Ajahn Viradhammo: Sulle Quattro Nobili Verità.

E allora?

Il seguente insegnamento sulle ‘Quattro Nobili Verità’ è tratto da un discorso tenuto da Ajahn Viradhammo, Buddhismo Theravada, durante un ritiro di dieci giorni condotto a Bangkok per Tailandesi laici nel giugno del 1988.

Questa sera prenderemo in considerazione la leggenda della vita del Signore Buddha. Possiamo considerare questa storia come una storia vera. O invece considerarla come un mito, una storia che rispecchia il nostro sviluppo come esseri che cercano la verità.

Nella storia, si racconta che prima della sua illuminazione, il Bodhisatta (il futuro Buddha) viveva in una famiglia reale che aveva molto potere e grande influenza. Era una persona molto dotata e aveva tutto quello che un essere umano può desiderare: salute, intelligenza, fascino, un bell’ aspetto, amicizia, rispetto, e molti talenti. Viveva una vita principesca di lusso e agi.

La leggenda dice che, alla nascita del Bodhisatta, il re suo padre ricevette dai saggi una predizione. Essi dissero che vi erano due possibilità: o suo figlio sarebbe diventato un monarca universale o un Buddha perfettamente illuminato.

Naturalmente, il padre voleva che il figlio continuasse il suo stesso ruolo di monarca, non voleva che diventasse un rinunciante. Così, ognuno nel palazzo cercava di proteggere il principe. Chiunque invecchiasse o si ammalasse veniva portato via, nessuno voleva che il principe vedesse qualcosa di spiacevole che avrebbe potuto spingerlo ad andarsene.

Ma, all’età di ventinove anni, lo assalì la curiosità. Il principe voleva scoprire com’era il mondo di fuori. Così uscì col suo cocchiere e cosa vide? Il primo che vide era un ammalato, coperto di piaghe, dolorante e sdraiato sul suo stesso sudiciume. Una condizione umana di totale sciagura.

“Di cosa si tratta?” chiese il principe al suo attendente. L’attendente rispose: “E’ una persona ammalata.” Dopo averne discusso, il principe comprese, per la prima volta, che il corpo umano soffre e si ammala. L’attendente gli spiegò che era una potenzialità di tutti i corpi. Fu un grande shock per il principe.

Il giorno dopo uscì di nuovo. Questa volta, vide un vecchio: piegato dagli anni, tremante, raggrinzito, col capo grigio, appena capace di mantenersi in piedi. Di nuovo shoccato da quanto vedeva, il principe chiese: “Di cosa si tratta?” “E’ un vecchio, – rispose l’attendente – tutti diventiamo vecchi.” Così, il principe comprese che anche il suo corpo aveva la potenzialità di invecchiare. E ritornò al palazzo disorientato.

La terza volta uscì e vide un morto. I cittadini erano per lo più indaffarati, salutavano contenti il loro affascinante principe, pensando che si stesse divertendo. Ma dietro la folla, c’erano delle persone che trasportavano una barella con un cadavere, diretti alla pira funeraria. Fu un’esperienza molto forte per lui: “Di cosa si tratta?” chiese. L’attendente rispose: “E’ un cadavere. Tutti i corpi lo diventano, il tuo, il mio, tutti muoiono.” Rimase profondamente shoccato.

Quando il Bodhisatta uscì di nuovo, vide un monaco mendicante, seduto a meditare sotto un albero. “E lui chi è?” chiese. L’attendente rispose: “E’ un sadhu, uno che cerca le risposte alla vita e alla morte.”

C’è dunque questa leggenda. Cosa significa per voi e per me? E’ solo un racconto storico, da narrare ai nostri figli, una storia su una persona che, fino a ventinove anni, non aveva mai visto la vecchiaia, la malattia, la morte?

