Bernadette Roberts: L’esperienza del non-sé. Cap. 6

L’esperienza del non-sé. Capitolo 6

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Si era verso la fine dell’inverno e le acque fangose del fiume erano ostruite dai detriti bruciati di un incendio montano che risaliva a due anni prima. Ogni giorno, mio figlio ed io sostavamo sulla riva a misurare l’altezza delle acque rigonfie, dopo di che lui, che aveva buoni occhi e un lancio robusto, si divertiva a prendere di mira coi sassi i leggeri pezzi di legno che l’acqua portava con sé. Un giorno però lui tardava a venire, per cui scesi giù e mi sedetti sul greto, osservando il bosco morto nella sua rapida discesa verso il mare. Senza alcuna ragione o alcuno stimolo, un sorriso mi affiorò in volto e nel frammento di secondo del riconoscimento ‘vidi’: finalmente vidi e seppi che avevo visto. Ne fui certa: il sorriso, ciò che sorrideva e ciò a cui il sorriso era rivolto erano Uno: altrettanto indistinguibilmente uno quanto una trinità indivisa. E quello che vidi fu semplicemente che la realtà era questa. Non ci fu intuizione, visione o movimento di sorta: fu un vedere naturale e spontaneo come un sorriso su un viso, nient’altro. Nel mio diario definii il fenomeno ‘il sorriso di riconoscimento’.

Dal momento che quello che avevo visto non poteva essere trattenuto e afferrato dalla mente, continuai a guardare il fiume, via via che sospingeva avanti i detriti e scorrendo lavava le rive, nel suo deciso fluire verso l’incontro col mare. Più tardi feci una passeggiata e vidi che, quantunque il Grande Passaggio fosse ormai superato, ogni cosa sembrava uguale a sempre. Niente era cambiato ed era un bene vedere che le cose stavano così. Se c’era qualcosa di miracoloso e spettacolare in quel mio vedere, questo era il fatto che tutto era come sempre e che niente era cambiato. Questo voleva dire che anch’io ero come sempre ed ero arrivata alla fine del passaggio restando normale, integra e sana di mente. Ero riconoscente per questo; era quasi troppo bello per essere vero. E insieme, come poteva essere diversamente quando ‘quello’ che resta alla fine del passaggio è Esso stesso normale, integro e sano?

Può sembrare strano che provassi più gioia per essere uscita dal passaggio che per quello che al suo interno era stato rivelato. Bisogna capire però che non potevo essere felice per quello che era stato rivelato dal momento che non riuscivo ad afferrarlo e dargli credito. Era così assolutamente semplice, così completamente ovvio e così totalmente soggettivo che era impossibile capire perché non l’avessi visto prima; al tempo stesso non si vede come avrei potuto giungere a quel vedere di mia spontanea iniziativa. Doveva essere rivelato.

Quello che appresi fu che lo sconosciuto oggetto del sorriso era identico al soggetto; non solo, ma lo stesso sorriso era identico all’uno e all’altro. E che cos’è il sorriso? È ciò che resta quando non c’è il sé. Il sorriso non è lo sconosciuto soggetto né lo sconosciuto oggetto e insieme è identico a essi. Esso è l’aspetto manifesto dello Sconosciuto. Le implicazioni di questo ‘vedere’ sono spaventose; al tempo stesso esse si sottraggono alla comprensione della mente.

Di conseguenza, la piena portata di quella particolare percezione non era immediatamente evidente. Per quanto la pressione dietro gli occhi non si ripresentasse più e la mia mente godesse di un naturale silenzio, la vita proseguì come in passato; non avevo la coscienza di un reale cambiamento. Ed ecco che, circa una settimana dopo, mentre correvo a prendere un autobus mattutino, l’abituale vuoto fu rimpiazzato da qualcos’altro, qualcosa che non si situava nello spazio come una presenza, ma sembrava più diffuso e intenso della stessa Unità che avevo visto con le lenti tridimensionali. Lì per lì considerai la cosa come un totale inganno, uno scherzo della mente; tra l’altro arrivava troppo tardi, ormai ero al di là di quel tipo di lusinghe che in passato non mi aveva procurato che guai. Così ignorai la cosa, mi rifiutai di darle spazio e attenzione, e se avessi avuto un sé, avrei probabilmente provato a suo riguardo una sensazione di sdegno. Continuai a camminare guardando dritto avanti, e andai al lavoro.

