Bernadette Roberts: L’esperienza del non-sé. Cap. 4

L’esperienza del non-sé. Capitolo 4

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La neve cadde presto quell’anno. Dopo due giorni di pioggia, mi svegliai di notte sentendo un gran silenzio, il silenzio che accompagna immancabilmente la neve. La tempesta lasciò trenta centimetri di neve, che trasformarono i boschi e le montagne tutt’intorno in un paesaggio totalmente nuovo, in cui mi parve di non essere mai stata prima. Per diversi giorni le strade furono bloccate, ma la neve non fece in tempo a sciogliersi che pesanti nuvole nere cominciarono ad addensarsi, basse sugli alberi: quando vidi arrivare la jeep del guardaboschi, seppi immediatamente cos’era venuto a dirmi.

Di tanto in tanto, in passato, l’uomo s’era fermato al campo: ci eravamo scambiati episodi curiosi riguardanti gli animali e non era mai mancato da parte sua il racconto di quando aveva dovuto tirar fuori dai guai questa o quella persona che s’era fermata lassù troppo a lungo. Dal momento che era imminente una nuova nevicata, disse ora, era il caso che mi muovessi prima che le strade ghiacciassero bloccandomi là, per quanto tempo, stavolta, lui non sapeva.

Così feci i bagagli, cacciai le noci che mi rimanevano nelle cavità degli alberi e nelle tane dei miei amici della foresta e mi attardai a contemplare per l’ultima volta il paesaggio, sapendo che era la fine dei più bei mesi della mia vita, una fine inevitabile fin dall’inizio. Sapevo che, per quante volte mi fosse accaduto di tornare lassù in futuro, non sarebbe stata mai più la stessa cosa. Da molto tempo avevo imparato che l’essenza del movimento della vita non è nell’appagamento né nella sicurezza, ma piuttosto nella crescita, nel cambiamento e nella sfida, laddove le circostanze esterne riflettono semplicemente le necessità del momento sulla spinta del fluire della vita. Che cosa avrei trovato una volta scesa a valle non sapevo, ma ero sicura che nulla ormai avrebbe potuto alterare l’eterna corrente che avevo scoperto sulle montagne, una corrente che avrebbe continuato a portarmi con sé “nel suo perpetuo andare”.

La mia prima destinazione fu un terreno destinato a campeggio prospiciente il mare. Nonostante fosse un bel posto, mi scoprii incapace di apprezzarlo: notai infatti un sottile cambiamento in quello che ora mi arrivava attraverso le mie nuove lenti tridimensionali. Invece di vedere ogni separatezza dissolversi nell’Unità, ora vedevo dissolversi tutto in un inesplicabile vuoto. Dove per tanti mesi c’era stato ‘qualcosa’ ora non c’era più nulla.

Col tempo questo vuoto si fece sempre più totale e difficile da sopportare. Senza una vita ‘interiore’ o il minimo movimento interno, il vedere in quanto tale era diventato la mia vita; ne ero totalmente dipendente, senza di quello non avevo più niente.

Ma se la costante vista del vuoto era tediosa e quasi intollerabile, pure si rivelò nulla al confronto di ciò in cui mi imbattei una mattina, mentre camminavo lungo la spiaggia.

Del tutto improvvisamente fui colpita dalla coscienza che la vita intorno a me si era completamente fermata. Dovunque guardassi, al posto della vita vedevo un orrendo nulla invadere e soffocare qualunque cosa o immagine fosse a portata di sguardo. Era un mondo strangolato a morte da un vuoto insidioso, per cui ogni movimento residuo era solo lo spasimo finale della morte. Il ritiro improvviso della vita lasciava sulla sua scia una visione di declino, agonia e morte così mostruosa e terribile a contemplarsi che pensai fra me: è impossibile vedere questo e sopravvivere! Il gelo mi invase.

La reazione immediata fu di difendermi dallo spettacolo, di allontanare la visione trovandole una spiegazione e un significato: in una parola, di liberarmene razionalizzandola. Ma per quanto volessi difendermi, mi fu chiaro tutt’a un tratto, come un colpo improvviso alla testa, che non avevo una sola arma. In quello stesso istante compresi in che cosa consiste ciò che chiamiamo sé: è una difesa dell’uomo per non vedere il nulla assoluto, per non vedere un mondo vuoto di vita, una vita vuota di Dio. Privo di sé, l’uomo è senza difese contro una visione del nulla cui non può sopravvivere.

