Charlotte Joko Beck: La pratica.

Terra x Blog + Nero 2015

La pratica.

Che cosa non è la pratica.

Molti praticanti hanno un’idea precisa di cosa è la pratica. lo vorrei invece parlare di cosa, dal mio punto di vista, non è la pratica.

Prima di tutto, la pratica non mira a produrre un cambiamento psicologico: se pratichiamo con intelligenza, il cambiamento psicologico interverrà da sé. Non metto in discussione che si produca, anzi è meraviglioso; ma intendo mettere in chiaro che la trasformazione psicologica non è lo scopo della pratica.

La pratica non consiste in una comprensione intellettuale delle leggi fisiche, come la natura e il funzionamento dell’universo. Comprensioni di questo tipo potranno nascere in una pratica seria, ma non ne rappresentano lo scopo.

La pratica non è diretta a ottenere stati di beatitudine. Non va in cerca di visioni o di luci bianche (o rosa, o azzurre). Sono fenomeni possibili, e sedendo a lungo si produrranno, ma non rappresentano lo scopo della pratica.

La pratica non mira ad acquisire o coltivare speciali poteri. Ce ne sono molti, e alcuni li possediamo naturalmente; certe persone, anzi, ne hanno in eccesso. Allo Zen Center di Los Angeles avevo a volte il potere di vedere cosa c’era per pranzo due stanze più in là. Se il menù non mi piaceva, non andavo a mangiare. Sono piccole stranezze, che non rappresentano lo scopo della pratica.

La pratica non mira a sviluppare il potere personale (joriki), quel tipo di forza che si accumula in anni di sedute. Il joriki è un sottoprodotto spontaneo dello zazen, ma non è la via.

La pratica non consiste nel provare sensazioni belle e piacevoli. Non si tratta di sentirci bene invece di sentirci male. Non è un tentativo di essere qualcosa di speciale o di provare particolari sensazioni. Lo scopo, il punto, la materia della pratica non sta nell’essere incrollabilmente calmi e raccolti. Anni di esercizio ci daranno queste qualità, ma non rappresentano lo scopo della pratica.

La pratica non vuole indurre una condizione fisica di salute e invulnerabilità, senza più fastidiose indisposizioni. Molti sperimentano effetti fisici salutari, anche se si possono verificare periodi, mesi o anni, di avversità fisiche. Ancora, la ricerca della salute perfetta non è la via e, anche se col tempo quasi tutti avvertiranno benefici, non c’è alcuna garanzia.

La pratica non consiste nell’ottenere l’onniscienza, uno stato in cui si sa tutto di tutte le cose, diventando un’autorità costituita che risolve i problemi mondiali. Si può sviluppare maggiore chiarezza riguardo a certi problemi, ma sappiamo che anche le persone intelligenti dicono e fanno sciocchezze. L’onniscienza non è lo scopo.

La pratica non consiste nell’essere ‘spirituali’, per lo meno nell’accezione comune del termine. La pratica non mira a essere nulla. Se non comprendiamo che non possiamo mirare a essere ‘ spirituali’, questo può rivelarsi un obiettivo seducente e pericoloso.

La pratica non consiste nel mettere in rilievo i lati ‘buoni’ e sbarazzarci di quelli ‘cattivi’. Nessuno è ‘buono’ o ‘cattivo’. Lo sforzo di diventare buoni non è la pratica, ma una forma sottile di competizione.

La lista di cosa non è la pratica potrebbe continuare all’infinito. Tutti soffriamo, chi più chi meno, di queste illusioni. Tutti speriamo in un cambiamento, speriamo di arrivare da qualche parte. E appunto l’illusione di fondo. Ma basta contemplare questo desiderio per incominciare a illuminarlo, e la pratica si modifica. Cominciamo a capire che l’affanno di diventare migliori, di ‘arrivare da qualche parte’ è un’illusione, e causa di sofferenza.

