Bernadette Roberts: L’esperienza del non-sé. Cap. 2

Bernadette Roberts: L’esperienza del non-sé. Capitolo 2.

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Quando la gioia che mi dava il vuoto cominciò a svanire, decisi di rinvigorirla trascorrendo qualche tempo in solitudine e in contemplazione del mio vuoto sé. Quantunque il nucleo centrale del sé fosse scomparso, ero sicura che il vuoto che restava, con il suo silenzio e la sua gioia, fosse Dio stesso.

Così un giorno, con una decisione totalmente edonistica, mi sistemai comodamente e volsi lo sguardo al mio interno. Quasi immediatamente, lo spazio vuoto cominciò ad espandersi e si espanse così rapidamente da dare l’impressione che potesse esplodere. A questo punto avvertii alla bocca dello stomaco la sensazione di chi precipita per cento piani in un ascensore non-stop e sentii che nella caduta mi veniva aspirato ogni senso di vita. Al momento di toccare terra, la consapevolezza: quando non c’è sé personale, non c’è neppure Dio personale. Vidi chiaramente come i due procedano insieme: quantunque non abbia mai scoperto dove siano andati.

Per un po’ restai lì, mentalmente ed emotivamente senza riflessi. Non riuscivo a pensare a ciò che era accaduto, il mio essere non rispondeva in nessun senso. Attorno a me c’era solo silenzio e in quel completo silenzio attesi a lungo che si instaurasse un qualche tipo di reazione, che prima o poi accadesse qualcosa: ma non accadde nulla. In me non c’era alcun senso di vita, né movimento o emozione; alla fine mi resi conto che non avevo più un ‘dentro’ in assoluto.

Contemporaneamente alla caduta, s’era fatta una pulizia interiore così completa che non avrei avuto mai più l’impressione di possedere una vita che potessi chiamare mia, o un genere di vita qualsiasi. La mia vita interiore o spirituale era finita. Finita l’introspezione: da allora in poi i miei occhi poterono soltanto guardare fuori. Quando questo accadde, non potevo immaginare le terribili ripercussioni che l’improvviso evento avrebbe avuto. Le avrei apprese poco a poco ed esclusivamente sul piano dell’esperienza: la mia mente non poteva comprendere cosa fosse accaduto, dal momento che l’evento e tutto quanto gli fece seguito esulavano da qualsiasi schema di riferimento a me noto. Da quel momento in poi, dovetti letteralmente cercare a tentoni il percorso lungo una strada del tutto sconosciuta.

Il primo pensiero che ebbi fu: oh no, non un’altra Notte Oscura! L’esperienza mi aveva abituata a queste sparizioni di Dio ed era piuttosto deprimente pensare che non fossero finite. Ma quando non riconobbi nessuna delle reazioni abituali – qualsiasi cosa dall’ansia al tormento, a voi il definirle – sentii che l’esperienza non aveva nulla a che fare con quanto ha descritto Giovanni della Croce e accantonai il concetto. Fra l’altro, non faceva alcuna differenza: dovevo semplicemente affrontare la realtà del qui e ora, una realtà in cui non avevo senso della vita.

Per cui stavo lì, totalmente lucida, in salute, con le varie facoltà intatte, naturalmente viva; in una parola, con tutto il mio organismo regolarmente funzionante: ma non sentivo la vita. Che fare a questo punto? Decisi che potevo darmi un avvio preparando il pranzo; ma, come mi mossi, tutti i movimenti abituali risultarono a un tratto così meccanici che mi sembrò di essere diventata un robot: non riuscivo più a infondere in ciò che facevo alcuna energia personale. Sbrigai le faccende senza che un filo di vita le sostenesse e ogni gesto fu totalmente meccanico, un semplice riflesso condizionato.

Dopo un po’ la cosa diventa opprimente e si comincia ad avere la pressante necessità di trovare la vita, da qualunque parte. Nella speranza di trovarla, uscii in giardino e restai lì, a guardarmi in giro. Sapevo che intorno a me c’era la vita, ma non riuscivo a sentirla; così mi aggirai come un cieco, toccando ogni cosa: le foglie, i fiori; mi protesi, afferrai i rametti del pino e me li lasciai scivolare fra le dita; chinandomi, affondai le mani nel terreno. Alla fine mi sdraiai sull’erba, a palme in giù e guardai il cielo attraverso i rami del pino, sentendo il venticello passarmi addosso. Era bello stare lì; era tutto a posto. Intorno a me c’era la vita, anche se dal mio interno era sparita.