Rendendomi conto che non potevo più contare su alcuna difesa da parte mia, restai in attesa di una qualche reazione, in particolare di un moto interiore di paura. Sapevo in qualche modo che all’insorgere della paura il sé sarebbe saltato su con tutto il suo armamentario: poiché a questo punto era ovvio che la paura, madre di tutte le invenzioni, era il nucleo attorno a cui il sé era costruito e da cui dipendeva per vivere, al punto da non potersene quasi distinguere. Ma poiché non ci fu nessuna reazione, nessun movimento di paura, conclusi che dentro di me il sé era stato congelato e sepolto, in piena coscienza del suo stato di immobilità, totale impotenza, morte. Evidentemente, senza volerlo ero stata attirata e intrappolata in questo mostruoso stato di non-sé: uno stato irreversibile, dal momento che, una volta andato via, il sé non può più tornare. Accerchiata da un terrore che non riuscivo a sentire e a cui insieme non riuscivo a sottrarmi, mi sembrò in quel momento di essere condannata a restare nell’umana condizione di chi deve fissare senza potersi difendere un nulla spaventoso.

Fino a quel momento, non m’ero affatto preoccupata del sé né di dove fosse andato l’anno prima; piuttosto, m’interessava capire cosa rimanesse in sua assenza. Dal tempo della sua scomparsa avevo conosciuto una grande libertà: la libertà di incontrare l’Unità che si trova oltre il sé. Ma in quel preciso momento il silenzio interiore non veniva vissuto come libertà dal sé ma piuttosto come un sé imprigionato: un sé congelato e immobile che era parte integrante del tutto, parte integrante dell’insidioso nulla che soffocava a morte ogni cosa. In quello stesso momento me ne sentivo fulmineamente gelata. Come potevo sopravvivere un solo momento in più?

Sembrava che l’unica risorsa rimastami fossero le mie gambe, due gambe che riuscivano ancora a correre, per quanto si sentissero gelate e immobili. Avevo imparato in precedenza a muovermi senza alcun bisogno di volizione personale, cioè ad agire istantaneamente, senza pensare, senza dover essere autocosciente. Una volta ancora la cosa funzionò e mi trovai a correre lungo la spiaggia. Ma mentre lo facevo, fu come se qualcos’altro corresse con me, incalzandomi, spingendomi oltre ogni resistenza fisica: “Corri, corri più che mai! Ne va della tua vita!”. E io ci credevo!

Ora, io non ero abituata neppure a fare del jogging e dovetti farmi di corsa due miglia, di cui una parte in salita, su per un’erta scogliera; ma quando raggiunsi la macchina dimenticai ogni stanchezza. Saltai dentro, guidai fino in città e parcheggiai vicino all’incrocio principale. Avevo deciso di trascorrere il resto della giornata in compagnia dei miei simili, e fu un bene trovarmi lì.

Essendo quella una città universitaria, la zona del centro era piena di giovani. A un angolo del marciapiede, una jazz-band suonava con gli amplificatori a tutto volume; più avanti c’era un trio che suonava più in sordina; avanti ancora, un violinista solitario, impegnato in vivaci melodie irlandesi. Le vetrine esponevano maschere di Halloween esotiche e bizzarre; i caffè erano pieni di folla. Le librerie al contrario erano tranquille come biblioteche, e mi ci soffermai appena, preferendo infilarmi in uno dei caffè pieni di voci e ordinare una birra. Mentre sedevo lì, osservando la gente intorno a me, decisi che non avere un sé era altrettanto brutto, se non peggiore, che averlo; perché, una volta oltre il sé, era altrettanto probabile che capitasse di attraversare un nulla mostruoso quanto che si incontrasse un meraviglioso, indefinibile ‘qualcosa’, come a me inizialmente era sembrato accadere. Mettere via il sé è, da parte nostra, un deporre le armi innanzitempo, prima di avere la certezza di cosa c’è avanti. È assolutamente un rischio folle. Senza sé, l’uomo è totalmente esposto ai venti della sorte, buoni o cattivi che siano. Guardando tutti quei giovani intorno a me, fui felice che avessero un sé; in realtà la più grande fortuna che potessi augurare a un essere umano era quella di avere un sé. Perché così non sarebbe mai riuscito a vedere quello che io avevo visto, qualcosa di intollerabile da viverci.