Se la nostra barca piena di speranze, illusioni e ambizioni (arrivare da qualche parte, essere spirituali, diventare perfetti, diventare illuminati) si ribalta, che cos’è quella barca vuota? E noi, chi siamo? Che cosa possiamo capire, nei termini della nostra vita? E la pratica, che cos’è?

Che cos’è la pratica.

La pratica è molto semplice. Ciò non significa che non sconvolgerà la nostra vita. Rivediamo che cosa facciamo mentre sediamo in zazen. Se pensate che non vi riguardi più, bene, pensate pure che non vi riguarda più.

Sedere è essenzialmente uno spazio semplificato. La vita quotidiana è un incessante muoversi: cose da fare, gente con cui parlare, situazioni che si succedono. In mezzo a tutto ciò, è molto difficile percepire ciò che siamo. Semplificando la situazione, rimuovendo i disturbi esterni e sottraendoci al telefono che squilla, al televisore acceso, agli amici che vengono a trovarci e al cane che bisogna portare fuori, abbiamo la possibilità, che è il fatto di maggior pregio, di stare con noi stessi. La meditazione non riguarda uno stato particolare, riguarda il meditante. Non è rivolta a fare, finire o aggiustare qualcosa: è rivolta a noi stessi. Senza semplificare la situazione, abbiamo scarse possibilità di gettare una buona occhiata su noi stessi. Tendiamo a guardare ciò che non siamo, sempre qualcos’altro. Se qualcosa non va, a cosa rivolgiamo l’attenzione? Alla cosa che non va, agli altri: e lì individuiamo i colpevoli. Non guardiamo noi, guardiamo fuori.

Dicendo che la meditazione è rivolta al meditante, non invito a qualche forma di autoanalisi. Non è questo. Allora, cosa facciamo?

Dopo aver assunto la miglior postura possibile (cioè equilibrata, comoda), sediamo e basta, facciamo zazen. Cosa vuol dire ‘sediamo e basta’? Vuol dire la cosa più difficile, più esigente. In genere, in meditazione, gli occhi non sono chiusi. Ora pero vi chiedo di chiudere gli occhi e di sedere e basta. Cosa succede? Un po’ di tutto… Una fitta alla spalla sinistra, una pressione al fianco… Portate l’attenzione al viso, percepitelo. Ci sono tensioni? Attorno alla bocca, sulla fronte? Spostate l’attenzione più in basso: percepite il collo. Poi le spalle, la schiena, il petto, l’addome, le braccia, le cosce. Percepite le sensazioni che vengono a galla. Percepite il respiro, che entra ed esce. Non controllatelo, limitatevi a percepirlo. Il primo istinto è di controllare il respiro. Lasciatelo cosi com’è. Può essere toracico, mediano o addominale. Può essere accompagnato da un senso di costrizione. Percepitelo cosi com’è. Ampliate l’attenzione per sentire tutto quello che c’è. Se passa un’auto, sentite il rumore. Se passa un aereo, sentitelo. Potete sentire il frigorifero che si accende e si spegne. Siate quel che sperimentate. È tutto ciò che dovete fare, assolutamente tutto: sperimentare e stare con ciò che sperimentate. Ora aprite gli occhi.

Se ci riuscite per tre minuti, è un miracolo. Di solito non passa un minuto che incominciamo a pensare. Il nostro interesse a stare con la realtà (cosa che abbiamo appena fatto) è molto scarso. “Vorresti dire che lo zazen è tutto qui?”. Non ci piace particolarmente. “Non stiamo cercando l’illuminazione?”. II nostro interesse per la realtà è straordinariamente scarso. Preferiamo pensare. Vogliamo ritornare alle nostre amate preoccupazioni, vogliamo capire la vita. Cosi, prima ancora di accorgercene, abbiamo dimenticato del tutto il momento presente e siamo trasvolati a un pensiero qualunque: il ragazzo, la ragazza, i figli, il capo, la paura di moda… Siamo partiti! Non c’è niente di male nelle fantasticherie, salvo il fatto che, perdendoci dentro, abbiamo perso qualcos’altro. Quando ci perdiamo nei pensieri e nelle fantasie, abbiamo perso la realtà. La vita ci è sfuggita.