Più tardi, quel pomeriggio, prima che tramontasse il sole, mi spinsi in un posto dove andavo sempre nei momenti di crisi: il rifugio degli uccelli della zona. Distava solo qualche centinaio di metri da casa mia e il percorso offriva splendidi scorci sul mare, con le sue ampie spiagge e le colline alte contro il cielo, alle spalle del rifugio. Di regola mi arrampicavo solo per un piccolo tratto: oltre il ceppo su cui mi sedevo, c’era un acquitrino, la cui acqua fangosa diventava sempre più profonda, via via che si avvicinava a uno dei laghetti formati dal fiume al momento di sfociare in mare. Ma quel giorno mi tolsi scarpe e calze e mi arrampicai nel cuore del rifugio, finché non trovai una piccola roccia affiorante appena sulla melma. Sedetti qui, fra le alte canne e le piante selvatiche e sprofondai letteralmente nella vita che mi circondava e che, ben presto, mi sommerse.

Mi ero sempre sentita a casa mia in quel luogo. C’era una grande pace e una misteriosa tranquillità. Sapevo, per esperienza, che non serve pensare per risolvere i problemi della vita; solo se stavo qui, all’aperto, nel cuore della vita vera, spontaneamente avrei visto separarsi quello che aveva un senso da quello che non ne aveva; e una volta tornata a casa, ogni domanda inutile sarebbe stata spazzata via e avrei distinto chiaramente la strada da seguire. E anche quel particolare giorno sentii di essere a casa, probabilmente lo sentii come non mai fino ad allora. Intorno al masso, la vita era intensa e brulicava e traboccava, compensando la mia mancanza di vita a tal punto che era come se niente fosse accaduto. Non c’era dubbio: era questo il mio posto, circondata e protetta da questa cosa elusiva e onnipervadente chiamata ‘vita’. Dopotutto, forse nessun uomo è meglio degli elementi di cui è composto, dato che questi elementi sono la sua stessa vita, pensavo: anche se non sapevo come potesse essere così. Quel che contava era essere lì, nient’altro.

Le settimane seguenti le trascorsi quasi sempre fuori di casa. La vita in casa era divenuta quasi intollerabile: ora era così monotona, spenta e priva di energie personali che tutto quanto riuscivo a fare era sbrigare le indispensabili faccende domestiche, nient’altro. Mentre all’aperto, dovunque fossi, la vita scorreva piena di pace, dimentica, inconoscibile: ed era lì che io dovevo stare. Così vagabondai per le colline, le rive del fiume e la spiaggia, semplicemente guardando, osservando, stando lì.

Sebbene avessi guardato e osservato per tutta la vita, questa volta era diverso, perché non riuscivo a trovare negli alberi, nei fiori di campo o nell’acqua più vita di quanta ne trovassi in me stessa; eppure tutt’intorno c’era vita. È strano come la mente voglia localizzare e definire in dettaglio questa cosa inconoscibile chiamata vita e, quando ha soddisfatto le sue domande, si lasci accecare dalla conoscenza e si tagli fuori per sempre dall’unica vera sicurezza che possiede… o questo è quanto avrei presto appreso. Per il momento, tuttavia, io ero alla ricerca di questa sicurezza e non riuscivo a trovarla. Quantunque ogni cosa sembrasse vuota, come ero io stessa, sapevo che da qualche parte in natura c’era la vita e, per il momento, volevo soltanto essere là e farne parte.

Su una scogliera sul mare, prospiciente un’insenatura rocciosa dove spesso sonnecchiavano le foche, c’era un cipresso nodoso e battuto dal vento, uno dei miei posti favoriti… fino al giorno in cui la guardia forestale mi disse di andarmene per non contribuire all’erosione del suolo. Fra le radici contorte, che impedivano ogni altra vegetazione, c’era un posto in cui sedere senza schiacciare un solo soffione né disturbare la variegata flora che rendeva la scogliera così pittoresca.

