Hermann Hesse: Siddharta, il Risveglio.

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Risveglio.

Quando Siddharta lasciò il boschetto nel quale rimaneva il Buddha, il Perfetto, e nel quale rimaneva Govinda, allora egli sentì che in questo boschetto restava dietro di lui anche tutta la sua vita passata e si separava da lui. Su questa sensazione, che lo riempiva tutto, egli venne riflettendo mentre si allontanava a passo lento.

Profondamente vi pensò, come attraverso un’acqua profonda, si lasciò calare fino al fondo di questa sensazione, fin là dove riposano le cause ultime, perché conoscere le cause ultime, questo è appunto pensare – così gli pareva – e solo per questa via le sensazioni diventano conoscenze e non vanno perdute, ma al contrario, si fanno essenziali e cominciano a irradiare ciò che in esse è contenuto.

Rifletteva Siddharta nel suo lento cammino. Stabilì che non era più un giovinetto, ma era diventato un uomo. Stabilì che una cosa l’aveva abbandonato, così come il serpente viene abbandonato dalla sua vecchia pelle, che una cosa non era più presente in lui, che l’aveva accompagnato durante tutta la sua giovinezza e gli era appartenuta: il desiderio di avere maestri e di conoscere dottrine. L’ultimo maestro che era apparso sulla sua strada, il sommo e sapientissimo maestro, il più santo di tutti, il Buddha, anche quello egli aveva abbandonato, aveva dovuto separarsi da lui, non aveva potuto accogliere la sua dottrina.

Sempre più lento andava il pensiero e si chiedeva frattanto: “Ma che è dunque ciò che avevi voluto apprendere dalle dottrine dei maestri e che essi, pur avendoti rivelato tante cose, non sono riusciti ad insegnarti?”. Ed egli trovò: “L’io era, ciò di cui volevo apprendere il senso e l’esistenza. L’Io era, ciò di cui volevo liberarmi, ciò che volevo superare. Ma non potevo superarlo, potevo soltanto ingannarlo, potevo soltanto fuggire o nascondermi davanti a lui. In verità, nessuna cosa al mondo ha occupato i miei pensieri come questo mio Io, questo enigma che io vivo, d’essere uno, distinto e separato da tutti gli altri, di essere Siddharta! E su nessuna cosa al mondo so tanto poco quanto su di me, Siddharta!”.

Colpito da questo pensiero si arrestò improvvisamente nel suo lento cammino meditativo, e tosto, da questo pensiero ne balzò fuori un altro, che suonava: “Che io non sappia nulla di me, che Siddharta mi sia rimasto così estraneo e sconosciuto, questo dipende da una causa fondamentale, una sola: io avevo paura di me, prendevo la fuga davanti a me stesso! L’Atman cercavo, Brhama cercavo e volevo smembrare e scortecciare il mio Io, per trovare nella sua sconosciuta profondità il nocciolo di tutte le cortecce, l’Atman, la vita, il divino, l’assoluto. Ma proprio io, intanto, andavo perduto a me stesso”. […]

“Oh!” pensava respirando profondamente “ora Siddharta non me lo voglio più lasciare scappare! Basta! Cominciare il pensiero e la mia vita con l’Atman e col dolore del mondo! Basta! Uccidermi e smembrarmi, per scoprire un segreto dietro le rovine! Non sarà più lo Yoga-Veda a istruirmi, ne’ l’Atharva-Veda, ne’ gli asceti, ne’ alcuna dottrina. Dal mio stesso io voglio andare a scuola, voglio conoscermi, voglio svelare quel mistero che ha nome Siddharta”.

Si guardò attorno come se vedesse per la prima volta il mondo. Bello era il ondo, variopinto, raro e misterioso era il mondo! Qui era azzurro, là giallo, più oltre verde; il cielo pareva fluire lentamente, come i fiumi, immobili stavano il bosco e la montagna, tutto bello, tutto enigmatico e magnifico e in mezzo v’era lui, Siddharta, il risvegliato, sulla strada che conduce a se stesso. Tutto ciò, tutto questo giallo e azzurro, fiume e bosco penetrava per la prima volta attraverso la vista in Siddharta, non era più l’incantesimo di Mara, non era più il velo di Maya, non era più insensata e accidentale molteplicità del mondo delle apparenze, spregevole agli occhi del Brahmino, che tutto dedito ai suoi profondi pensieri, scarta la molteplicità e solo dell’unità va in cerca. L’azzurro era azzurro, il fiume era fiume, e anche se nell’azzurro e nel fiume vivevano nascosti come in Siddharta l’uno e il divino, tale era appunto la natura e il senso del divino, d’esser qui giallo, là azzurro, là cielo, là bosco e qui Siddharta. Il senso e l’essenza delle cose erano non in qualche cosa oltre e dietro loro, ma nelle cose stesse, in tutto.