Questo è il modo di agire degli esseri umani. Non solo ogni tanto, ma in continuazione. Perché agiamo così? Conosciamo benissimo la risposta: perché stiamo cercando di proteggerci. Cerchiamo di sfuggire alla difficoltà del momento, o almeno di comprenderla. Non c’è nulla di sbagliato nei nostri pensieri egocentrici salvo che, identificandoci con essi, la nostra visione della realtà è bloccata. Come comportarci allora con i pensieri? Li etichettiamo. Siate molto accurati nei lavoro; non basta l’etichetta ‘pensiero, pensiero’ o ‘preoccupazione, preoccupazione’. Notate ad esempio: ‘Pensiero: lui è un tiranno’, ‘Pensiero: lei è ingiusta’, ‘Pensiero: non faccio mai niente che va bene’. Siate precisi. Se i pensieri precipitano a tale velocità che è discernibile solo la loro confusione, allora etichettate la perturbazione come: ‘Confusione’. Persistendo nella ricerca di un pensiero preciso, prima o poi lo troverete.

Praticando in questo modo diventiamo familiari a noi stessi, alla nostra vita e al modo in cui ci rapportiamo a essa. Constatando la comparsa dello stesso pensiero centinaia di volte, abbiamo scoperto qualcosa di noi che ignoravamo. Può darsi che il pensiero vada incessantemente al passato o al futuro. Alcuni rimuginano le situazioni, altri le persone, altri ancora se stessi. Alcuni alimentano in continuazione giudizi sugli altri. Ci vogliono quattro o cinque anni di etichettamento dei pensieri per giungere a conoscerci abbastanza bene. Ma cosa accade ai pensieri, etichettati con precisione e accuratezza? Accade che si placano. Non occorre forzarci a lasciarli. Quando si sono calmati, ritorniamo all’esperienza del corpo e del respiro: ancora, ancora e ancora. Non potrò mai sottolineare abbastanza che non si tratta di un paio di volte, ma di decine di migliaia di volte. Nei frattempo, la nostra vita si trasforma. Ecco la base teorica dello stare seduti. È molto semplice, non c’è niente di complicato.

Ora vediamo una normale situazione quotidiana. Supponiamo che lavoriate nell’industria aeronautica. II contratto governativo scade e probabilmente non sarà rinnovato. La vostra reazione è: “Perderò il lavoro. Non avrò più entrate e ho una famiglia da mantenere. Terribile!”. Poi, cosa accade? La mente incomincia a girare attorno al problema. “Cosa accadrà? Come farò?”. La mente vortica sempre più velocemente, sempre più ansiosa. Programmare il futuro non è sbagliato, dobbiamo fare cosi. II fatto è che, agitandoci, invece di programmare diventiamo ossessionati. Rigiriamo il problema in mille modi. Se non sappiamo cosa vuol dire praticare con i pensieri ansiosi, cosa accadrà? I pensieri producono un’emozione, col risultato che l’ansia aumenta. L’agitazione emotiva è sempre causata dalla mente. Se diamo via libera all’agitazione, diventiamo ammalati o depressi. Ma, se la mente non affronta la situazione con consapevolezza, lo farà il corpo. Il corpo ci tirerà fuori. È come se dicesse: “Se tu non te ne curi, devo farlo io”. Così ci viene il raffreddore, l’eczema, l’ulcera o quello che è nel nostro stile. Una mente non consapevole causa la malattia. Non è una critica: non conosco nessuno che non si ammali, me compresa. Quando il desiderio di preoccuparci è forte, creiamo le difficoltà. Con la pratica regolare, lo facciamo semplicemente un po’ meno. Tutto ciò di cui non siamo consapevoli produrrà i suoi effetti nella nostra vita, in un modo o nell’altro.