Per me, questa storia rappresenta il risveglio di una mente umana alle limitazioni dell’esperienza sensoriale. Mi posso personalmente ritrovare in questa storia, se ripenso al periodo dell’università. Interrogavo spesso la vita: “Cosa significa tutto questo? Qual è lo scopo?” Mi facevo spesso domande sulla morte e pensavo: “Che senso ha prendere la laurea? Anche se divento un famoso ingegnere, o divento ricco, morirò comunque. Se divento il miglior politico, o il miglior avvocato o il miglior qualsiasi cosa… Anche se diventassi la più famosa rock star mai esistita.. sai che roba!” Penso che proprio a quei tempi Jimi Hendrix fosse morto per un’overdose di eroina.

Non riuscivo a trovare niente che rispondesse al problema della morte. Spuntava sempre: “E allora? E se anche avessi una famiglia? E se anche diventassi famoso? O non famoso? Se anche facessi un sacco di soldi? Se non li facessi?” Nessuna di queste cose risolveva il dubbio: “E la morte? Cos’è? Perché sono qui? Perché cerco ogni sorta di esperienze che comunque finiscono con la morte?”

Continuare a interrogarmi in questo modo, mi rendeva impossibile studiare. Così, cominciai a viaggiare. Riuscii a distrarre la mente per un po’, perché viaggiare era interessante: Marocco, Turchia, India … Ma arrivavo sempre alla stessa conclusione: “E allora? Se vedo un altro tempio, un’altra moschea, se mangio un altro tipo di cibo, e allora?”

Questo genere di dubbio sorge, talvolta, nelle persone a cui muore qualcuno che conoscono, o se si ammalano o invecchiano. Può nascere anche da un’intuizione religiosa. Qualcosa nella mente fa clic, e ci risvegliamo al fatto che non importa quali esperienze facciamo, tutte cambiano, tutte terminano, tutte muoiono. Anche se sono la persona più famosa, più potente, più ricca, più influente del mondo, tutto questo è destinato a morire. E’ destinato a finire. Dunque la domanda: “E allora?” è un risveglio della mente.

Se siamo venuti a questo ritiro di dieci giorni con l’idea di fare ‘un’esperienza di meditazione’ e allora? Dobbiamo comunque tornare a lavorare, comunque affrontare il mondo, tornare a Melbourne, tornare in Nuova Zelanda… E allora! Qual è la differenza tra un’esperienza di meditazione e fare una crociera sulla Queen Elizabeth II? Forse che costa molto meno!

Lo scopo dell’insegnamento buddhista non è quello di provare un altro tipo di esperienza. Riguarda la comprensione della natura dell’esperienza stessa. Il suo scopo è di osservare cosa significhi essere un essere umano. Contempliamo la vita, lasciamo andare l’illusione, lasciamo andare la fonte della sofferenza umana e realizziamo la verità, realizziamo il Dhamma. Ed è un processo completamente diverso.

Quando pratichiamo la consapevolezza del respiro, anapanasati, non lo facciamo per ottenere qualcosa dopo. Lo facciamo semplicemente per essere con quel che c’è: essere con un’inspirazione, essere con un’espirazione. E qual è il risultato quando siamo consapevoli in questo modo? Penso che lo notiamo tutti. La mente diventa calma, la nostra attenzione si stabilizza, siamo consapevoli e stiamo con le cose come sono.

Dunque, possiamo già constatare che calmare la mente è un fatto salutare e compassionevole nei nostri confronti. Notate anche come questa pratica crei spazio nella mente. Ora possiamo vedere il potenziale per ‘essere attenti’ alla vita. La nostra attenzione non è catturata. Non siamo rapiti tutto il tempo. Possiamo veramente lavorare con l’attenzione.

Se qualcosa ci ossessiona, la nostra attenzione è assorbita dall’oggetto dell’ossessione. Quando siamo preoccupati, esausti, turbati, eccitati, presi dal desiderio, depressi e così via, l’energia dell’attenzione va perduta. Dunque, calmando la mente, creiamo spazio e ‘liberiamo’ l’attenzione.

