Bodhananda: Il morto a galla.

Il morto a galla.

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Dialogo iniziale tra interlocutore A e B.
Bodhananda: R. (risposta)
Le risposte di Bodhananda (R) si inseriscono nel dialogo iniziale tra A e B.

A. È viva la sensazione di vuoto e delusione: ma allora i buoni libri, le parole del Maestro, la meditazione, la stessa lista su cui scriviamo sono anche loro strumento di trastullo mentale, un rifugio dallo stress e dal dolore di vivere?

B. Sì, perché pensavi fosse diversamente? Forse occorre capirci sul termine “trastullo mentale”, senza volergli dare connotati necessariamente negativi, ma inteso quale semplice uso e talvolta abuso mentale, allora sì, tutto ciò rientra nell’esercizio della mente.

Il Buddha sosteneva che la vita è (ahimè fin troppo spesso) dolore e, quindi, che la soluzione a tale sofferenza va ricercata nelle sue radici, la mente. Come vedi, abbiamo i tre termini classici di ricerca: il mentale, la vita, la sofferenza.

Veramente, la vita e la mente sono termini equivalenti, sostenere che la vita è sofferenza equivale a dire che la mente è sofferenza. La vita, in fondo, cos’è se non lo specchio della mente?

Se vi è sofferenza nella vita è perché essa è nella mente e viceversa. Cosa sto cercando di dire con questo discorso contorto? Quando Raphael, in quel brano sull’abulia del discepolo, afferma che: “C’è comunque una posizione ottimale che potrebbe salvarlo: fare il “morto a galla”, abbandonarsi, o “mollare la presa” in modo attivo, consapevole, allora, le onde non solo lo salvano, ma lo cullano persino”, sostiene in fondo, a mio vedere, che è la vita stessa che può cullarti, o, se preferisci, la mente, il mentale. Cioè il mentale-vita cessano di essere termini antagonisti, di scontro e divengono invece degli alleati, degli strumenti d’uso quotidiano.

R. Il punto è proprio questo, la mente, non a torto, è definita organo interno, è uno dei tanti strumenti che l’ente utilizza nel rapportarsi (vivere) su alcuni piani di esistenza.

Un neofita crede di esistere perché pensa: “Cogito ergo sum”; egli vede se stesso come l’unità pensante e, pertanto, si identifica con la mente. Noi non siamo la nostra mente, né più né meno, come non siamo il nostro ego, le nostre memorie o il nostro carattere.

Notiamo bene infatti come, nello stesso linguaggio, per indicare queste cose necessitiamo l’utilizzo degli aggettivi possessivi mio, nostro, etc. Proprio il fatto di usare il termine “mio ego”, ci mostra che esso ci appartiene, è quindi un avere e non un essere, “io non sono l’ego, piuttosto, lo possiedo”.

Il credere di essere l’ego, fa sì che sia l’ego a possedere noi. Siamo schiavi della personalità, della mente, dei ricordi, dell’ego, ma ognuno di noi non è nulla di tutto ciò. Crediamo che non sia possibile vivere senza la mente o senza l’ego o la personalità.

Cos’è la mente? Potremmo definirla come la capacità di inferenza, così come definiamo il nostro corpo grossolano come la capacità di percepienza.

O meglio, la mente e il corpo sono le due guaine che permettono queste capacità. Ma come la percepienza ci dà solo la possibilità di ammettere l’esistenza oggettiva di un oggetto, così l’inferenza ci permette di collegare fra loro diverse percepienze.

Ma chi o cosa sta dietro tutto questo? È proprio la natura dell’essere. È quell’”io sono” che normalmente con l’inferenza associamo a “sono un uomo”, “sono cattivo”, “sono un avvocato”, “sono un taverniere”.

Si dice che il verbo essere sia la copula che unisce il predicato al soggetto, ma il soggetto, in realtà, non è certo l’io, ma proprio l’essere. È l’essere in esistenza che permette la possibilità della percezione e quindi dell’inferenza. Sono tutti strumenti dell’essere, ma l’essere non necessita di questi per esistere.

Questo è quanto afferma la Tradizione, ma è anche l’esperienza di questo ente, per limitata che sia, poiché sino ad oggi non ho trovato alcun punto in cui ci sia contraddizione fra quanto esperisco e quanto la Tradizione afferma.

Forse c’è stata la fortuna di esperire prima di conoscere e quindi è stato facile poi sposare la Tradizione, avendola già svelata prima.

Ovviamente questo è pur sempre un punto di vista personale, cioè nulla toglie che un domani possa esserci altro, ma non saprei proprio da dove questo altro possa venire, dove possa andare e chi possa mai esperirlo. Ma questo è un altro paio di maniche.