Dal punto di vista umano, le cose che vanno male sono di due tipi: esterne e interne, e tra queste ultime la malattia. Entrambe sono pratica, e le affrontiamo nell’identico modo. Etichettiamo i pensieri che vi costruiamo sopra, e li sperimentiamo nel corpo. Questo lavoro è la vera e propria pratica seduta.

A parole sembra semplicissimo, ma farlo davvero è tremendamente difficile. Non conosco nessuno in grado di applicare la pratica in ogni circostanza, ma ne conosco alcuni che ci riescono il più delle volte. Se facciamo così, se alimentiamo la consapevolezza di tutto ciò che ci accade, interno o esterno che sia, la vita si trasforma. Acquistiamo forza e intuizione, e conosceremo momenti di vita illuminata, il che significa semplicemente vivere la vita cosi com’è. Non c’è alcun mistero.

Per i principianti è fondamentale rendersi conto che soltanto stare seduti su un cuscino per un quarto d’ora è una vittoria. Sedere con compostezza, stare lì e basta, è ottimo. Se non sappiamo nuotare e abbiamo paura dell’acqua, la prima vittoria sta nell’entrare in acqua. La seconda, mettere la testa sott’acqua. Se siamo abili nuotatori, la sfida potrebbe essere rappresentata da una certa angolazione della mano dando una bracciata. Non che un nuotatore è migliore e l’altro peggiore, entrambi sono perfetti per il rispettivo livello. La pratica, qualunque sia il livello, consiste nell’essere ciò che siamo in quel preciso momento. Non si tratta di essere buoni o cattivi, migliori o peggiori. Molti mi dicono: “Questo non lo capisco”. Anche questo è perfetto. La capacita di comprensione si sviluppa con gli anni, ma in ogni momento siamo perfetti se siamo quello che siamo.

Iniziamo a imparare che nella vita c’è un’unica cosa a cui affidarsi. Quale? C’è chi pensa: “Il mio compagno, la mia compagna”. Per quanto possiamo amare nostro marito o nostra moglie, non possiamo dare loro totale fiducia, in quanto tutti, noi compresi, sono più o meno inaffidabili. Per quanto ci piaccia e l’amiamo, nessuna persona ci può dare completo affidamento. Allora, a cosa affidarsi? Se non a una persona, a cosa? Una volta mi venne risposto: “A me stesso”. Potete fare completo affidamento su voi stessi? La fiducia in se stessi è buona, ma inevitabilmente limitata.

Eppure c’è una cosa assolutamente degna di fiducia: la vita così com’è. Vediamolo più in concreto. Supponiamo che abbia un forte desiderio: sposare quella certa persona, conseguire un dottorato, volere che i miei figli crescano sani e felici. La vita, però, può rivelarsi l’esatto contrario di quello che desidero. Non so se quella persona mi sposerà; anche se accetterà, potrebbe morire il giorno dopo. Forse conseguiremo il dottorato, ma non è sicuro. Non possiamo avere la certezza di nulla. La vita procede nella sua direzione. Perché non affidarci proprio a questo fatto? Perché è tanto difficile? Perché siamo sempre inquieti? Immaginate che un terremoto abbia distrutto casa vostra, che abbiate perduto tutto e che vi debbano tagliare un braccio. Potete affidarvi alla vita così com’è? Sapreste essere quello che è?

Il segreto della vita sta nell’avere fiducia nelle cose così come sono. Parole, queste, che non vogliamo assolutamente sentire. Posso essere assolutamente certa che l’anno prossimo la mia vita cambierà, sarà diversa, eppure sarà sempre così com’è. Se domani ho un infarto, mi affido all’infarto; per il semplice fatto che, se ce l’ho, ce l’ho. Mi consegno alla vita così com’è.