Per me, naturalmente, era troppo tardi. Per questa volta ero sopravvissuta, ma chi poteva dire cosa sarebbe successo l’indomani? Fortunatamente ero incapace di pensare al momento seguente, quanto di immaginare come qualcos’altro potesse andare male; piuttosto volli cercare di scoprire come e quando in passato avessi fatto lo sbaglio che mi aveva portato in questo vicolo cieco e cacciato in questo tremendo pasticcio. Tutto ciò che riuscivo a pensare era che avevo fidato troppo in Dio… ma questo è sul serio possibile?

M’ero chiesta spesso se fosse possibile abbandonare troppo del nostro sé a Dio, se ci fosse un limite oltre il quale un uomo non dovrebbe andare. Dobbiamo davvero abbandonare la nostra mente, la nostra memoria, la nostra intera esistenza, perdere tutto quanto conosciamo per arrivare a lui, lo Sconosciuto? Una cosa è rinunciare all’esercizio della nostra volontà accettando prove e tribolazioni, un’altra privarsi di ogni volontà o energia che si possa chiamare nostra. Offrire il proprio sé a Dio va bene, ma ottenere che egli lo accetti è spaventoso: almeno questo è quello che sentivo in quel momento. Il fatto era che io mi ero spontaneamente consegnata a ‘qualcosa’ che neppure conoscevo, e perché non avessi previsto il presente risultato era un’altra cosa che non sapevo. Per cui c’era un solo modo di spiegare la situazione: pensando di essermi ceduta a Dio, mi ero in realtà ceduta al nulla. E allora: è senz’altro possibile fidare troppo in Dio, ma solo se non c’è nessun Dio, solo se superato il sé c’è il puro nulla.

Però, se non c’era Dio, questo voleva dire che per tutto il tempo io avevo fidato soltanto in me stessa: a questo punto, cos’era peggio? Tutt’e due le situazioni finivano per portare in uno stesso vicolo cieco. Ma se non puoi fidare né nell’uno né nell’altro, cosa rimane? Il vero problema era qui: se non c’è un sé e non c’è un Dio, cosa c’è? Avevo appena visto quello che c’era e non potevo vivere neppure con quello. Non c’è nulla di bello nel puro e semplice nulla, lo stesso Sartre lo ha definito nauseante; per cui si può concludere che l’unica cosa al mondo su cui possiamo fidare è… ma sì, il denaro.

Col sé o senza il sé, con una fede o senza una fede, per sopravvivere l’uomo ha bisogno di denaro e beni materiali: probabilmente è l’ultima compensazione per la mancanza di un sé e di un Dio. Noi imputiamo l’avidità al sé, ma è probabile che le cose stiano diversamente: probabilmente il materialismo non nasce dal sé ma dal nulla che si trova oltre il sé. Poiché, quando non c’è né sé né Dio, cos’altro possiamo fare della nostra vita se non renderla economicamente vivibile? E per quel che mi riguardava, pensavo che quanto prima fossi entrata nella competizione del denaro, tanto più gloriosamente ne sarei uscita; dopotutto, la vita deve continuare malgrado le nostre peggiori esperienze.