Ma anche ‘quel qualcosa’ andò al lavoro e mi accerchiò al punto che mi riuscì difficile distrarne gli occhi. La cosa andò avanti per parecchi giorni, finché capii che quanto più cercavo di ignorarlo tanto più esso mi avrebbe forzato a guardarlo. Perciò alla fine guardai: questo bastò perché subito dileguasse e svanisse, ma nello stesso istante in cui svanì seppi perché.

Non si può guardare ciò che È, perché questo non può diventare un oggetto della mente; né d’altra parte può essere un soggetto. Ciò che È non può per sua natura essere in nessun caso soggetto né oggetto. Così, nel momento in cui lo guardiamo con la nostra mente condizionata (funzionante sulla base del rapporto soggetto-oggetto), ciò che È sparisce: abbiamo tentato di farne un oggetto, e questo è impossibile. La mente relativa non può percepire questa realtà, solo una mente non condizionata la vede, perché ciò che È è ugualmente non-riflessivo e non-autoconscio. Dal momento che ciò che È è tutto ciò che esiste, non c’è nulla che esso debba vedere fuori o dentro di sé; di conseguenza non possiede niente che equivalga a una mente relativa, riflessiva, autoconsapevole.

Né esso è nella maniera più assoluta una mente o una coscienza, poiché nessuno sa che cosa è ma solo che esiste. Quindi, una volta che ci saremo liberati di una mente riflessiva, relativa, autoconsapevole, allora e soltanto allora potremo incontrare ciò che È: quello che vede e che viene visto e l’atto stesso del vedere sono Uno.

Apparentemente la pressione a guardare era una pressione sulla mente relativa, presumibilmente messa fuori uso durante il Passaggio, quando non era in grado di focalizzare o trattenere in sé un solo oggetto. Così, quando infine all’improvviso fui messa di fronte a qualcosa da guardare, ci fu una sorta di riluttanza mentale a farlo. Era come mi fosse stato chiesto di indietreggiare o di guardarmi indietro: ero estremamente diffidente rispetto a un’azione del genere; dopotutto non volevo imbarcarmi in altri viaggi, se non era necessario. Ciò nonostante, il mio guardare finale servì un grande scopo, e determinò il cambiamento per cui il vedere iniziale sulla riva del fiume non poteva bastare.

Aver realizzato che ciò che È non può essere visto da una mente relativa né divenire un suo oggetto significò aver trovato la chiave meravigliosa e unica per vederlo costantemente. Non dovevo guardarlo in nessun modo. Fu come se il momento della sua scomparsa avesse segnato anche il definitivo e completo abbandono del campo da parte della mente relativa; ed ecco che questo aprì la strada a un nuovo modo di vedere, conoscere e agire; perché ora avevo la chiave. Ora riuscivo a comprendere e, comprendendo, potevo gioire. Sembra che, fintanto che è viva e vitale, la mente abbia bisogno di entrare in una qualche forma di comprensione, altrimenti la più grande rivelazione, pur non passando inosservata, non potrebbe entrare nella pienezza della sua manifestazione umana. Dopo tutti i mesi di tortura per la mancanza di conoscenza, poter sapere appena qualcosa, per quanto incompleta, era una rivelazione in se stessa.

Una delle cose che compresi fu che ciò che È non è soggetto all’alternanza dell’andare e venire; al contrario, ciò che va e viene è il tipo di mente relativo che è intimamente connesso col sé, e spontaneamente non è in grado di uscire mai da sé stesso. Ma una volta che il sé scompare, questa mente riflessiva e autoconsapevole lo segue, e quello che resta è ciò che È. Non si è più in grado di guardare all’esterno e scorgere relazioni, e non si vede più il vuoto. Tutto quel che si vede è ciò che È, e questo può essere a volte estremamente intenso, anche se non è qualcosa di estatico, ineffabile o trascendente. Al contrario è ovvio, naturale e quasi comune perché è quello che vediamo ovunque guardiamo. E insieme, com’è difficile capirne il meccanismo! In ogni caso, sebbene esso sia tutto, c’è una cosa che non è: il sé, che blocca la visione di ciò che resta quando il sé è scomparso, vale a dire di ciò che È.

