Alan Watts: Essere consapevoli.

Terra x Blog + Nero 2015

Essere consapevoli.

La domanda: “Cosa dobbiamo fare in proposito?”, è posta solo da chi non capisce il problema. Se un problema può essere risolto, capirlo e sapere che cosa fare in proposito sono la stessa cosa. Per contro, fare qualcosa circa un problema che non si capisce è come cercare di spazzar via l’oscurità allontanandola con le mani. Quando facciamo luce, l’oscurità svanisce di colpo.

Ciò vale in particolar modo per il problema che ora ci sta di fronte. Come sanare la frattura tra l’Io e il me, la mente e il corpo, l’uomo e la natura, e far cessare tutti i circoli viziosi che essa determina? In che modo sperimentare la vita come qualcosa di diverso dalla trappola di miele nella quale ci dibattiamo come mosche? Come trovare sicurezza e tranquillità di mente in un mondo la cui vera natura è l’insicurezza, l’impermanenza, il mutamento incessante? Tutte queste domande esigono un metodo e una linea d’azione. Al tempo stesso ci dimostrano che il problema non è stato capito. Non abbiamo bisogno dell’azione, non ancora. Abbiamo bisogno di più luce.

Luce qui significa consapevolezza: essere consapevoli della vita, dell’esperienza com’è in questo momento, senza alcun giudizio o idea su di essa. In altre parole, dobbiamo vedere e sentire ciò che stiamo sperimentando così com’è, non come lo si definisce. Questo semplicissimo “aprire gli occhi” provoca la più straordinaria trasformazione della comprensione e della vita, e ci mostra come molti dei nostri problemi più sconcertanti siano pure illusioni. Questa può sembrare un’eccessiva semplificazione, perché la maggior parte della gente pensa di avere già una consapevolezza abbastanza piena del presente, ma vedremo che le cose non stanno affatto così.

Siccome la consapevolezza è una visione della realtà libera da idee e giudizi, è chiaramente impossibile definire e mettere per iscritto che cosa essa rivela. Tutto ciò che può essere descritto è un’idea e non posso affermare nulla di certo in merito a qualcosa, il mondo reale che non è un’idea. Devo quindi limitarmi a parlare delle false impressioni che la consapevolezza rimuove, piuttosto che della verità che essa rivela. Quest’ultima può essere soltanto simboleggiata con parole che significano poco o nulla per quanti non abbiano una comprensione diretta della verità in questione.

Ciò che è vero e certo è troppo reale e troppo vivo per essere descritto: cercare di farlo è come pitturare di rosso una rosa rossa. Perciò quanto segue avrà necessariamente, per la maggior parte, una qualità piuttosto negativa. La verità è rivelata rimovendo ciò che le fa ombra: arte non dissimile dalla scultura, in cui l’artista crea non costruendo ma togliendo a colpi di scalpello.

Abbiamo visto come le domande sul perseguimento della sicurezza e della pace in un mondo impermanente dimostrino che il problema non è stato capito. Prima di procedere oltre dev’essere chiaro che la sicurezza di cui stiamo parlando è in primo luogo spirituale e psicologica. Per esistere gli esseri umani devono avere un minimo di mezzi di sussistenza in termini di cibo, bevande e vestiario – nell’intesa, tuttavia, che tali mezzi non possono durare indefinitamente. Ma se la certezza di avere questo minimo vitale per una sessantina d’anni cominciasse a soddisfare il cuore dell’uomo, i problemi umani sarebbero ben poca cosa. In realtà il vero motivo per cui questa certezza ci manca è il fatto che vogliamo assai più del minimo necessario.

Dev’essere chiaro fin dall’inizio che c’è una contraddizione nel voler essere perfettamente sicuri in un universo la cui vera natura è transitorietà e fluidità. Ma è una contraddizione leggermente più profonda che il semplice conflitto fra il desiderio di sicurezza e il fatto del mutamento. Se voglio essere sicuro, cioè protetto contro il fluire della vita, voglio essere separato dalla vita. Eppure è proprio questo senso di separatezza che mi fa sentire insicuro. Essere sicuro significa isolare e rafforzare l’Io, ma è proprio l’impressione d’essere un “Io” isolato a farmi sentire solo e impaurito. In altre parole, più sicurezza potrò avere, più ne vorrò.

