Arnaud Desjardins: Osate Vivere. 1 di 3

Osate Vivere. 1 di 3

Arnaud Desjardins, riconosciuto in Europa come una alta figura della spiritualità, trasmette attraverso la parola e gli scritti l’insegnamento, ricevuto durante nove anni dal suo maestro indiano Swami Prajnanpad. La sua ricerca spirituale si è svolta per venticinque anni nei gruppi Gurdjieff, nei monasteri cattolici, presso molti saggi dell’India, i buddhisti tibetani, i sufi dell’Afghanistan e in Giappone nei monasteri zen. Sulle grandi tradizioni spirituali dell’Oriente ha realizzato dal 1959 al 1973 vari documentari, trasmessi dalla televisione francese. Oggi, l’Associazione “Amis d’Hauteville”, l’ashram presso Valence, in Francia, dove risiede dal 1995, conta più di 1500 aderenti.

*L’edizione francese del libro è del 1989. La traduzione italiana presso le edizioni Ubaldini-Roma è del 1998.

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Un giorno, a una domanda sulla morte, mi si è presentata spontaneamente questa risposta: “Tu non hai paura della morte, hai paura della vita”.

Ho riflettuto e mi è apparso con certezza quanto quella risposta fosse vera: la paura della morte è tanto più grande, quanto più non si è osato vivere. Se davvero non avrete più paura della vita, non potrete più avere paura della morte, perché avrete scoperto in voi stessi cos’è veramente la Vita, non la vostra vita, ma la Vita unica e universale che ci anima e, quindi, vi apparirà evidente che quella vita è indipendente dalla nascita e dalla morte.

Sapete che gli occidentali, comunemente, contrappongono la vita alla morte, mentre per gli orientali l’opposto della morte è la nascita, dal momento che la vita si esprime in un movimento perpetuo di cambiamenti, in un gioco ininterrotto di nascite e di morti.

Questa convinzione è comune a molte forme di spiritualità e il mio guru, Swami Prajnanpad, faceva degli esempi semplici: la nascita di un bambino è la morte del neonato, la nascita dell’adolescente è la morte del bambino.

Osare vivere è osare morire a ogni istante, ma è ugualmente osare nascere, vale a dire, superare le grandi tappe dell’esistenza in cui ciò che siamo stati muore per fare spazio ad altro, con una visione rinnovata del mondo, pur ammettendo che ci siano diversi stadi da superare prima dell’ultima tappa del Risveglio.

Questo significa essere sempre più consapevoli che a ogni istante si nasce, si muore e si rinasce. Ma osare vivere significa anche semplicemente non avere più la paura di ciò che portiamo in noi stessi. E sono sicuro che molti di voi sono d’accordo con me, soprattutto quelli che hanno incominciato a scoprire il loro inconscio.

Avete paura di quello che portate in voi, perché sapete che non potete contare completamente su voi stessi, che potreste mettervi in situazioni per le quali poi vi mordereste le mani. Ma avete paura di quello che portate in voi stessi anche perché da bambini vi è capitato di essere brutalmente contrastati nelle vostre espressioni e ciò che era una forma della vostra gioia di vivere e del vostro entusiasmo ha attirato su di voi una catastrofe: vi hanno coperto di rimproveri, mentre ciò che stavate facendo vi rendeva felici.

E noi non capivamo, forse l’abbiamo rivissuto in terapia, come e perché i nostri genitori fossero così arrabbiati, mentre a noi sembrava così divertente tagliare con un gran paio di forbici le più belle tende della casa o, come ho fatto io, mettere nella vasca piena tutte le scarpe di mia sorella, mio fratello, mio padre e mia madre per farle galleggiare come barchette.

I miei genitori non avevano molti soldi all’epoca, né molte scarpe nell’armadio, ma per me erano sufficienti per provare a farle galleggiare. E’ un ricordo insignificante e innocuo, tuttavia ho rivissuto con intensità tragica la disperazione di mia madre, la severità di mio padre e la mia felicità infranta. Perché ciò che a me sembrava così meravigliosamente divertente aveva provocato un tale turbamento in mia madre, quando aveva visto che le scarpe si erano rovinate?

Spesso, quelli che agli occhi dei nostri genitori sono piccoli incidenti, agli occhi dei bambini che siamo stati sono eventi terribili. La paura di ciò di cui siamo capaci si insinua dentro di noi molto rapidamente e di qui, se i genitori non sono particolarmente capaci, cominciamo noi stessi a soffocare la nostra forza vitale, il nostro ‘slancio vitale’.