Fu qui che la natura mi cedette finalmente il suo segreto, in un semplice momento senza tempo in cui scorsi la chiave di tutto. Non era Dio, ovvero la vita, a essere nelle cose. Era esattamene l’opposto: le cose, ogni cosa, erano in Dio. E noi non eravamo in Dio come gocce d’acqua che possono separarsi dal mare, ma piuttosto come… beh, l’unico paragone che mi venisse in mente era quello di quando si tira un pizzico a un palloncino: se pizzichi un punto e cerchi di staccarlo, scoppia tutto. L’operazione è impossibile. Non si può dividere una cosa da Dio, perché non appena si lascia andare il concetto di divisione ogni cosa ricade nella totalità di Dio e della vita.

Ma vedere che questo principio è in atto non è lo stesso che spiegarlo. Una cosa è certa: fintanto che restiamo prigionieri delle parole, delle definizioni e di tutto ciò a cui di regola si attacca la mente, non potremo mai vedere la realtà. E fintanto che non riusciremo a superare i nostri concetti sulla vera natura della vita, non potremo renderci conto di quanto, in realtà, siamo totalmente al sicuro e di come tutta la lotta per la sopravvivenza e la sicurezza individuale sia un assoluto spreco di energia.

Questa intuizione comportò una nuova apertura. Cominciai a vedere le cose diversamente e, soprattutto, smisi di andare di qua e di là in cerca della vita: è chiaro che la vita è ovunque; noi siamo in essa ed essa è tutto ciò che è.

Oggi, riconsiderando gli eventi, mi piace ricordare una particolare lezione appresa nel corso del viaggio. Ho imparato infatti che non basta una sola intuizione a produrre un reale cambiamento. Col tempo, ogni intuizione o illuminazione riesce a filtrare nel nostro schema di riferimento abituale e, una volta che l’abbiamo integrata, essa si perde nel contesto della mente: la mente che tende per sua natura a corrompere qualsiasi illuminazione. Il segreto perché un’illuminazione diventi un modo permanente di conoscere e di vedere è nel non manipolarla, non attaccarsi ad essa, non farne un dogma, e neppure ragionarci su. Le intuizioni vanno e vengono, ma perché rimangano dobbiamo fluire con esse; diversamente, nessun cambiamento è possibile.

È un errore pensare che, dal momento che ci è stata tirata la palla, sappiamo in che direzione correre. Forse le nostre più grandi intuizioni si perdono in questo modo: noi le caliamo nei nostri soliti schemi mentali e le blocchiamo lì. Ma se quando arriva la palla siamo realmente pronti, il puro e semplice slancio ci solleverà e ci deporrà sulla corrente, dovunque questa stia andando. Se io ho passato quello che ho passato, è stato solo perché dovevo apprenderlo con le maniere forti, dato che quando i pezzi non combaciavano o quando un’intuizione non si adattava ai miei schemi mentali, io entravo totalmente in crisi. Avrei potuto risparmiarmi un sacco di guai se non mi fossi affannata a rincorrere e voler risolvere i miei insolubili quesiti.

Un esempio di che cosa vuol dire imparare con le maniere forti mi capitò a questo punto, con lo svanire di ogni senso del possesso di una vita individuale, per cui fui costretta a cercare la vita al mio esterno. Erano ormai più o meno cinquant’anni che vivevo sentendo la vita al mio interno, così che il periodo era molto difficile: un periodo di transizione e di adattamento, senza la possibilità di vedere davanti o di comprendere cos’era accaduto. Tuttavia feci del mio meglio e poiché ero abituata a fare la comunione ogni giorno, pensai che avrebbe potuto essermi d’aiuto portare sempre con me l’Eucaristia in un medaglione che avevo appeso al collo. In seguito alla scomparsa della vita interiore, la normale pratica dell’Eucaristia non aveva più su di me alcun effetto. Mentre in passato mi capitava di venire risucchiata nel suo misterioso silenzio, ora non si verificava più niente del genere; se mai, c’era troppo silenzio. Perciò, visto che l’Eucaristia non riusciva più a restituirmi il senso di una vita interiore, sentendomi doppiamente perduta, decisi che potevo almeno portare l’ostia con me nella mia ricerca di Dio all’esterno.