E c’è una bellezza in tutto questo. Quando usciremo, dopo questo periodo di meditazione, forse vedremo le cose in modo diverso: il verde degli alberi, i profumi, il suolo su cui camminiamo, i piccoli fiori di loto che sbocciano. Queste esperienze piacevoli ci calmano e ci rilassano e sono molto utili, è come andare in crociera. In Nuova Zelanda, per rilassarsi, si va a camminare in montagna.

Ma questo genere di felicità, o sukha, non è il pieno potenziale del Buddha. Da questo livello di pratica può arrivare molta gioia, ma non basta. La felicità di una mente relativamente calma non è la completa liberà. E’ solo un’altra esperienza. E’ ancora catturata nel senso di: “E allora!”.

La completa libertà del Buddha viene dal lavoro di investigazione, dhammavicaya. E’ mettere completamente fine a ogni conflitto e tensione. Non importa dove siamo nella vita, non ci sono più problemi. E’ chiamata ‘l’incrollabile liberazione del cuore’, la completa libertà all’interno di qualsiasi esperienza.

Una delle cose più meravigliose di questa Via è che può essere applicata in tutte le situazioni. Non dobbiamo essere in un monastero, né sentirci felici, per contemplare il Dhamma. Possiamo contemplare il dhamma all’interno dell’infelicità.

Spesso noi notiamo che le persone cominciano a venire al monastero quando soffrono. Quando sono felici e hanno successo probabilmente non accade. Ma se il loro partner se ne va, o perdono il lavoro, o hanno il cancro, allora si chiedono: “Cosa faccio ora?”.

Dunque, per molti di noi l’insegnamento del Buddha comincia con l’esperienza della sofferenza, dukkha. E’ questo che cominciamo a contemplare. Più tardi vediamo che è necessario contemplare anche la felicità, sukha. Ma non si inizia andando dall’Ajahn a dirgli: “Oh, venerabile Signore, sono così felice! Aiutami a uscire dalla felicità.”

Di solito iniziamo quando la vita dice: “Questo fa male.” Magari è solo noia; per me era la contemplazione della morte, questo: “E allora?”. Forse è alienazione all’opera. In occidente abbiamo la cosiddetta ‘crisi della mezza età’. Gli uomini attorno ai quaranta, cinquanta cominciano a pensare: “Ho ottenuto tutto, – oppure – non ho ottenuto nulla: e allora?”. “Sai che roba!”

Qualcosa si risveglia e cominciamo a interrogare la vita. E, siccome tutti sperimentiamo dukkha, nei suoi aspetti più grossolani e più sottili, è bello che l’Insegnamento cominci da qui; il Buddha dice: “C’è la sofferenza.” Nessuno lo può negare. E’ su questo che si basa l’insegnamento buddhista, osservare le esperienze che abbiamo, osservare la vita.

Il modo mondano di affrontare dukkha è cercare di liberarsene. Spesso usiamo la nostra intelligenza per cercare di aumentare al massimo sukha e di ridurre al minimo dukkha. Cerchiamo sempre di escogitare il modo per rendere le cose più convenienti. Ricordo a questo proposito un discorso di Luang Por:

Al monastero c’era l’abitudine di ritrovarci tutti a prendere l’acqua dal pozzo. C’erano due barattoli d’acqua su un lungo bastone di bambù e un bikkhu a entrambe le estremità per sorreggerli. Ajahn Chah disse: “Perché portate sempre l’acqua insieme al monaco che vi piace? Dovreste farlo insieme a chi non vi piace!” Era vero. Ero un novizio molto svelto e cercavo sempre di evitare di portare l’acqua con di fronte un bikkhu vecchio e lento. Mi faceva diventare matto. Talvolta restavo bloccato dietro uno di loro e lo spingevo…

Dunque dover portare l’acqua con un monaco che non mi piaceva era dukkha. E, come diceva Ajahn Chah, cercavo sempre di trovare il modo per fare andare le cose come volevo io. E’ questo usare l’intelligenza per cercare di aumentare al massimo sukha e ridurre al minimo dukkha.