È questo in conclusione ciò che scoprii alla fine del passaggio; una volta che cominciai a vedere, una nuova esistenza mi si aprì davanti. Ci furono ancora mesi di adattamento, durante i quali feci molte scoperte, la cui natura non è facile comunicare, quantunque debba provarci.

La scoperta chiave è quello che io chiamo ‘fare’: un’attività non riflessiva, priva di sforzo, che va distinta dal tipo di attività deliberato e consapevole, per cui occorre costante sforzo e controllo. Per questa ragione, il fare non ha niente a che vedere con quello che possiamo produrre coi nostri sforzi e con le nostre energie personali; al contrario, è quello che segue automaticamente quando ogni sforzo ed energia personale è cessato. L’espressione ‘privo di sforzo’ si riferisce al fatto che nell’azione non è coinvolta alcuna energia del sé, per quanto a livello fisico ci si possa ammazzare di fatica.

Per capire la differenza tra il fare e i precedenti modi di attività occorre rifarsi al processo di condizionamento cui ogni bambino è sottoposto dai propri genitori. In questo caso l’attività investita nel sé sfocia nel vuoto perché lì non c’è nulla; mentre con l’attività in cui non c’è autoinvestimento o autoconsapevolezza c’è qualcosa: questa attività non è vuota ed è quel che io chiamo ‘fare’. Il motivo per cui uso questo termine è che chi fa, così come l’oggetto del fare, appartengono al regno dello sconosciuto; soltanto l’atto del fare rientra nell’ambito del noto. Noi non conosciamo ‘quello’ che sorrideva, né a ‘che cosa’ sorridesse; tutto ciò che conosciamo è il sorriso, per quanto le tre cose siano identiche. Questo significa che ciò che È può essere conosciuto esclusivamente per la sua identità con i suoi atti (o il suo fare).

Inizialmente il processo di apprendimento della differenza esistente tra il fare e l’attività centrata sul sé può essere paragonato al camminare su un asse d’equilibrio, in cui il fare significa avere i piedi direttamente piantati sull’obiettivo, così che si cammina sul solido. Il non-fare, ossia l’attività investita nel sé, significa non trovare una presa, non avere nulla sotto i piedi. All’inizio si procede lungo l’asse per tentativi ed errori, ma alla fine camminare sull’asse diventa una seconda natura: o meglio, si comincia a scoprire che fa parte della nostra vera natura ed è il modo in cui dovremo camminare per il resto della nostra vita. Di conseguenza quando, per così dire, sentiamo sotto i piedi la presenza di qualcosa, sappiamo di stare sull’asse, di vivere e agire alla maniera giusta e naturale; quando viceversa sotto i piedi abbiamo il vuoto, siamo fuori dall’asse e non c’è più un vero fare. Si può dunque dire che il fare è la manifestazione di qualcosa, o di ciò che È, mentre il non-fare, l’attività investita nel sé, è la manifestazione del nulla in assoluto. Quando durante il viaggio l’accento era caduto sull’assenza del sé, quell’esistenza priva di sé era stata vista come sempre più vacua, vuota e del tutto inservibile. Ma quando l’esistenza priva di sé scompare del tutto, quello che resta è il fare, che è come un asse, una guida e quel qualcosa che coincide con ciò che È.

Il contenuto del fare, vale a dire ciò che facciamo, è tracciato via via dall’inconoscibile direzione dell’asse, che è stretta e diritta e non tollera giri tortuosi. Una volta sull’asse noi non siamo più liberi di andare e venire, in quanto è solo il sé che gode di questa libertà. Una condizione priva di scelta non conosce i comuni attributi della libertà; qui c’è soltanto la libertà dal sé, che si scopre non essere affatto libertà. Chi c’è, a essere libero? Chi c’è a scegliere e provare, a porre i traguardi e tracciare il sentiero? Chi era libero ormai è svanito e quello che resta cammina ora sull’asse, al pari di un albero che, privo di pensiero, deve crescere e vegetare secondo una direzione predisposta dalla sua natura, una natura tanto intelligente da restare per sempre totalmente inconoscibile alla mente umana. Così, sapere cosa fare o dove mettere i piedi è un problema che non esiste: quello che si deve sapere semplicemente c’è e quello che non si sa non c’è. In altre parole il ‘che fare’ è strutturato nell’asse stesso, così che il fare è identico al suo contenuto, a ciò che esso fa. Ed ecco che conoscere, vedere, fare sono uno e un solo atto senza alcuna frattura che li divida.