Il punto è che la regola che abbiamo cercato di darci nella mailing list, ossia esporre solo quanto è esperito e non concettualizzato, vale a maggior ragione per il sottoscritto.

Posso comprendere che ci sia timore ad affrontare un percorso interiore che non incensi e che dia ben poche soddisfazioni, se non quella dell’auto-conoscenza, ma è un percorso (volendolo così definire, per amore del linguaggio) che comunque non è oscuro e per quanto solitario possa sembrare, esso è stato già percorso da altri, quegli stessi che ne hanno lasciato testimonianza.

Non è un percorso teorizzato da qualcuno che doveva venderlo, non è un percorso di là da venire, non è una moda o una religione che demanda ad altro la sua soluzione.

Quindi, quando affrontiamo certi termini, certe definizioni, ricordiamo che esse non sono lontane da noi, ma sono sempre nostri aspetti e che la metafisica non è un volare alto, ma piuttosto un volo radente, interiore, intimo, nella nostra stessa natura.

Shankara ammette tre mezzi di conoscenza: la percepienza, l’inferenza e la parola della Tradizione.

La Tradizione non è un insieme di libri scritti, un trastullo della mente, ma la testimonianza lasciata da chi ha realizzato quanto noi vogliamo realizzare. E non parliamo di persone che hanno fatto ciò millenni fa, ma di enti che vivono oggi quanto testimonia la Tradizione come loro stato abituale. Certo, forse costoro non saranno tantissimi, forse non saranno tutti visibili all’occhio del pubblico, ma sappiamo che ci sono.

Li riconosciamo leggendo i loro libri, alcuni forse li abbiamo pure incontrati e li abbiamo riconosciuti. Quindi, quando ci dicono cose che non contraddicono la Tradizione, possiamo anche crederci. Tanto, prima o poi, dovremo abbandonare anche questa credenza perché l’avremo realizzata.

B. La vita non si combatte, così come il mentale non si combatte e non si combatte nemmeno in nome di una presunta realizzazione e\o illuminazione che ci salverà un giorno (Inshallah !) dai flutti tempestosi del vivere quotidiano.

R. Specialmente se si rimane in un corpo!

B. È nella natura del mare essere un giorno calmo come l’olio ed il giorno appresso tempestoso e infuriato. Il silenzio non è nel mare calmo come una tavola, il silenzio è in qualsiasi mare, anche in quello di tempesta…. basta fare il “morto a galla”, abbandonarsi, o “mollare la presa” in modo attivo….

La ricerca della realizzazione, troppo spesso, è intesa del voler fare del mare un catino piatto come l’olio. Insomma non è la vita a dover essere cambiata, né il nostro mentale, quelle sono le loro intrinseche nature; siamo solo “noi” a dover scegliere se voler continuare a nuotare contro, in qualche modo e maniera, o semplicemente fare il morto a galla.

R. La scelta è proprio il punto. Da un lato c’è l’istanza realizzativa, che non è del tutto pura, ossia non è scevra da aspetti o contenuti che necessitano ancora di venire in emergenza: sono i samskara residui, sono le vasana che si sono formate in questa vita.

Qualcuno magari potrebbe giungere a dire di considerare la mente come una voce a noi estranea, da ascoltare come si ascolta una radio, senza nemmeno giudicare quanto dice… Solo che un’istruzione di questo genere, data così incautamente, potrebbe spingere un neofita a farlo sul serio e questo comporterebbe un’ulteriore scissura.

Pertanto, fin che ci sono le onde, che le si cavalchi, senza contrapporsi… si scoprirà che è la contrapposizione a farne sorgere la maggioranza.

B. Per un “morto a galla” il mare è sempre “piatto”, anzi, quando è mosso sono le stesse onde a cullarlo, invece di travolgerlo. Le onde sono sempre le stesse, tutta la differenza sta nel soggetto… noi.

R. Ecco, forse dovremmo maggiormente attenzionare quel “noi”. Forse è il momento di vedere se esiste un noi definibile o se, inavvertitamente, consideriamo ancora come noi semplicemente una convenzione che postula ciò che non c’è. Un noi che inavvertitamente attribuiamo ancora alla personalità , al carattere, alla mente…

Bodhananda, dialogo tratto da mailing list Advaita vedanta 11 febbraio 2002 – 4 marzo 2002.

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Fonte: http://www.vedanta.it/index.php?option=com_content&view=article&id=410:il-morto-a-galla&catid=144&Itemid=956

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