Cominciamo a reprimere la nostra pulsione vitale. E poi, lo sapete bene, (la psicologia ce lo insegna e forse l’avete potuto verificare personalmente) che la scoperta della sessualità si fa spesso nel malessere, nell’incomprensione, nel senso di colpa per la masturbazione infantile e che gli impulsi che si svegliano nell’adolescenza, se non trovano lo spazio per espandersi completamente come vorremmo, ci turbano e ci disorientano.

E in questa forza vitale, nella libido, c’è una potenza molto grande, che voi non riconoscete completamente. A tal punto che, oggi che la libertà di costumi è molto più grande, oggi che i mezzi per esprimersi sono immensi e i viaggi facilitati, la maggior parte di voi non osa più vivere pienamente. Ed è quando non lasciate più spazio allo slancio vitale dentro di voi che cominciate ad aver paura della morte. Ciò che è veramente importante è che vi liberiate della paura di vivere.

Questa paura di vivere comporta due aspetti: da una parte, la paura di tutto ciò che portiamo in noi stessi, dall’altra, la paura delle situazioni concrete, con le conseguenze a cui possono dare origine. La paura di vivere diviene ben presto paura di soffrire: maglio vivere meno, per soffrire meno.

Osservate, guardate, domandatevi se questo vi riguarda o no. Questa verità mi si è imposta nei nostri colloqui privati e nelle nostre riunioni comuni. Avete paura di vivere perché vivere significa assumersi il rischio di soffrire.

Questa paura ha le sue radici nelle vostre esperienze passate, perché più avete vissuto più siete stati infelici. Non soltanto perché avete vissuto l’entusiasmo di mettere delle scarpe in una vasca, ma perché, quando vi siete innamorati all’età di 18 anni, avete sofferto tanto. E, molto spesso, nasce questa decisione, a volte inconscia, a volte molto cosciente: “Non voglio più soffrire così”.

E’ una bella decisione, ma ne consegue un’altra decisione che, quella sì è completamente falsa: “di conseguenza non amerò più”, o “di conseguenza non mi metterò più in situazioni pericolose”.

Bisogna aver chiaro che, per chi è impegnato nel cammino della saggezza e vuole a poco a poco penetrare il mistero della sofferenza, è indispensabile assumersi il rischio di vivere e di soffrire.

D’altra parte, se da bambini la nostra vitalità e forse anche la nostra esuberanza sono state spesso associate a rimproveri “non devi”, “come hai osato!” e, dunque, accompagnate da un giudizio di valore, questa ricchezza di vita è stata abbondantemente condannata anche dagli insegnamenti spirituali che esaltano l’ascetismo, l’austerità, la rinuncia, il ritiro in un monastero o in una grotta d’eremita e, per finire, ‘la morte a se stesso’ o ‘la morte dell’io’.

Io stesso sono rimasto sorpreso quando un uomo austero come Swami Prajnanpad insisteva sul valore dell’audacia di vivere, di esporsi e di non sottrarsi ai colpi della vita. Questo atteggiamento mi sembrava in contraddizione con la spiritualità induista, come io la intendevo.

E lì c’è un rischio reale, che io ho sfiorato più volte: quello di camuffare, sotto discorsi nobili ma menzogneri, quella paura di vivere che, beninteso, esisteva in me (io non condivido mai una verità che non ho vissuto e che non mi abbia reso un po’ più libero, altrimenti non mi riterrei competente o qualificato per parlarne).

Quindi, vi dibattete in un senso di soffocamento per il desiderio di condurre una vita vasta, una grande vita, una vita ricca di esperienze. Il rischio è che questa paura di vivere sia illusoriamente giustificata da un ideale spirituale.

Secondo la terminologia induista, chi è rajasico, attivo, vive intensamente, mentre si deve diventare satvici, calmi, sereni, raccolti in se stessi. Così tanto e così bene che mi si era imposta l’immagine del saggio in meditazione, gli occhi chiusi e il sorriso del Buddha, a scapito dell’immagine dell’uomo che osa partecipare completamente all’esistenza e accettare tutte le forze e tutte le pulsioni che sono in lui, prima di divenirne a poco a poco padrone.

Sì, rischiamo realmente di ingannare noi stessi. Non accuso e non condanno nessuno, dal momento che anch’io sono parte in causa. Io stesso ho corso abbondantemente quel rischio, non soltanto voi, ragazzi e ragazze, uomini e donne che pure lo correte. E ci tengo a dire che parlo unicamente in nome della saggezza e in vista della più alta forma della spiritualità.