Ciò che un tempo creava la divisione tra il fare e il suo contenuto era il sé con tutte le sue scelte, i valori, i giudizi, le idee e tutto il resto, il sé che non salirà mai sull’asse né potrà mai trovarlo, poiché è bloccato da tutte le sue cosiddette libertà. Non sapere cosa fare, cosa pensare, cosa dire, come vivere è infatti, per contrasto, uno stato di perpetua confusione. Mentre su quest’asse ciò che È procede secondo una sicura, irrevocabile, inconoscibile direzione, col risultato che il conoscere e il fare coincidono. E tuttavia questo modo di conoscere è assolutamente insolito, in quanto non proviene da una mente pensante e riflettente: accade invece che ogni cosa che ci si trova davanti è nota o ignota, e in questa condizione molte cose che in passato non si sarebbero potute conoscere e neppure vedere appaiono evidenti e chiare. Come questo possa accadere non so, ma che in assoluto accada è fonte di grande stupore e fa parte integrante della chiarezza di mente che diviene possibile una volta sull’asse: una volta che si diventa tutt’uno con ciò che È.

Una seconda scoperta, anche questa realizzata negli ultimi mesi del viaggio, fu l’incontro con la mente silenziosa. Per quanto avessi dimestichezza con molti tipi di silenzio e avessi pensato spesso di sperimentare una mente silenziosa, questo ultimo silenzio era assolutamente unico e diverso da ogni altro prima incontrato. Dato che vorrei descriverlo in dettaglio più avanti (visto che è così difficile farlo capire), per ora dirò soltanto che la mente silenziosa sembra una mente priva di coscienza autoriflettente, quantunque in possesso di tutte le altre sue funzioni. La ragione per cui il sé non può pervenire coi suoi sforzi a questo silenzio è che lo stesso silenzio è ciò che resta quando ogni autoriflessione e autoconsapevolezza si estingue. Così si spiega il fatto che non avessi mai incontrato questo silenzio prima di intraprendere il viaggio e che lo abbia riconosciuto per quel che è solo alla fine. Un’altra cosa che scoprii alla fine fu che effettivamente il fare prende il posto del pensare e di conseguenza lascia la mente ordinaria in silenzio.

È difficile rendere giustizia alle tante scoperte rese possibili dal viaggio, ma voglio soffermarmi su quelle che risultarono più sorprendenti e, all’inizio, un tantino sconcertanti.

Una di queste fu la scomparsa del senso estetico o di quel particolare senso di ordine, bellezza, armonia che troviamo nell’ambiente che ci circonda. Come appassionata di musica classica, convinta da sempre che la musica potesse durare oltre le sfere celesti, fui sorpresa di scoprire che il silenzio, come anche il semplice suono della natura, supera le opere dei più grandi maestri. Sebbene non sappia come spiegarlo, a un certo punto la musica diventò rumore e il silenzio diventò armonia.

Notai anche che quando diventava impossibile mettere a fuoco l’individualità e la singolarità degli oggetti, tutto il senso della loro armonia complessiva spariva. Invece i contenuti del conosciuto, con le sue leggi e le sue regole ben chiare, con il suo ordine, ora venivano visti come un tutto unico, uno spontaneo slancio di vita che, come una singola nota tenuta, poteva facilmente dissolversi se la tensione cadeva. Per cui nulla si può predire. Ciò che è manifesto non è soggetto ad altra regola o legge all’infuori di se stesso, per quanto semplice e ovvio sia il suo disegno esteriore.

Per sua stessa natura, questo modo di vedere ebbe come risultato uno stile di vita semplificato. In assenza della bellezza, a nessun oggetto può essere attribuito più valore che a un altro, di conseguenza ogni possesso che non sia strettamente utilitario diventa bagaglio in eccesso. La cella più spoglia e la semplice vita dei boschi ora mi colpivano come l’unica scelta autentica di vita e, non fosse stato per i figli, avrei gettato tutto al vento e mi sarei ritirata dal mondo. Una conclusione così ascetica può sembrare mortificante, ma in realtà quando niente è bello in particolare, diventa bello tutto, di una bellezza che non abbiamo bisogno di possedere perché siamo già parte di essa e posseduti da essa. In realtà, la grande bellezza di ciò che È è la sua Unità. Ecco, l’Unità mette in ombra la particolarità della forma, rendendo possibile vedere, oltre l’apparenza, la cosa in Sé.