Più semplicemente: il desiderio di sicurezza e il senso di insicurezza sono la stessa cosa. Trattenere il respiro è perderlo. Una società che si fondi sul perseguimento della sicurezza non è altro che una gara a chi trattiene di più il fiato, in cui ognuno è teso come un tamburo e paonazzo come una barbabietola.

Perseguiamo questa sicurezza rafforzandoci e racchiudendoci in noi in moltissimi modi. Vogliamo la protezione che ci viene dall’essere “esclusivi e “speciali”, cercando di appartenere alla chiesa più sicura, alla nazione migliore, alla classe più alta, all’ambiente giusto, alla gente “per bene”. Queste difese provocano tra noi delle divisioni e quindi più insicurezza che esige più difese. Naturalmente facciamo tutto nella sincera convinzione d’essere nel giusto e di vivere nel modo migliore; ma anche questo è una contraddizione.

Posso solo fare qualche serio tentativo di vivere secondo un ideale, di migliorarmi, se sono scisso in due. Ci dev’essere un Io buono che cerca di rendere migliore il “me” cattivo. L’Io, che ha le migliori intenzioni, cercherà di lavorarsi l’indocile ‘me’ e il contrasto fra i due ne metterà in rilievo il divario. Di conseguenza l’Io si sentirà più separato che mai, e non farà che acuire i sentimenti di solitudine e isolamento che determinano il cattivo comportamento del ‘me’.

Difficilmente riusciamo a prendere in considerazione questo problema se non ci è chiaro che la brama di sicurezza è essa stessa dolore e contraddizione, e che più la perseguiamo più diventa dolorosa. Ed è così per qualsiasi forma di sicurezza si possa concepire.

Vuoi essere felice, dimentico di te stesso, ma più tenti di dimenticarti più ricordi il sé che vuoi dimenticare. Vuoi sottrarti al dolore, ma più lotti per farlo più attizzi il tormento. Hai paura e vuoi essere coraggioso, ma lo sforzo per essere coraggioso è solo paura che tenta di sfuggire a se stessa. Vuoi la tranquillità dello spirito, ma il tentativo di tranquillizzarlo è come cercare di sedare le onde con un ferro da stiro.

Tutti abbiamo dimestichezza con questa specie di circolo vizioso sotto forma di inquietudine. Sappiamo che essere inquieti non serve a niente, ma continuiamo a inquietarci perché dire che non serve a niente non fa cessare l’inquietudine. Siamo inquieti perché ci sentiamo in pericolo e vogliamo essere al sicuro. Ma è perfettamente inutile dire che non dovremmo voler essere al sicuro. Ingiuriando un desiderio non ce ne liberiamo. Quel che dobbiamo scoprire è che non c’è alcuna sicurezza, che cercarla è doloroso e che, quando pensiamo di averla trovata, non ci piace. In altre parole, se riusciremo veramente a capire ciò che stiamo cercando – che la sicurezza è isolamento, e che cosa facciamo a noi stessi quando la cerchiamo – ci accorgeremo di non volerla affatto. Non occorre che ci vengano a dire che non dovremmo trattenere il respiro per dieci minuti. Sappiamo benissimo che non possiamo farlo e che tentare di farlo, è quanto mai scomodo.

La prima cosa da capire è che non c’è scampo né sicurezza. Uno dei peggiori circoli viziosi è il problema dell’alcolista. In moltissimi casi egli sa benissimo che si sta distruggendo, che per lui il liquore è veleno, che odia davvero essere ubriaco e addirittura non può soffrire il gusto del liquore. Eppure beve. Perché, per quanto possa detestare il bere, l’esperienza del non bere è peggiore. Gli provoca le ‘allucinazioni’ perché lo mette di fronte alla fondamentale, non più velata, insicurezza del mondo.