Cerchiamo di essere, innanzi tutto, perfettamente naturali prima di aspirare al soprannaturale. “Colui che tradisce la terra, non raggiungerà mai il cielo”, questo famoso motto è eloquente.

E’ un tragico errore continuare, nella convinzione che il cammino della spiritualità lo esiga, a soffocare una vita che è già considerevolmente mutilata: se mi ritiro a poco a poco dal mondo realizzerò l’archetipo del saggio che ha rinunciato a tutto, immerso nella beatitudine del nirvana. Si tratta di un’immensa menzogna, frutto della negazione e della paura.

Chi conosce soltanto un poco l’opera del celebre, forse troppo celebre Rajneesh, sa quanto egli abbia insistito sul tema “osate vivere”, utilizzando parole come ‘celebrare’ o ‘celebrazione’: celebrate, fate della vita una celebrazione. Ma sebbene trovo ammirabili certe pagine di Rajneesh di questo o quel libro, non mi avvalgo del nome di un uomo che non ho mai avvicinato e di un ashram dove non ho mai messo piede. Mi attengo ai maestri che hanno segnato la mia strada.

Tutto ciò che avete sentito dalla voce dei grandi saggi o letto in testi della tradizione spirituale è certamente vero e ‘la morte a se stessi’ è certamente un aspetto fondamentale del cammino spirituale. Non possiamo rimanere nel bozzolo e diventare farfalle alle stesso tempo.

I bozzoli non mettono e non metteranno mai le ali: ma cominciamo dall’inizio. Se desiderate raggiungere una spiritualità che non sia una caricatura, abbiate il coraggio di riconoscere tutta la forza vitale che esiste nel bambino e che in voi è rivolta contro se stessa.

Certo, l’effervescenza del bambino diminuisce con l’età. Non ci si aspetta che una persona anziana sia vivace come un bambino di due anni, che ha voglia di correre dappertutto e di mettersi a scalare ogni cosa. Ma sono convinto che una gran parte di ciò che attribuiamo all’avanzare dell’età derivi di fatto dalla repressione della forza vitale in noi, innanzi tutto da parte di chi ci educa, poi da parte dell’esistenza in generale e, infine, da parte di noi stessi; e sono convinto che non si può divenire né un asceta né uno yogi se si soffoca questa forza vitale.

Se avete letto anche soltanto qualche libro sull’induismo, sapete che l’esoterismo dello yoga si fonda sulla liberazione di una forza molto potente, kundalini, il cui risveglio prematuro in un corpo non sufficientemente purificato può anche essere pericoloso.

Io non mi avvalgo dell’hatha yoga né dello yoga kundalini, ma mi ricordo del mio smarrimento quando, imbevuto com’ero dell’insegnamento di Ramdas, di Ma Anandamayi, di Ramana Maharshi, Swamiji mi volle mostrare, nel 1966, la falsità del mio ideale di meditazione e di spiritualità pura, mentre molti aspetti di me rimanevano incompleti e frustrati, una parola alla moda che conosciamo tutti.

Quell’uomo era, forse più di altri, l’incarnazione della rinuncia. A dispetto di tutti i falsi ideali che abbiamo del ‘saggio’, era per esempio all’estremo opposto di un Gurdjieff, che non ho mai incontrato, ma la cui verità o leggenda ha ispirato i primi dieci anni della mia ricerca.

Gurdjieff, che aveva vissuto con grande intensità le sue avventure in cerca della verità, alla fine del diciannovesimo secolo, quando ogni viaggio rappresentava una vera spedizione, aveva l’abitudine di spingere i suoi discepoli mettendoli in situazioni molto difficili e suggerendogli di osare a viverle pienamente.

E’ stato tacciato di immoralità, è stato accusato di essere lui stesso un debosciato, è stato trattato come un Rasputin, ma io sono sempre stato convinto che un uomo capace di comporre una musica così pura e cristallina non si poteva ridurre all’immagine che ne davano i suoi detrattori; al contrario, in una forma sconcertante e forse anche sconveniente, era un maestro e un saggio.

Sebbene non avessi incontrato Gurdjieff di persona, ciò che avevo sentito dire di lui, del suo insegnamento e di quella forza vitale che si sprigionava da lui, è stato immensamente benefico per il piccolo protestante che ero, da una parte così preoccupato di non essere criticato, di crearsi attorno un’approvazione unanime, mostrandosi saggio e gentile e dall’altra imbevuto di morale, di scoutismo, di paure e di inibizioni.