Dopo alcune settimane, però, mi resi conto che l’espediente non funzionava: non me ne veniva nessun senso di vita, nessuna sicurezza; la situazione era esattamente quella di prima. Fu a questo punto che, il giorno che ho detto, sotto il cipresso, consumai l’ostia e vidi che tutte le cose sono in Dio e che Dio è più vicino e più personale di quanto avessi mai osato aspettarmi. Sentire all’improvviso e con tutta te stessa che vivi e cammini in Dio significa superare totalmente e per sempre il senso di perdita conseguente alla scomparsa di una vita personale.

Se non altro, questo incidente, con molti altri che qui tralascio, testimonia il continuo sforzo di aggrapparmi al mio abituale schema di riferimento, un aggrapparmi che non portò a nulla, finché non abbandonai la presa. Potrei aggiungere che fra le tante idee precostituite che dovetti abbandonare ci fu l’idea stessa dell’abbandono: non ero io che avevo abbandonato il mio sé a Dio, ma piuttosto Dio che aveva abbandonato del tutto il mio sé. Aggiungerò anche che, una volta superato il sé, tutto svanisce, anche ‘quello’ che mi sarei aspettata sarebbe rimasto.

Una settimana o due dopo l’illuminazione di cui sopra stavo facendo ritiro spirituale con i Monaci Eremiti, a Big Sur. Credo fosse il secondo giorno, nel tardo pomeriggio: me ne stavo sulla collina battuta dal vento, di faccia all’oceano, quando apparve all’orizzonte un gabbiano. Planava, si tuffava, giocava col vento. Lo contemplai come non avevo mai contemplato nulla in vita mia. Sembrava fossi ipnotizzata: era come vedere volare me stessa, non c’era fra noi la consueta separazione. E, insieme, c’era qualcosa di più che non la semplice mancanza di separazione, qualcosa di realmente meraviglioso e inconoscibile. Volsi infine gli occhi alle colline ricoperte di pini, alla spalle del monastero: e anche ora non ci fu divisione, solo una sorta di ‘presenza’, che fluiva con e attraverso ogni vista e ogni particolare oggetto di contemplazione. Vedere l’Unità di tutte le cose è come osservare il mondo attraverso speciali lenti tridimensionali: ecco che cosa si intende quando si dice che Dio è in ogni luogo, pensai.

Avrei potuto restare lì in contemplazione per il resto della mia vita, ma dopo un po’ mi sembrò che fosse tutto troppo bello per essere vero; era uno scherzo della mente, bastava che suonasse la campana e sarebbe tutto sparito. La campana infine suonò e suonò il giorno dopo e i giorni dopo ancora, per tutto il resto della settimana, ma le lenti tridimensionali rimasero al loro posto, intatte. Quello che avevo preso per un inganno della mente doveva diventare un modo permanente di vedere e di conoscere (che farò del mio meglio per descrivere), via via che il mio mondo dall’interno si spostava sempre più all’esterno. Non sarei più tornata al vecchio modo di vedere la divisione e l’individualità; ma si badi bene, non è il cancellarsi della divisione che conta. Ciò che è importante in questo modo di vedere è Quello in cui la divisione si dissolve.

Prima di andare oltre e provare a descrivere questo nuovo modo di vedere, vorrei dire che, con la scoperta che Dio è dappertutto, con la scoperta della sua Unicità, come io la definii, fui compensata mille volte della perdita di un Dio personale al mio interno e della confusione che questa mi provocò. Sembra che dovessi passare attraverso il personale prima e l’impersonale poi, per poter realizzare che Dio è più vicino tanto del primo che del secondo e li trascende entrambi.

L’idea e le esperienze di Dio, come essere personale dentro di noi e impersonale fuori di noi, sono qualcosa di puramente relativo, che ha che fare con sé e con il suo particolare tipo di coscienza. Dio è, in ogni caso, al di là della relatività della nostra mente e delle nostre esperienze; in realtà ci è così vicino che non riusciamo mai a localizzarlo. Ma nel momento stesso in cui si scorge e si realizza questa vicinanza, si scopre che Dio è dovunque ed è, insieme, tutto ciò che esiste: dovunque si guardi, non c’è altro da vedere. In verità Dio non è nel personale né impersonale, né interiore né esteriore, ma è ovunque nel suo complesso e qui e ora in particolare. In parole semplici: Dio è tutto ciò che Esiste. Tutto, naturalmente, tranne il sé.

Bernadette Roberts

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Fonte: http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/misticacristiana/broberts.htm

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