Tornata al campeggio, tuttavia, non ero più così ottimista. Avevo una vita confusa fra le mani e sbrigarmela col qui-e-ora prometteva alcuni giorni orribili. Cercai di tenermi occupata in modo da non ricordare cos’era accaduto e soprattutto girai alla larga dalle spiagge, da cui era sparita la vita. Ciò che dovevo affrontare era questo sé congelato, l’idea del quale potrebbe essere rappresentata come le ‘dita di ghiaccio’ di uno sconosciuto terror panico, che abitualmente arrivava quando la mia mente era in riposo. Per quanto apparentemente tenuto sotto controllo e a una certa distanza, sapevo che esso stava acquattato sul fondo della mia mente e poteva farsi avanti a ogni momento. Proprio in questa occasione mi resi conto di come la mia vita dipendesse totalmente dalla resistenza della solida calma al mio interno, poiché sapevo che sarebbe bastata la benché minima sensazione di timore o paura, e le dita di ghiaccio, che erano come lampi improvvisi di luce nella mia testa, avrebbero invaso il mio intero essere, col risultato della pazzia. Senonché io non avevo nessuna controllo su quel silenzio; esso neppure mi apparteneva, era piuttosto tutto quanto rimaneva di un sé che non c’era più. Per cui la mia sorte era affidata ormai al precario equilibrio fra il silenzio interiore e l’oscuro terrore che poteva a un tratto affacciarsi nella mia mente.

Per evitare ogni possibile confronto, cercai di tenermi molto occupata, il che con quattro ragazzi non era difficile. Già altre volte loro mi avevano salvata perché, malgrado i litigi, le stanze sporche, la musica ad alto volume, mi costringevano a stare coi piedi per terra e le mani occupate. In questo momento, accudirli era tutto quanto dovevo fare.

Data la situazione, occorreva cancellare l’appuntamento per un prossimo ritiro presso i monaci eremiti di Big Sur: solitudine e silenzio erano l’ultima cosa di cui avessi bisogno. Presi dunque il telefono e dissi al frate che non c’era modo di far fare alla mia auto l’erta salita che portava da loro. Lui rise: “Se vedesse che razza di ferrivecchi riescono ad arrampicarsi su per la collina, crederebbe al miracolo; oltretutto se non riesce a farcela, può lasciare la macchina giù, mandiamo frate E. a prenderla.” Non c’era nulla da fare. Potevo mai dirgli di quelle ‘dita di ghiaccio’ che mi seguivano dappertutto? M’avrebbe di sicuro consigliato un ospedale psichiatrico.

Il giorno in cui mi avviai in macchina lungo la costa, un forte temporale investì Big Sur. Dovetti fermarmi due volte e aspettare una schiarita per poter vedere oltre il parabrezza. Dopo la seconda sosta, decisi di fermarmi al primo telefono che avessi trovato e di spiegare ai frati che rinunciavo; se c’era un tempo così quaggiù, figuriamoci che sarebbe stato salire fino in cima alla collina. Sfortunatamente il temporale cessò e prima che arrivassi ai piedi della salita dei monaci il cielo si era totalmente rasserenato.

Decisi di aspettare frate E. che scendeva ogni giorno alle dodici in punto incontro al postino; pensai che poteva venirmi dietro per aiutarmi nel caso avessi avuto problemi. Dopo che l’ebbi aiutato a scaricare la broda per i maiali, dono del convento al contadino confinante, il frate salì in macchina e mi pregò di seguirlo: “Così, se avrà dei problemi, almeno io potrò proseguire!”.

All’inizio tutto andò liscio ma quando arrivammo al tratto più difficile e ripido, il frate tirò il freno, scese, venne da me e mi disse di fare altrettanto perché doveva mettere una nuova lama al trattore, parcheggiato a mezza costa alla nostra sinistra.

Ora io non sapevo se il freno a macchina della mia macchina avrebbe tenuto, e sinceramente non ero neanche certa che avrebbe retto per molto il freno a pedale, per cui gridai: “Mi faccia posto che passo!”. Ma come poteva farmi posto? All’immediata sinistra c’era un ripido terrapieno, a destra un vero e proprio dirupo; era ovvio che qualcuno ci dovesse rimettere. Chi ci rimise fu la mia povera auto, ma superato l’impasse il resto filò a meraviglia.

Una volta su, tuttavia, invece di sentirmi sollevata, vidi come l’intera situazione fosse decisamente comica: dopotutto la mia auto era apparentemente in miglior forma di alcuni dei macinini con cui giravano i frati. In compenso, la strada era stata asfaltata di recente. E così eccomi lì, probabilmente la più riottosa partecipante a un ritiro mai salita lassù: e se avessi saputo quello che mi aspettava sarei tornata subito giù. Nessuno sa mai in che momento e in che posto il destino ha deciso di sferrargli i suoi colpi, e certo sarebbe stato difficile immaginare perché a me sarebbe toccato quassù, sulla collina dei monaci.