Qui sta il punto cruciale della questione. Essere posto di. fronte all’insicurezza equivale ancora a non capirla. Per capirla non la si deve fronteggiare, si deve essere l’insicurezza. E come la storia persiana del saggio che giunse alla porta del Cielo e bussò. Dall’interno la voce di Dio chiese: “Chi è là?”. Il saggio rispose: “Sono io”. “In questa casa”, replicò la voce, “non c’è posto per te e me”. Il saggio venne via e passò molti anni a riflettere su questa risposta in profonda meditazione. Tornò poi una seconda volta, la voce gli fece la stessa domanda e il saggio rispose di nuovo: “Sono io”. La porta rimase chiusa. Dopo qualche anno tornò per la terza volta e quando bussò la voce gli chiese ancora: “Chi è là?”. Allora il saggio gridò: “Sei tu!”, e la porta gli fu aperta.

Capire che non c’è sicurezza è assai più che essere d’accordo sulla teoria che ogni cosa cambia, assai più, anche, che osservare la transitorietà della vita. La nozione di sicurezza si fonda sul sentimento che in noi ci sia qualcosa di permanente, qualcosa che dura attraverso tutti i giorni e i cambiamenti della vita. Lottiamo per essere sicuri della permanenza, continuità e sicurezza di questo nucleo che persiste, di questo centro e anima del nostro essere che chiamiamo l’Io. Pensiamo infatti che sia esso l’uomo reale: il pensatore dei nostri pensieri, il senziente dei nostri sentimenti, il conoscitore della nostra conoscenza. Non capiamo proprio che non vi sarà alcuna sicurezza finché non ci renderemo conto che questo Io non esiste.

La comprensione giunge attraverso la consapevolezza. Possiamo allora accostarci alla nostra esperienza, sensazioni, sentimenti, pensieri nel modo più semplice, come se prima li avessimo sempre ignorati, ed esaminare senza preconcetti ciò che sta accadendo? Mi si potrà chiedere: “Quali esperienze, sensazioni, sentimenti dobbiamo esaminare?”. Replicherò: “Quali sono quelli che si possono esaminare?”. La risposta è che vanno presi in esame quelli che si hanno ora.

Certo, è piuttosto ovvio. Ma spesso trascuriamo proprio le cose più ovvie. Se un sentimento non è presente, non ne siamo coscienti. Non c’è altra esperienza che l’esperienza presente. Ciò che sappiamo, ciò di cui siamo effettivamente consapevoli, è solo ciò che sta accadendo in questo momento, nient’altro.

Ma i ricordi, allora? Certo, ricordando posso anche conoscere ciò che è passato? Benissimo, ricorda qualcosa. Ricorda l’episodio dell’incontro di un amico per strada. Di che cosa sei consapevole? Non stai effettivamente assistendo al vero avvenimento dell’incontro col tuo amico. Non puoi andargli a stringere la mano o avere la risposta a una domanda che ti eri dimenticato di fargli nel momento passato che stai ricordando. In altre parole, non stai affatto esaminando il vero passato. Stai esaminando la traccia presente del passato.

E come vedere le orme di un uccello sulla sabbia. Vedo le orme che ci sono adesso. Non vedo, contemporaneamente, l’uccello che un’ora fa le ha lasciate. L’uccello è volato via e non lo vedo. Deduco dalle impronte che è stato qui. Dai ricordi deduciamo che vi sono stati degli avvenimenti passati. Ma non abbiamo la consapevolezza immediata di alcun avvenimento passato. Conosciamo il passato solo nel presente e come parte del presente.

Abbiamo visto dunque che la nostra esperienza è assolutamente momentanea. Da un punto di vista ogni istante è così elusivo e breve che non riusciamo neppure a pensarlo prima che sia scomparso. Ma da un altro punto di vista quest’istante è sempre qui, perché non conosciamo altro istante che quello presente. Esso continua a morire, a diventare passato più velocemente di quanto l’immaginazione possa concepire. Ma al tempo stesso continua a nascere, sempre nuovo, emergendo con altrettanta velocità da quell’assoluto ignoto che chiamiamo il futuro. Pensano è qualcosa che lascia quasi senza fiato.

