appena arrivato al Wat Pah Pong [il monastero tailandese dove insegnava Ajahn Chah, N.d.T] sperimentavo fortissimi sentimenti di rabbia e di avversione. Mi sentivo terribilmente frustrato, a volte perché non capivo cosa succedeva intorno a me e non volevo uniformarmi tanto quanto mi veniva richiesto. Ero letteralmente furente. Ajahn Chah tirava avanti imperterrito – discorsi di due ore filate in laotiano – e le ginocchia mi facevano male da morire. Sicchè pensavo cose come: “Perché non la finisci di parlare? Pensavo che il Dhamma fosse semplice, perché deve metterei due ore per spiegare un concetto?”.

Ero ipercritico nei confronti di tutti, ma poi cominciai a contemplare questo e ad ascoltarmi, la mia rabbia, le mie critiche, le mie cattiverie, il mio risentimento: “questo non mi va, quell’altro non mi va, non capisco perché devo sedermi qui, non voglio occuparmi di sciocchezze del genere, non so proprio” …. e così via, all’infinito. Mi ripetevo: “Ti pare simpatico uno che dice cose del genere? È questo che hai deciso di essere, questa cosa che sta sempre a lamentarsi, a criticare e trovare difetti, è così che vuoi essere?”. “No – mi rispondevo – non voglio essere così”.

Ma prima ho dovuto far venire a galla tutto per vederlo davvero, piuttosto che crederci in teoria. Sentivo di aver ragione da vendere e quando uno sente di avere ragione e si indigna e pensa che gli altri abbiano torto, è portato a dare credito a pensieri come: “In fin dei conti non vedo che motivo ci sia … il Buddha ha detto … il Buddha, lui, non lo avrebbe mai permesso, io lo conosco il Buddhismo!”.

Fatelo emergere in forma cosciente, dove potete vederlo, portarlo all’assurdo, così potrete guardarlo in prospettiva e alla fine vi sembrerà comico. Capite che è tutta una commedia!

Ci prendiamo terribilmente sul serio: “Sono una persona veramente importante, la mia vita è così tremendamente importante che devo prenderla estremamente sul serio, sempre e comunque. I miei problemi sono veramente importanti, terribilmente importanti. Devo dedicare un sacco di tempo ai miei problemi perché sono davvero importanti”. In un modo o nell’altro ci riteniamo importantissimi, perciò pensatelo deliberatamente: “Sono una Persona Molto Importante, i miei problemi sono molto importanti e seri”.

Quando fate così, il tutto prende un aspetto comico; appare sciocco, perché vi rendete conto che, in definitiva, non siete terribilmente importanti, nessuno di noi lo è. E i problemi che ci creiamo nella vita sono banalità. C’è gente che si rovina l’esistenza generando problemi a non finire e prendendo tutto estremamente sul serio.

Se vi ritenete persone importanti e serie, le cose banali o futili vi sembreranno inaccettabili. Se aspirate a essere buoni, a essere santi, sarete portati a escludere dalla coscienza gli stati mentali negativi. Se desiderate essere persone amorevoli e generose, ogni forma di meschinità, di invidia o di avarizia dovrete reprimerla o estrometterla dalla vostra mente.

Sicché, se c’è qualcosa che temete sopra ogni altra di poter diventare nella vostra vita, pensatela, guardatela. Confessatelo apertamente: “Voglio essere un tiranno; voglio essere uno spacciatore di eroina; voglio essere un mafioso”; sia quel che sia. Non ci interessa più il contenuto specifico, ma la semplice caratteristica di essere una condizione impermanente, insoddisfacente, perché non ha nulla che potrà darvi una reale soddisfazione. Viene e va, ed è “non-io”.

Ajahn Sumedho

Dono gratuito e privo di copyright del Monastero buddhista theravada Santacittarama – Frasso Sabino, Rieti.

Fonte: https://www.amadeux.it/forum/topic.asp?TOPIC_ID=21814

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