I primi due o tre giorni corsero via così lisci che pensai di essermi finalmente tirata fuori dai guai, ma il pomeriggio del terzo o del quarto giorno le dita di ghiaccio si ripresentarono e in un momento di spacconeria decisi di affrontare la faccenda, qualunque fosse. Non potevo continuare a scappare da questa storia tutta la vita, dovevo portarla allo scoperto, guardarla in faccia e venire a patti, poiché non sopportavo più di sentirla in agguato dietro ogni angolo della mia vita quotidiana. Decisi di uscire all’aperto, sedermi da qualche parte e fissarla in viso, finché uno di noi due cedesse il campo, ovvero si togliesse di mezzo.

Non credo di riuscire a rendere l’idea di quello che vuol dire guardare fisso un invisibile orrore senza sapere che cosa sia. Il semplice sapere in che cosa esso consiste può essere quanto basta a difendersi: ma quando uno ha passato in rivista tutto, ma proprio tutto quello che ha un nome senza risultato, deve semplicemente rassegnarsi a non conoscerlo e ad affrontarlo comunque. Questa cosa che io dovevo fissare era semplicemente la sintesi di ogni idea di ‘terrore’, ‘spavento’, ‘paura’, ‘pazzia’ e simili. In una parola era un assassino mentale, psicologico.

Per quanto sapessi che tutto il dramma si svolgeva esclusivamente nella mia testa, la mia mente pensante era quasi istupidita in sua presenza: per questo si aveva l’impressione che la cosa fosse anche esteriore, e potevo personificarla come dita di ghiaccio, simili a dardeggianti tentacoli di luce. Quantunque non fosse localizzata in un punto preciso, era facile fissarla poiché era tutt’attorno a me, non c’era dove altro guardare.

Ci fu un momento in cui pensai che potesse essere un rabbioso, maniacale sé che voleva rientrare. Un altro momento sembrò che fosse solo la paura di un improvviso collasso o il timore della pazzia; ancora, mi dissi che poteva essere solo la menopausa. Ma sono convinta che sapere non sarebbe servito neanche un po’; a quel punto non si poteva fare niente al riguardo: quale che fosse la sua missione nella mia vita, essa stava per compiersi lì e in quel momento.

Quanto più a lungo guardavo quelle dita, tanto più esse si avvicinavano, a volte quasi sfiorandomi, quindi d’un tratto ritraendosi; sembravano, nella mia mente, in costante movimento. All’inizio la mia sola reazione fu la comparsa della pelle d’oca, accompagnata da brividi intermittenti; ma in un secondo momento la mia testa incominciò a bruciare, sembrava che dovesse incendiarsi mentre davanti agli occhi mi sprizzavano lampi di luce, non riuscivo a vedere nient’altro. Quindi sentii i piedi lentamente gelarmisi e la sensazione di gelo diffondersi verso l’alto fino a invadere tutto, tranne la testa. Infine ricaddi indietro contro la roccia in preda a uno stato convulsivo, la testa che mi batteva selvaggiamente.

Sentivo che stavo per scoppiare, per spaccarmi letteralmente in due, ma non mi ero mai trovata in questa situazione e non avevo idea di cosa sarebbe accaduto. Giacqui in attesa, un’interminabile attesa del crack, mentre fisicamente era come fossi andata in frantumi. Dentro, non c’era un solo movimento: né paura, né emozioni di alcun genere. Ogni tanto, cercavo di fissare l’attenzione su questa grande calma, per scoprire che non mi dava nessun senso di forza o di fiducia; era qualcosa di altrettanto estraneo di una mosca che mi ronzasse sulla testa. Era come se il mio corpo fosse stato lasciato a sopportare l’urto di un assalto cui né la mente né le emozioni potevano partecipare. Pure, se questi fossero stati presenti, il risultato avrebbe potuto essere peggiore, non so. Ma le mie condizioni fisiche erano talmente terribili, che neanche per un momento dubitai che solo un miracolo potesse salvarmi; al tempo stesso non è che lo aspettassi, e neppure ci speravo; e del resto la mia mente non sarebbe riuscita a formulare la benché minima preghiera. Tutto ciò che volevo era uscire da quell’incubo, morendo se necessario.