Ma certo, anche se otteniamo quello che vogliamo, sperimentiamo lo stesso dukkha, perché il piacere della gratificazione non è permanente, è anicca. Immaginate di mangiare qualcosa di veramente delizioso: all’inizio è gradevole, ma, se doveste mangiarlo per quattro ore, sarebbe spaventoso.

Cosa facciamo con dukkha? L’insegnamento buddhista dice: “Usa l’intelligenza per esaminare realmente la sofferenza”. Ecco perché creiamo la situazione di un ritiro con gli otto precetti. Cerchiamo di osservare dukkha, anziché cercare di aumentare al massimo sukha.

La pratica monastica è basata anche su questo: siamo intrappolati nelle tuniche, ma abbiamo un’incredibile libertà per osservare la sofferenza, anziché, per ignoranza, cercare di liberarcene.

In occidente può essere molto difficile indossare queste tuniche. Non è come indossare una tunica in Tailandia. Quando mi spostai a Londra, all’inizio, mi sentivo totalmente fuori luogo. Come laico, mi vestivo in modo da non essere notato, ma ora eravamo tutto il tempo in prima linea.

Era questo, per me, dukkha: mi sentivo molto impacciato. Le persone mi guardavano di continuo. Se avessi avuto la libertà di aumentare al massimo sukha e di ridurre al minimo dukkha, mi sarei infilato un paio di jeans, una maglietta marrone, mi sarei fatto crescere la barba e sarei stato uno della folla. Ma non potevo farlo, perché avevo i precetti di rinuncia. Rinuncia è smettere con la tendenza a cercar sempre di accrescere al massimo il piacere. Ho imparato moltissimo da quella situazione.

Abbiamo tutti delle responsabilità: famiglia, lavoro, carriera e via dicendo. E queste sono limitazioni, non è vero? Come le affrontiamo? Anziché risentircene e dire: “Oh, se solo fosse diverso, sarei felice!” possiamo riflettere: “Questa è un’occasione per comprendere.” Diciamo: “Questo è il modo in cui stanno le cose ora. C’è sofferenza.”

Andiamo verso quella sofferenza, la rendiamo conscia, la portiamo nella mente. Non dobbiamo creare artificialmente dukkha; c’è già abbastanza sofferenza nel mondo. Ma l’incoraggiamento degli insegnamenti è di sentire la sofferenza che ci capita nella vita.

Forse, durante questo ritiro, in una seduta, vi ritrovate annoiati e irrequieti e non vedete l’ora che la campana suoni. Ora potete semplicemente notarlo. Se non avessimo questa struttura, semplicemente evitereste la situazione.

Ma cosa succede se evito l’irrequietezza? Posso pensare di essermene liberato, ma è vero? Mi metto a guardare la televisione o leggo qualcosa, alimentando l’irrequietezza. E poi, scopro che la mia mente non ha pace, è piena di attività. Perché? Perché ho seguito sukha e ho cercato di liberarmi di dukkha. E’ questa la costante, dolorosa, irrequietezza della nostra vita. E’ così insoddisfacente, così priva di pace, non è il Nibbana.

La prima nobile verità dell’insegnamento buddhista non dice: “Fai questa esperienza.” Dice di osservare l’esperienza di dukkha. Non ci viene richiesto di credere semplicemente al buddhismo come a un insegnamento, ma di osservare dukkha senza giudicare. Non sto dicendo che non dovremmo avere dukkha, né si tratta semplicemente di pensarci. Si tratta realmente di sentirlo, di osservarlo. Di portarlo alla mente. Dunque, c’è dukkha. L’insegnamento prosegue constatando che dukkha ha una causa e ha anche una fine.

Molti occidentali pensano che il buddhismo sia un insegnamento molto negativo, perché parla della sofferenza. Quando ebbi per la prima volta l’ispirazione a diventare un monaco buddhista, mi trovavo in India. Poi mio nonno morì e tornai in Germania per il funerale. Cercai di parlare con mia madre dell’ordinazione. Ma quando menzionai la sofferenza, divenne molto agitata, lo prese in modo personale. Non capì di cosa stavo parlando: è semplicemente quello che tutti gli esseri umani attraversano.