Un’altra scoperta la feci quando mi resi conto della necessità di assumere una qualche parvenza di autocoscienza. La cosa mi fu chiara quando, dopo aver passato una giornata fuori di casa e in mezzo alla gente, scoprii che al mattino m’ero dimenticata di pettinarmi e sembravo una strega. In seguito a questo fatto, stesi un programma organico per cercare di ricordarmi di me stessa: in realtà, per ricordarmi di tutto.

Alla fine del Passaggio ero certa che la mia memoria fosse stata danneggiata definitivamente. Non era comunque una mancanza di memoria, era piuttosto un fatto di cadute temporali, come se interi spezzoni di tempo mancassero dal normale fluire della vita. Per quanto tentassi di trovare qualche metodo compensatorio per garantirmi contro queste cadute, niente funzionò. Sulla lunga distanza, il tempo si prese cura di sé, poiché la memoria pratica gradualmente tornò e io fui sollevata dall’impossibile sforzo del dover ricordare.

Evidentemente con la scomparsa dell’autocoscienza ci fu anche una certa perdita di coscienza corporea. Questo può spiegare la continua sensazione di dissoluzione della forma fisica che provai durante la seconda metà del viaggio. Col tempo mi sono adattata a vivere in questo modo, senza una precisa coscienza della forma. In una certa misura, questo comporta avere maggiore cura del corpo che in passato, visto che ora il corpo non mi dice nulla. Sebbene il dolore fisico sia ancora avvertibile, non so più cosa sia sentirsi stanca, riposata, soddisfatta, appagata e cose del genere: in qualche modo queste sensazioni familiari devono avere un’invisibile connessione con la coscienza di sé. E per questa ragione prendersi cura del corpo finisce col non differire molto dal prendersi cura di una pianta: quando sai che ha bisogno, d’acqua, di nutrimento, di sole, le dai quel che serve. Non puoi ‘sentire’ al posto della pianta, ma se possiedi spirito d’osservazione e sai qualcosa del suo funzionamento non c’è problema a mantenere una forma corporea, pur soggetta a un costante processo di cambiamento e ai limiti del tempo. Sebbene consideri il corpo assolutamente reale, trovo tutte le forme che compongono l’universo estremamente fragili o quanto meno delicate, dal momento che possono dissolversi tanto facilmente nell’unico Esistente, a parte il quale nessuna forma ha un’esistenza individuale sua propria.

Ho detto in precedenza che mi domandavo spesso se la calma indistruttibile che c’era al mio interno non potesse essere Dio. Credo che in qualche modo fossi convinta che un giorno o l’altro il silenzio del non-sé si sarebbe fatto da parte e avrebbe rivelato il grande Sconosciuto, il Divino, la cui invisibile presenza mi era dolorosamente mancata durante l’assenza del sé. Ma con la perdita definitiva della coscienza di una qualsiasi calma interiore, abbandonai l’idea, dal momento che neppure il silenzio del non-sé sembrava più esistere. Tuttavia, una volta che il viaggio fu terminato, o quando realizzai che Dio non si lascia sperimentare sullo stesso piano delle esperienze relative del sé, vidi come in realtà era possibile che fosse stato Dio tutto il tempo. Sembra che dovessi prima riconoscere che quella stessa calma e quello stesso vuoto pervadono ogni cosa, non soltanto me, per poterli vedere come il legame di connessione fra tutto ciò che È. Di conseguenza, soltanto quando vidi come fosse assolutamente impossibile localizzarlo dove che fosse, mi resi finalmente conto di come questo grande silenzio fosse tutto e dovunque; e sia in verità ciò che È.