Non avvertii in che momento esattamente quell’orrore finì, perché la cosa seguente di cui ebbi coscienza fu una profonda tranquillità in cui non c’era alcuna sensazione fisica in assoluto. Dopo un po’, qualcosa dovette farmi voltare la testa. Mi trovai a guardare, dritto ai miei occhi, un piccolo fiore di campo giallo, non più distante di trenta centimetri.

Non so descrivere quell’attimo di visione; le parole non possono renderlo. Diciamo solo che sorrideva… un sorriso di benvenuto proveniente dall’intero universo. Davanti all’intensità di quel sorriso non restai accecata, né il corpo fisico dovette sottrarsi all’impatto; finalmente riuscii a resistere all’enorme intensità.

Mi ci volle un po’ per rendermi conto che il mio corpo stava ancora sdraiato sulla collina perché, in un primo momento, sembrava che non avessi un corpo. Per quel che ne sapevo, avrei potuto essere un filo d’erba o un sasso della collina. Dopo un po’ tuttavia il corpo divenne evidente e decisi di provarlo, per vedere se avesse intenzione di rimettersi in movimento. Ancora una volta si mosse senza pensiero, solo che questa volta il ritorno della sensibilità fisica fu accompagnato da una leggera scossa. Quando mi fui alzata in piedi, fu gratificante sentire il corpo rilassato come se nulla fosse accaduto. Così risalii la collina esattamente come ne ero discesa: ma questo solo fisicamente, perché in realtà qualcosa se n’era andato giù per la collina e non sarebbe tornato mai più.

Tranne che per l’assenza di quella cosa orribile, che non rividi mai più, rifeci la mia strada senza provare alcun senso di reale esistenza. Sebbene cercassi ovunque in quello che avrebbe dovuto essere il mio organismo, avevo ora la sensazione che questo non avesse una propria sostanza, nulla più di cui non avessi sperimentato che poteva dissolversi o scomparire all’improvviso senza lasciare nulla al suo posto. Quanto a ‘quello’ che restava, non avevo alcuna idea di cosa fosse, dove fosse o perfino se ci fosse. Sebbene ovviamente qualcosa si arrampicasse su per la collina, solo molto più tardi ne avrei scoperto la vera natura; per il momento, tutto ciò che sapevo era che c’era stato un grande cambiamento.

Oggi, guardandomi indietro, riesco a vedere quello che accadde sulla collina come un’iniziazione a quello che avrei chiamato il Grande Passaggio, uno stato insolito di esistenza che sarà descritto nel capitolo seguente.

Alcuni giorni dopo questo evento, mi trovai a lamentarmi con padre L. del fatto che non riuscivo più ad avere il controllo della mia esistenza. Egli mi chiese: “D’accordo, ma che ne dici della tua esistenza empirica, del tuo sé empirico: è qui seduto a parlare con me o no?”. “Esteriormente sembrerebbe di sì”, gli risposi, “ma se chiudo gli occhi non riesco più a vederlo”. Gli spiegai quindi come, durante la preghiera e in ogni momento in cui non facevo nulla, il mio corpo si dissolvesse, o così sembrava, tanto che se non ci tenevo gli occhi puntati non ero sicura di avercelo. A questo punto egli alzò le braccia al cielo, esclamando: “Oh Dio, è una cosa dell’altro mondo!”. Ma mentre io continuavo a lamentarmi, restò lì a meditare su che ne sarebbe stato della teologia scolastica se la scienza avesse provato che non esisteva niente come una sostanza permanente nella materia.

Finalmente mi scoprii a cercare di rassicurarlo. Gli suggerii che il concetto dell’uomo come materia in conflitto con lo spirito poteva rivelarsi l’opposto di quello che si era tradizionalmente creduto; vale a dire che Dio poteva rivelarsi come pura materia (ovvero sostanza permanente) e la materia come puro spirito (o Dio): in altre parole materia e spirito potevano essere in realtà la stessa cosa. Con questo intendevo dire che era possibile che lo scienziato fosse il contemplativo, o il pesce d’altura che s’affanna a nuotare in cerca del Mare in cui già si trova; mentre viceversa il contemplativo poteva rivelarsi l’inconsapevole scienziato che, senza rendersene conto, ha già incontrato la sostanza permanente.