Il Buddha non parlava solo della sofferenza. Parlava anche della causa di dukkha, della fine di dukkha e del sentiero che conduce alla fine. L’insegnamento riguarda l’illumiazione, il Nibbana. Ed è questo che l’immagine del Buddha rappresenta. Non è un’immagine del Buddha sofferente. Rappresenta la sua illuminazione, la libertà.

Ma, per illuminarci, dobbiamo prendere quel che abbiamo anziché cercare di ottenere quel che vogliamo. Nella visione mondana, di solito, cerchiamo di ottenere quel che vogliamo. Tutti noi vogliamo il Nibbana, anche se non sappiamo cos’è.

Quando abbiamo fame, apriamo il frigo e prendiamo qualcosa o andiamo al supermercato e compriamo qualcosa. Prendere, prendere, sempre prendere qualcosa… ma se cerchiamo di illuminarci in questo modo, non funziona.

Se potessimo ottenere l’illuminazione nello stesso modo in cui facciamo soldi, o compriamo una macchina, sarebbe piuttosto facile. Ma è più sottile. Occorre intelligenza, panna. Occorre investigazione, dhammavicaya.

Dunque, usiamo l’intelligenza non per aumentare al massimo sukha e ridurre al minimo dukkha, ma per osservare dukkha. Usiamo l’intelligenza per considerare attentamente le cose. “Perché soffro?”

Notate dunque che non accantoniamo il pensiero; il pensiero è una facoltà molto importante. Ma se non riusciamo a pensare con chiarezza, allora è impossibile usare gli insegnamenti buddhisti. Ma non è necessario un dottorato in buddhismo.

Una volta, mentre mi trovavo in Inghilterra, andammo a far visita a un uomo a Lancaster. Aveva appena finito una tesi di dottorato su sunyata, diecimila parole sulla vacuità. Voleva farci una tazza di caffè. Mise dunque il caffè nelle tazze, con zucchero e latte e ce le offrì, dimenticandosi di metterci l’acqua. Era riuscito a fare un dottorato sulla vacuità, ma gli era difficile preparare con consapevolezza una tazza di caffè. L’intelligenza, nel buddhismo, non è un accumulo di concetti. E’ più radicata. E’ radicata nell’esperienza.

L’intelligenza è la capacità di osservare la vita e di porre le giuste domande. Usiamo il pensiero per dirigere la mente nel modo giusto. Osserviamo e apriamo la mente alla situazione. Ed è in questa apertura, con le giuste domande, che consiste la pratica di vipassana: la comprensione intuitiva di come siamo.

La mente prende i concetti dell’insegnamento e canalizza l’intelligenza verso l’esperienza umana. Ci apriamo, siamo attenti e comprendiamo il modo in cui le cose sono. L’investigazione delle Quattro Nobili Verità è l’applicazione classica dell’intelligenza, nel buddhismo Theravada.

Il semplice osservare dukkha non è cercare una nuova esperienza. E’ accettare la responsabilità per il nostro dukkha, il nostro conflitto interiore. Sentiamo il conflitto interiore: “Io soffro.” e chiediamo: “Qual è la causa?”.

L’insegnamento dice che dukkha ha un inizio e ha una fine, non è permanente. Immaginate che io mi senta a disagio durante la seduta e che mi rivolga a questo dukkha e chieda: “Qual è la causa di questa sofferenza?” “E’ perché il corpo è scomodo.” è la risposta. Allora, decido di muovermi. Ma, dopo cinque minuti, il corpo è di nuovo scomodo. Questa volta osservo la sensazione un po’ più intimamente. E noto qualcosa di più: “Non voglio disagi, voglio sensazioni piacevoli.” Ah, dunque non è la sensazione spiacevole il problema, ma il non volere la sensazione dolorosa. Questo è un insight molto utile. E’ più profondo. Scopro che ora posso essere in pace con la sensazione dolorosa, senza dovermi muovere. Non divento irrequieto e la mente diventa molto calma.