Quando, come direbbe Krishnamurti, facciamo un investimento sui nostri pensieri, creiamo l’ ‘io’ e la vita non va più bene. Etichettare i pensieri equivale a liquidare l’investimento. Una pratica sufficientemente lunga ci consente di vedere i pensieri come puri stimoli sensoriali. Ne riconosciamo anche i vari passaggi: iniziamo con l’assegnare realtà ai pensieri, li trasformiamo in stati emotivi egoistici e creiamo una barriera alla percezione della vita così com’è. Imprigionati nelle emozioni egoistiche, non vediamo le persone e le situazioni con chiarezza. Un pensiero, in se stesso, è un puro stimolo sensoriale, un frammento di energia. Ma abbiamo paura di riconoscere i pensieri per quello che sono.

Etichettando un pensiero facciamo un passo indietro, scolliamo l’identificazione. C’è una differenza immensa tra il dire: “Quella persona è insopportabile”, e: “Pensiero: quella persona è insopportabile”. Etichettando con continuità i pensieri, la sovrastruttura emotiva si sfalda e rimane un frammento di energia impersonale a cui non sentiamo il bisogno di attaccarci. Se invece assegniamo realtà ai pensieri, saremo indotti ad agire di conseguenza. Dando corpo ai pensieri, la vita si imbroglia. La pratica è un assiduo lavoro con questo processo, fino a comprenderlo visceralmente. La pratica non mira a una comprensione intellettuale. Deve essere un fatto di carne e ossa, di tutto me stesso. Certo, alcuni pensieri egoistici sono indispensabili: seguire una prescrizione medica, riparare il tetto, programmare le vacanze. Ma non abbiamo bisogno della coloritura emotiva che chiamiamo ‘pensiero’. Non è vero pensare, è un’aberrazione del pensiero.

Lo Zen è fatto per la vita attiva, la vita impegnata. Imparando a conoscere la nostra mente e le emozioni create dal pensiero, vediamo meglio la direzione e i bisogni della nostra vita, che di solito abbiamo sotto il naso. Lo Zen è fatto per la vita attiva, non per una vita di passiva rinuncia. L’azione deve però fondarsi sulla realtà. Azioni fondate su falsi schemi mentali, basati a loro volta sui condizionamenti precedenti, non poggiano su una base solida. Capire a fondo gli schemi mentali ci permette di capire quel che dobbiamo fare.

Non si tratta di riprogrammarci, ma di liberarci di tutti i programmi vedendone l’irrealtà. Riprogrammarci significa saltare dalla padella nella brace. Può darsi che abbiamo in mente un programma migliore, ma il punto della pratica seduta è di non lasciarci guidare da nessun programma. Immaginiamo di avere un programma chiamato ‘Mancanza di autostima’, e di volerlo sostituire con il programma ‘Autostima’. Nessuno dei due funzionerà bene sotto le pressioni della vita, perché entrambi presuppongono un ‘io’. Questo ‘io’ è una costruzione assai fragile, di fatto irreale, è troppo facile da ingannare. In realtà, non c’è mai stato alcun ‘io’. II punto è vederne la vuotezza, l’illusorietà; cosa ben diversa dal doverlo distruggere. Dire che l’io è ‘vuoto’ equivale ad affermarne la sostanziale irrealtà: è semplicemente la costruzione dei pensieri egoistici.

Praticare lo Zen non è semplice come parlarne. Anche chi ha sviluppato una certa comprensione di ciò che sta facendo, a volte tralascia la pratica fondamentale. Quando sediamo correttamente, tutto il resto si prende cura di sé. Perciò, che siamo solo all’inizio o che sediamo da cinque o da vent’anni, la cosa essenziale è sedere con grande, meticolosa attenzione.

Charlotte Joko Beck
Tratto da: “Zen quotidiano. Amore e lavoro”.

Fonte del Post: http://www.asiamodena.it/appuntiyoga/ay/022/ay22.5.html

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