“Come sono stato sordo e ottuso!” pensava e camminava, intanto, rapidamente. “Quando uno legge uno scritto di cui vuol conoscere il senso, non ne disprezza i segni e le lettere, ne’ li chiama illusione, accidente e corteccia senza valore, bensì li decifra, li studia e li ama, lettera per lettera. Io invece, io che volevo leggere il libro del mondo e il libro del mio proprio io, ho disprezzato i segni e le lettere, a favore di un significato congetturato in precedenza, ho chiamato illusione il mondo delle apparenze, ho chiamato il mio occhio e la mia lingua fenomeni accidentali e senza valore. No, tutto questo è finito, ora son desto, mi sono risvegliato nella realtà e oggi nasco per la prima volta”. […]

Poiché, improvvisamente, anche questo gli si era rivelato: egli, che nella realtà si trovava come un risvegliato o come un nuovo nato, doveva ricominciare interamente la sua vita. […]

Ma ora, per la prima volta, proprio in quell’istante in cui egli si era arrestato, come se un serpente giacesse sulla sua strada, si era destata in lui anche questa idea: “Io non sono più quel che ero, non sono più eremita, non sono più prete, non sono più Brahmino. Che dunque vado a fare a casa di mio padre? Studiare? Offrire sacrifici? Praticare la concentrazione? Tutto questo è passato, tutto questo non si trova più sul mio cammino”. […]

Ora lo sentiva. Sempre, finora, anche nella più profonda concentrazione, egli era rimasto figlio di suo padre, era stato Brahmino, di alto ceto, un sacerdote. Adesso non era più che Siddharta, il risvegliato e nient’altro. Trasse un profondo sospiro e per un attimo si sentì gelare. Rabbrividì. Nessuno era così solo come lui. Non v’era un nobile che non appartenesse all’ambiente dei nobili, non v’era un manovale che non appartenesse all’ambiente dei manovali; tra i loro pari tutti traevano ricetto, ne condividevano la vita, ne parlavano la lingua. Non v’era un Brahmino che non fosse annoverato tra i suoi colleghi e non vivesse con loro, non v’era un eremita che non potesse trovare ricetto nella società dei Samana e anche il più sperduto solitario della foresta non era uno e solo, anche lui era circondato da aderenti, anche lui apparteneva a una categoria che gli faceva da patria. Govinda s’era fatto monaco e mille monaci erano suoi fratelli, portavano un abito come il suo, condividevano la sua fede, parlavano il suo linguaggio.

Ma lui, Siddharta, a quale comunità apparteneva? Di chi condivideva la vita? Di chi avrebbe parlato il linguaggio?

Da questo momento, in cui il mondo circostante parve disciogliersi intorno a lui, in cui egli rimase abbandonato come una stella solitaria in cielo, da questo momento di gelo e di sgomento Siddharta emerse, più di prima, sicuro del proprio io, vigorosamente raccolto.

Lo sentiva: questo era stato l’ultimo brivido del risveglio, lo’ultimo spasimo del nascimento. E tosto riprese il suo cammino, mosse il passo rapido e impaziente, non più verso casa, non più verso il padre, non più indietro.

Tratto dal libro: Siddharta, di Hermann Hesse, parte prima: Risveglio.

Riflessione: La libertà non è “libertà DA qualcosa o qualcuno” ma è libertà e basta. Questo sta a significare che la libertà non dipende da nulla, nè da nessuno, bensì è una condizione dell’Essere, o meglio, è l’Essere stesso, libero da ogni definizione, valutazione o giudizio, che altro non sono se non attività e condizionamento mentali. Non è affatto possibile trovare la libertà seguendo pedissequamente una norma, una pratica, un insegnamento, un dogma, un maestro… tutto questo non è che condizionamento, credenza, convinzione, ed è in antitesi con la libertà. Libertà deve esserci fin dall’inizio, non può essere il risultato o il prodotto di un qualcosa che si svolge nel tempo. Seguire qualcosa o qualcuno, per definizione, nulla ha a che fare con la libertà. La libertà non può essere una “conquista”, dal momento che la conquista prevede uno sforzo, un impegno, un obbiettivo, un conseguimento nel tempo che sono semplicemente ed evidentemente tutta una serie di “attività” conflittuali. La libertà non può nemmeno essere un oggetto della coscienza, quindi non può esserci nessuno che ne faccia l’esperienza, in quanto, se così fosse, verrebbe condizionata dallo sperimentatore stesso. La libertà non è esprimibile a parole, non può essere definita in alcun modo e non può essere posseduta da nessuno, come la Verità.

Sperando di averti fatto cosa gradita, con affetto, Sid… Love*

Per saperne di più:

Big-Bang-21  http://unicacoscienza.altervista.org/category/sid-atma/

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