Ma il padre non m’ascoltava: era partito per uno dei suoi trip mentali d’ordine teologico e io sapevo dove sarebbe finito. Alla fine sarebbe rimasto con un pugno di mosche in mano e a quel punto sarebbe semplicemente restato lì seduto a guardar fuori dalla finestra, in alto la collina, in basso il mare aperto, in cui ogni teoria e ogni pensiero finisce inevitabilmente col dissolversi e sparire. Lo lasciai quindi a scoprire i propri vicoli ciechi e continuai per la mia strada a cercar di capire come poteva succedere che il proprio corpo fosse ben visibile ed evidente fintato che si tenevano gli occhi aperti, ma se ne perdesse ogni traccia nel momento in cui si chiudevano gli occhi.

Dovrei forse aggiungere che il continuo dissolversi del corpo era molto diverso dalle esperienze extracorporee di cui ho sentito parlare. Evidentemente, queste esperienze rivelano una divisione fra il sé superiore e quello inferiore, laddove nella mia esperienza non c’era una divisione del genere; evidentemente non c’era più un sé che potesse dividersi. A causa di queste esperienze, tuttavia, alla fine giunsi a considerare il corpo, come del resto ogni forma visibile, come qualcosa di etereo e illusorio; e poiché la stessa forma è composta di una sostanza inconoscibile e impalpabile che permane stabilmente al di là di qualsiasi cambiamento, mi sembrò che fosse questa sostanza quello che rimaneva in assenza del sé. A ogni modo, l’intera motivazione empirica dell’esistenza del sé perse consistenza una volta per tutte in seguito all’esperienza fatta sulla collina e a tutt’oggi resta irrecuperabile.

Prima di avventurarmi oltre, devo notare che ci fu una curiosa ironia nel fatto che l’evento di cui ho detto avvenisse proprio sulla collina dei frati. Un paio d’anni prima, quando i frati avevano aperto la propria casa-ritiro alle donne, le aspiranti al ritiro dovevano ottenere prima il permesso del priore del monastero: in altre parole dovevano passare un esame. Allo scopo io feci un viaggio speciale sulla costa per incontrare il padre priore, il quale, dopo avermi benevolmente concesso il permesso, mi chiese: “Mi dica, cosa spera di ottenere da un ritiro con noi?”. Gli dissi che non sapevo con certezza, ma che durante l’ultimo anno avevo sentito, intimamente, come se stessi preparandomi a una grande esplosione… Di colpo, egli s’irrigidì sulla poltrona: “Per l’amor di Dio, non lo faccia qui!”, esclamò, “Stiamo giusto cercando di abituare i frati ad avere donne intorno e questo rovinerebbe, letteralmente brucerebbe, la cosa per tutti!”.

Bene, non avevo idea di che cosa il padre priore pensava io intendessi con ‘grande esplosione’, ma sapendo che prima di farsi frate era stato dottore in chimica, pensai che dovesse aver avuto qualche brutta esperienza che aveva impresso il suo marchio su ogni altra connotazione del termine. Parlando di grande esplosione io avevo in mente un meraviglioso sboccio spirituale, preferibilmente con implicazioni creative. Mai nei miei sogni più folli avevo sospettato che il mio sé stesse per esplodere in un milione di pezzi, per non ricomporsi mai più. Un’aspettativa del genere non era contemplata dalla mia agenda cristiana, e quanto al fatto che dovesse realizzarsi sulla collina dei frati… certo sarebbe stata una disgrazia per tutta la Chiesa. Ma come ho detto, non si sa mai quando e dove il destino ci raggiungerà. Che io dovessi incontrare il mio proprio sul colle dei frati fu certo una sorte ironica, un’eventualità che non avrei potuto prevedere, ma che comunque non andò perduta.

Bernadette Roberts

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Fonte: http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/misticacristiana/broberts.htm

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