Dire che l’esperienza è momentanea equivale in realtà a dire che l’esperienza e l’istante presente sono la stessa cosa. Dire che quest’istante continua a morire, o a diventare passato, e che continua a nascere, o a venir fuori dall’ignoto, equivale a dire la stessa cosa dell’esperienza. L’esperienza che si è appena avuta è svanita ed è irrecuperabile; tutto ciò che ne rimane non è altro che una specie di scia o impronta nei presente che chiamiamo ricordo. Se possiamo avanzare qualche congettura sulla prossima esperienza che avremo, in realtà non ne sappiamo niente. Potrebbe accadere qualsiasi cosa. Ma l’esperienza in corso ora è, per così dire, un neonato che svanisce ancor prima di cominciare a crescere.

Mentre seguiamo quest’esperienza presente, siamo consapevoli che qualcuno la sta seguendo? Possiamo trovare, oltre all’esperienza in se stessa, uno sperimentatore? Possiamo, contemporaneamente, leggere questa frase e pensare noi stessi in atto di leggerla? Constateremo che, per farlo, dobbiamo smettere di leggere per un istante. La prima esperienza è la lettura. La seconda esperienza è il pensiero: “Sto leggendo”. Possiamo trovare un lettore, il quale stia pensando il pensiero: “Sto leggendo”? In altre parole, quando l’esperienza presente è il pensiero: “Sto leggendo”, è possibile pensare noi stessi in atto di pensare questo pensiero?

Dobbiamo di nuovo smettere di pensare semplicemente: “Sto leggendo”, per passare a una terza esperienza, al pensiero: “Sto pensando di stare leggendo”. La rapidità con cui questi pensieri possono cambiare non deve darci l’errata impressione che li pensiamo subito tutti. Che cosa è avvenuto? Non riuscivamo mai a separarci dal nostro pensiero presente né dalla nostra esperienza presente. La prima esperienza presente era un’esperienza di lettura. Quando cercavamo di pensare noi stessi in atto di leggere, l’esperienza cambiava e l’esperienza presente successiva era il pensiero: “Sto leggendo”.

Non riuscivamo a separarci da quest’esperienza senza passare a un’altra. Era un girotondo. Quando pensavamo: “Sto leggendo questa frase”, non la leggevamo. In altre parole, in ogni esperienza presente eravamo consapevoli soltanto di quella stessa esperienza. Non eravamo consapevoli d’essere consapevoli. Non riuscivamo mai a separare il pensatore dal pensiero, il conoscitore dal conosciuto. Non trovavamo mai nient’altro che un nuovo pensiero, una nuova esperienza.

Essere consapevoli, dunque, è essere consapevoli di pensieri, sentimenti, sensazioni, desideri e di ogni altra forma di esperienza. Non c’è mai un momento in cui siamo consapevoli di qualcosa che non sia esperienza, che non sia un pensiero o un sentimento, ma sia invece uno sperimentatore, pensatore o senziente. Se è così, che cosa ci fa pensare che esista una cosa del genere?

Potremmo dire, per esempio, che l’Io pensante è questo corpo fisico e questa mente. Ma questo corpo non è in alcun modo separato dai suoi pensieri e dalle sue sensazioni. Quando abbiamo una sensazione, per esempio una sensazione tattile, essa è parte del nostro corpo. Quando è in atto non possiamo distoglierne il corpo, non più di quanto possiamo allontanarci dal mal di testa o dai nostri piedi. Sinché è presente, questa sensazione è il nostro corpo, siamo noi. Possiamo togliere il corpo da una sedia scomoda, non possiamo distoglierlo dalla sensazione della sedia.

La nozione di un pensatore separato, di un Io distinto dall’esperienza, è data dalla memoria e dalla rapidità con cui il pensiero cambia come far ruotare rapidamente un bastoncino che brucia per dare l’illusione di un cerchio continuo di fuoco. Se immaginiamo che la memoria sia conoscenza diretta del passato anziché esperienza presente, abbiamo l’illusione di conoscere passato e presente contemporaneamente. Questo ci fa pensare che in noi vi sia qualcosa di distinto sia dalle esperienze passate sia da quelle presenti. Ragioniamo così: “Conosco quest’esperienza presente e so che è diversa da quell’esperienza passata. Se posso confrontarle e osservare che l’esperienza è cambiata, ci dev’essere qualcosa di costante e separato”.

