Charlotte Joko Beck: Ciò che chiamiamo io.

Ciò che chiamiamo io.

“Sperimentando perdiamo l’apparente rapporto dualistico con le persone e le cose: «Io vedo te, faccio osservazioni su di te, ho pensieri su di te o su me stesso». Non è difficile parlare del rapporto dualistico, ma molto più difficile è descrivere il rapporto non duale, lo sperimentare.

Vediamo come siamo arrivati a non vivere più lo sperimentare, come siamo caduti dal giardino dell’Eden.

Crescendo, ogni essere umano decide di aver bisogno di una strategia, poiché è impossibile crescere senza incontrare opposizione da parte di ciò che possiamo chiamare il ‘non sé’, il mondo che ci sembra esterno.

Troviamo opposizioni nei genitori, negli amici, nei parenti e così via. A volte, questa apparente opposizione è dura, a volte è più morbida. Ma nessuno cresce senza sviluppare una strategia per affrontarla.

Possiamo decidere che il modo migliore per sopravvivere sia diventare una persona ‘per bene’ e conformista. Se non funziona, impariamo ad attaccare gli altri, prima che gli altri attacchino noi, oppure ci chiudiamo in noi stessi.

Le strategie fondamentali sono tre: conformarci, attaccare o chiuderci. Tutti, in misure diverse, ricorriamo a una di queste strategie.

Per sostenere la nostra strategia dobbiamo pensare. Così, il bambino si appoggia sempre più al pensiero per elaborare la sua strategia privata. Qualunque persona, qualunque situazione comincia a venire valutata secondo il metro della strategia prescelta. Alla fine, mettiamo ogni volta il mondo sotto processo: «Questa persona, questa situazione, mi danneggia o no?». Anche se manteniamo un’espressione cordiale e sorridente, questa è la domanda che ci poniamo in ogni circostanza.

Alla lunga la nostra strategia diventa talmente perfezionata che non ne siamo più consci; è ormai a livello corporeo.

Supponiamo, ad esempio, di aver sviluppato la strategia di chiusura. Di fronte a una persona o una situazione, la nostra risposta abituale sarà un irrigidimento del corpo. Ciascuno ha un suo stile particolare. Non siamo coscienti di farlo perché, una volta che la contrazione si è stabilita, è in ogni cellula del corpo. È lì, non ci serve più saperlo.

Questa risposta inconscia complica la nostra vita perché è un ritrarsi, un separarsi dalla vita. Contrarsi è doloroso. Eppure, lo facciamo tutti. Anche quando ci sentiamo ragionevolmente felici possiamo scoprire una sottile tensione fisica. Non è niente di spettacolare, può essere molto leggera. Tutto va come vogliamo, stiamo bene, ma la lieve contrazione è sempre in atto. È sempre lì, in ognuno.

I bambini imparano a elaborare le loro strategie incorporando tutto ciò che accade nella cornice del loro sistema personale. Il modo di percepire diventa selettivo: accetta ciò che si adatta al sistema ed esclude ciò che non si adatta. Poiché riteniamo che il nostro sistema serva a proteggerci e a darci sicurezza, non siamo disposti a indebolirlo con dati contraddittori.

Quando giungiamo alla maturità, siamo ormai diventati il nostro sistema. È ciò che chiamiamo io. Viviamo in base a esso, cercando situazioni, persone e attività che confermino la nostra strategia, ed evitando tutto ciò che la minaccia. […]

Mentre siamo seduti [meditando], l’infinito turbinare della mente ci rivela la nostra strategia. Se etichettiamo i pensieri per un periodo abbastanza lungo, la riconosceremo. Anzi, è la strategia stessa che crea il ronzio dei pensieri. […]

Naturalmente, anche il corpo ne risente, perché riflette il nostro egocentrismo. Il corpo deve obbedire alla mente. Perciò, se la mente dice che il mondo è un luogo orribile, il corpo dice: «Come sto male!». Non appena si formano le immagini (pensieri, fantasticherie, speranze), il corpo risponde“.

Tratto da: “Niente di speciale. Vivere lo zen”, di Charlotte Joko Beck

Fonte: http://www.lameditazionecomevia.it/beck6.htm

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