Certo, l’affermazione che la saggezza non deve essere il frutto della frustrazione, né della paura di ciò che portiamo dentro di noi può essere pericolosa e condurre a comportamenti immorali e a un disordine che non ha più niente a che fare con il cammino verso la libertà. Tutt’altro.

Con l’insegnamento di Gurdjieff, ho quindi cominciato a comprendere che non c’era una reale incompatibilità tra la saggezza, parola che mi affascinava dopo aver letto, a ventidue anni, La saggezza e il destino di Maeterlinck e le forme più concrete di esistenza.

In seguito sono entrato in contatto con un mondo completamente diverso, di cui ho dato testimonianza nel libro Ashrams, quello di Ma Anandamayi, di Ramdas, di Swami, in meditazione sulla riva del Gange sotto un baniano, un mondo che mi sembrava fatto solo di bellezza, di armonia e distacco, un mondo nel quale le pulsioni erano trasformate subito in luce e contemplazione.

In seguito ho scoperto che, salvo Ma Anandamayi stessa o Ramdas o altri saggi ammirabili, molti di coloro che soggiornavano negli ashram, indiani o europei e che erano diventati dei grandi meditanti, non avevano, di fatto, raggiunto alcuna reale libertà.

Certamente erano molti belli nella loro postura immobile e silenziosa e di sicuro accadeva loro qualcosa di grande, mentre meditavano. Ma, al di fuori delle ore di meditazione quotidiana – e la meditazione mi sconcertava molto all’epoca – li vedevo emotivi, facilmente irritabili, gelosi e assolutamente lontani dalla verità.

Ad esempio, un giorno che ero molto stanco, nonostante non gli avessi domandato nulla, mi intrattennero a lungo e mi sciorinarono discorsi, che io non osai interrompere per correttezza, sulla maya, l’irrealtà del mondo, secondo l’insegnamento di Shankaracharya. All’epoca, non mi occupavo ancora di psicologia, quindi non immaginavo che quella logorrea potesse essere la manifestazione di istinti o di tendenze rimosse e non avrei neppure parlato di nevrosi. Ma provai un senso di malessere ascoltandoli.

In seguito, ho incontrato Swami Prajnanpad nel suo ashram povero e austero, quest’uomo, che aveva rinunciato a una carriera politica nella quale molti indiani volevano vederlo impegnato (Swamiji era amico intimo di Lal Bahadur Shastri, che fu primo ministro dell’India dopo Nerhu), sia una carriera universitaria e infine una vita coniugale con una donna che tutti, da giovani, trovavano incantevole.

Swamij mi ha scosso sin dalle fondamenta (non si scuote un uomo le cui fondamenta sono solide) convincendomi che ero io stesso narrow, gretto, shallow, superficiale e cripple, storpio, nonostante avessi quarant’anni e la mia vita sembrasse piuttosto ricca, dal momento che viaggiavo, solcando le strade dell’Asia e che avevo osato mettere sottosopra i divieti sessuali della mia giovinezza.

Queste parole di Swamiji erano dure da ascoltare. Ero colpito, non soltanto dalla profondità a cui potevo dare un senso metafisico, l’Essenza sotto l’apparenza, il Reale sotto l’irreale, l’Uno sotto il molteplice, l’Immutabile sotto il divenire (questo lo potevo intendere bene, dal momento che mi nutrivo di questo genere di letture), ma anche dalla mia personale profondità vitale, dalle mie pulsioni, dai miei istinti.

Quell’uomo, che rappresentava per me il Vedanta vivente e che non si poteva sospettare che perorasse la sua causa personale, giacché viveva nella rinuncia e molte ore ogni giorno nell’immobilità, bello come una statua, quest’uomo si batteva con me per distruggere quell’immagine del saggio che mi ero fatta, a partire da Ramdas e da Ma Anandamayi, nei confronti dei quali, beninteso, conservo più che mai la mia venerazione.

Così mi costrinse a riconoscere che c’era una forma di disonestà nella mia personale vita spirituale e che, nella meditazione, sfuggivo non soltanto molti aspetti dell’esistenza concreta, ma soprattutto molti aspetti di me stesso.

Fine parte 1
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Tratto da: “L’audacia di Vivere”, di Arnaud Desjardins – Traduzione di Giovanna Visini.

Fonte: http://www.rebirthing-milano.it/brani-traduzioni/osate-vivere-da-laudacia-di-vivere-di-arnaud-desjardins/

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