Di fatto, però, non possiamo confrontare quest’esperienza presente con un’esperienza passata. Possiamo solo confrontarla con un ricordo del passato, che è parte dell’esperienza presente. Quando vedremo chiaramente che il ricordo è una forma di esperienza presente, diverrà evidente che è impossibile cercare di separarci da quest’esperienza, proprio com’è impossibile cercare di far sì che i denti mordano se stessi. C’è semplicemente l’esperienza. Non c’è qualcosa o qualcuno che sperimenti l’esperienza!

Non sentiamo sentimenti né pensiamo pensieri, né percepiamo percezioni più di quanto non udiamo l’udito, vediamo la vista, odoriamo l’odorato. “Mi sento bene”, significa che è presente una sensazione di benessere. Non significa che c’è una cosa chiamata ‘lo’ e un’altra cosa separata chiamata sensazione, per cui, se le mettiamo insieme, questo ‘Io’ sente il senso di benessere. Non vi sono altre sensazioni che le sensazioni presenti, e qualsiasi sensazione presente è l’Io. Nessuno ha mai trovato un Io separato da qualche esperienza presente, o qualche esperienza separata da un Io, il che significa semplicemente che ‘Io’ ed esperienza sono la stessa cosa.

Come pura argomentazione filosofica questa è una perdita di tempo. Non stiamo cercando di fare una “discussione intellettuale”. Stiamo prendendo coscienza del fatto che ogni ‘Io’ separato che pensi i pensieri e sperimenti le esperienze è un’illusione. Capirlo è capire che la vita è assolutamente momentanea, che non c’è né permanenza né sicurezza, che non c’è alcun ‘Io’ che possa essere protetto.

C’è una storia cinese su un uomo che si recò da un saggio e gli disse: “Il mio spirito non ha pace. Ti prego di placarmelo”. Il saggio rispose: “Tira fuori il tuo spirito (il tuo ‘Io’) e mettimelo davanti; lo tranquillizzerò”. “Lo vado cercando da molti anni”, replicò l’uomo, “ma non riesco a trovarlo”. “Ecco dunque”, concluse il saggio, “che si è placato! “.

Il vero motivo per cui la vita umana può essere così totalmente esasperante e frustrante non è l’esistenza di fatti chiamati morte, dolore, paura o fame. La cosa pazzesca è che, quando questi fatti sono presenti, noi ci giriamo intorno, ci agitiamo, ci dimeniamo, corriamo via, tentando di sottrarre l’Io all’esperienza. Fingiamo d’essere delle amebe e cerchiamo di proteggerci dalla vita dividendoci in due. La salute mentale, l’interezza e l’integrazione risiedono nella comprensione che non siamo divisi, che l’uomo e la sua esperienza presente sono una cosa sola, e che è impossibile trovare un ‘Io’ o una psiche separati.

Sino a quando continuerò a pensare d’essere separato dalla mia esperienza vi sarà confusione e scompiglio. Per questo non avrò né consapevolezza né comprensione dell’esperienza, e quindi nessuna vera possibilità di assimilarla. Per capire questo istante non devo cercare di separarmene, ma devo esserne consapevole con tutto il mio essere. E ciò, al pari del trattenermi dal non respirare per dieci minuti, non è qualcosa che dovrei fare. In realtà è la sola cosa che posso fare. Qualsiasi altra cosa è la follia di tentare l’impossibile.

Per capire la musica dobbiamo ascoltarla. Ma finché pensiamo: “Io sto ascoltando questa musica” non la sentiamo. Per capire la gioia o la paura dobbiamo esserne consapevoli in modo totale e indiviso. Finché le diamo un nome e diciamo: “Sono felice”, oppure: “Ho paura”, non ne siamo coscienti. Paura, dolore, afflizione, noia restano problemi se non li capiamo, ma il capirli richiede una psiche semplice e indivisa. E’ certamente questo il significato dello strano detto: “Se il tuo occhio è semplice anche tutto il tuo corpo è illuminato”.

Tratto da: “La Via della Liberazione”, di Alan Watts.

Fonte del Post: http://realtofantasia.blogspot.it/2015/06/essere-consapevoli.html

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