Per molti versi questo viaggio può paragonarsi a un albero: un albero d’improvviso abbattuto ma non ancora morto. La linfa, il sé, scorre ancora nelle sue vene e solo gradualmente e lentamente finirà con l’arrestarsi. All’inizio, l’albero sperimenta semplicemente il rifluire e venir meno delle proprie energie vitali e si stupisce del fatto che, pur svuotandosi, in qualche modo continua a vivere. In tal modo scopre che quello che una volta riteneva essenziale per vivere, la linfa, in realtà non è affatto essenziale, poiché anche quando la linfa se n’è completamente andata egli non muore. Ma il processo del morire dell’albero alla sua normale maniera di vivere presenta una differenza rispetto al viaggio: poiché l’albero non sa mai se o quando è morto, in quanto non sperimenta mai l’afflusso di una nuova vita via via che la vecchia vita defluisce. Per me questo fu l’aspetto più disorientante del viaggio. M’ero fino in fondo aspettata che, dal momento che il sé scompariva lasciandomi vuota, una forma di vita divina sarebbe apparsa a colmare il vuoto. Quando questo non avvenne mi sentii dolorosamente persa.

Oggi, a distanza, comprendo appieno il significato di ciò che sosteneva con insistenza Giovanni della Croce parlando ai suoi studenti: che Dio non può mai essere realmente sperimentato dalle facoltà dell’uomo. Dunque ciò che sperimentiamo di Dio siamo francamente noi stessi: infatti, questo è il solo mezzo che abbiamo per sperimentarlo. La mente, le emozioni, i sentimenti, in una parola tutte le nostre esperienze di vita interiore sono semplicemente le nostre reazioni a ‘quello’ che non possiamo conoscere, vedere, sperimentare in altro modo. Quante volte, a questo punto, abbiamo scambiato noi stessi per Dio? O magari scambiato Dio per noi stessi? C’è solamente un modo per scoprirlo ed è di non avere nessun sé in assoluto. Dal momento che il sé non può sperimentare Dio come egli È in realtà, l’unico modo per raggiungere questo obiettivo è di essere pronti ad abbandonare fino in fondo tutto ciò che conosciamo come sé.

Questo spiega perché non si sperimenti nulla che somigli ad un afflato divino o a un sostituto a immagine di Dio dopo che il sé è svanito: infatti non è questa l’esperienza di Dio stesso, che non è autoconsapevole e non sperimenta alcun afflato divino. Forse è per questo che talvolta ci riferiamo a Dio come al grande vuoto o al nulla, ma Dio non è questo, assolutamente. Quello che chiamiamo vuoto e nulla è semplicemente un concetto e un’esperienza relativa, come il passare dal positivo al negativo prima che entrambi scompaiano definitivamente e che tutto quel che resta sia ciò che È.

E tuttavia, se c’è un aspetto del viaggio che vorrei veramente mettere in risalto questo è l’evidente necessità di venire infine a patti con quel nulla e quel vuoto dell’esistenza che a me sembrarono l’equivalente del vivere, una volta che mi trovai senza Dio o un qualche suo sostituto. Soltanto quando accadde questo, solo quando l’adattamento a una vita senza realtà ultima fu completo, quando non restò più né speranza né fede, solo quando dovetti finalmente accettare l’esistente, realizzai all’improvviso che l’esistente è la verità stessa e tutto ciò che È. Dovetti scoprire che è solo quando ogni singola idea ed esperienza interiore, conscia ed inconscia, si è estinta, completamente estinta, che la rivelazione della Verità diventa possibile.

Quantunque non abbia potuto stabilire con precisione quando il viaggio si sia concluso, tendo a calcolarne la fine in coincidenza col momento in cui non riuscii più a scorgere relative differenze fra l’avere il sé e il non averlo, o col momento in cui mi venne a mancare del tutto la sensazione della quiete interiore. Originariamente, la consapevolezza del non-sé era semplicemente la consapevolezza dell’assenza del sé con tutte le sue abituali reazioni, sentimenti, emozioni, pensieri, esperienze. In questo senso, la consapevolezza del non-sé è puramente relativa a ciò che è stato il sé. Ma via via che, col processo di adattamento e aggiustamento a un nuovo modo di vivere, la distanza fra i due aumenta, l’antica vita-col-sé sbiadisce sempre più fino a svanire del tutto: e con essa sparisce il relativo contrasto. Questo significa che non si è più consapevoli del silenzioso, calmo, imperturbabile non-sé, che è stato tanto necessario per compiere il viaggio, particolarmente nel Grande Passaggio. Così, con lo svanire del non-sé seppi che il viaggio era finito; oramai era soltanto un evento passato: e come tutti gli eventi passati, via via che recede nella memoria e perde la sua importanza per il qui e ora, esso sempre più impallidisce e si spegne. (Fine)

Bernadette Roberts

Fonte: http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/misticacristiana/broberts.htm

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