Dunque, ho capito che la causa del problema non è la sensazione dolorosa, ma è il ‘non volere’ quella particolare sensazione. Il ‘volere’ è una grossa trappola. Si presenta in molte forme. Ma possiamo applicare sempre la stessa investigazione: “Cosa voglio adesso?”

La Seconda Nobile Verità, samudaya, dice che la causa della sofferenza è l’attaccamento al volere, tanha. Ci fa credere che, se otteniamo quello che vogliamo, saremo soddisfatti. “Se ho questo” o “Se divento quello” o “Se mi libero di questo e non ho quello”… E questo è il samsara che gira in tondo.

Desiderio e paura e gli esseri vengono di continuo spinti nel divenire: cercando sempre la rinascita, conducendo perpetuamente vite indaffarate. Ma il Buddha dice che c’è anche una via d’uscita. C’è una fine alla sofferenza.

La fine della sofferenza è detta nirodha, cessazione, o Nibbana. La prima volta che ho letto qualcosa sul Nibbana, ho capito che significava non avidità, non odio e non confusione. Così, ho pensato che se solo riuscivo a liberarmi di ogni avidità, odio e confusione, allora quello sarebbe stato il Nibbana, sembrava quello il modo. Provai e non funzionò. Aumentò la confusione.

Ma, continuando a praticare, scoprii che la ‘cessazione della sofferenza’ significa la fine di queste cose al loro giusto tempo, esse hanno la loro energia. Non potevo dire a me stesso: “O.K., da domani non sarò più avido o spaventato.” E’ un’idea ridicola.

Quel che dobbiamo fare è ‘contenere’ queste energie’, finché non muoiono, finché non finiscono. Se provassi rabbia e agissi a partire da essa, potrei dare un calcio negli stinchi a qualcuno. Allora, l’altro mi ridarebbe il calcio e ne nascerebbe una rissa. O potrei tornare nella mia capanna a meditare e odiare me stesso. E andrebbe avanti all’infinito, perché sarebbe comunque una reazione. Se seguo la rabbia o cerco di liberarmene, essa non finisce. Il fuoco non si spegne.

L’insegnamento delle Quattro Nobili Verità dice: abbiamo la sofferenza, dukkha, c’è una causa, samudaya, c’è una fine, nirodha e un sentiero che conduce alla fine, magga. E’ un insegnamento molto pratico. In qualsiasi situazione di conflitto interiore possiamo prenderci la responsabilità di quanto sentiamo: “Perché sto soffrendo? Cosa voglio in questo momento?”. Possiamo investigare, usando dhammavicaya.

E’ importante applicare concretamente questi insegnamenti. Luang Por diceva spesso: “Talvolta le persone che sono molto vicine al buddhismo assomigliano a formiche che brulicano all’esterno di un mango e non ne gustano mai il succo.” Talvolta ascoltiamo la struttura degli insegnamenti e pensiamo di comprendere: “E’ solo un modo per osservare la vita.” Ma gli insegnamenti non sono solo una struttura intellettuale. Dicono che l’esperienza stessa ha una struttura che va compresa.

Dunque, non usiamo l’intelligenza semplicemente per aumentare al massimo sukha e ridurre al minimo dukkha. La usiamo per liberare la mente, per andare al di là, per realizzare l’inscalfibile liberazione del cuore, per realizzare il Nibbana.

Usiamo l’intelligenza per la libertà, non per frivolezza, per liberare la mente, non solo per essere felici. Andiamo al di là di felicità e infelicità. Non cerchiamo di fare un’altra esperienza, è un atteggiamento completamente diverso.

© Ass. Santacittarama, 2003. Tutti i diritti sono riservati. Soltanto per distribuzione gratuita.
Traduzione di Chandravimala Candiani.

Fonte: https://www.meditare.net/wp/buddhismo/e-allora-di-ajahn-viradhammo/

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