Mark Dyczkowski: Il piacere dagli oggetti dei sensi.

Il piacere dagli oggetti dei sensi.

Lo yogin può prendere piacere dagli oggetti dei sensi; anzi, in verità, egli è specificamente invitato a farlo, purché mantenga un’attitudine desta e consapevole […].

Il piacere che traiamo dagli oggetti fisici è, in realtà, il riposo di cui godiamo quando l’attività della mente si arresta per un momento e si delizia esclusivamente della fonte del piacere. Ogni piacere, in altri termini, è essenzialmente spirituale.

È uno stato che il soggetto esperisce, non una proprietà dell’oggetto. […] Lo yogin deve fissare la sua attenzione sulla fonte del piacere, liberando la sua mente da tutti i pensieri che la disturbano e preparare così la transizione a uno stato di consapevolezza in cui le sue preoccupazioni personali sono trascese nell’esperienza pervasiva della coscienza.

Questo yogin non è un edonista. […] Non brama i piaceri dei sensi, sebbene li usi come trampolino per proiettarsi oltre i regni della transitoria oggettività fisica, nella sfera eterna della coscienza.

Se il nesso tra piacere «mondano» e beatitudine spirituale è forte, lo è ancora di più il legame tra esperienza estetica e godimento estatico della coscienza. Una musica dolce, un quadro gradevole, la visione di una bella donna, tutte queste cose sono piene di un «succo» che i sensi assaporano o «gustano» e che, come il cibo, nutre la coscienza con gioia e meraviglia […].

I mutamenti prodotti nelle potenze dei sensi in contatto con l’oggetto estetico rappresentano uno spostamento di consapevolezza dalla superficie della coscienza dell’esperienza mondana verso livelli più profondi. […]

I sensi dapprima risuonano, per così dire, in consonanza con l’oggetto estetico, penetrandolo e mischiandosi con esso in modo così totale che il confine tra sensazione e consapevolezza apprezzativa si dissolve, lasciando uno stato di unità che pervade sia i sensi sia l’oggetto estetico. […]

L’oggetto estetico viene esperito con tale intimità e senso di contatto diretto che non è più sentito come esterno. È sommerso nel campo della consapevolezza – riempiendolo così completamente con il godimento estetico che esso suscita – che il soggetto perde ogni senso di individualità. La coscienza, ora libera dalle restrizioni dei limiti angusti della soggettività individuale, si espande spontaneamente, per godere infine dell’incondizionata effusione della sua propria pulsazione, come pura soggettività apprezzativa” (pp. 199-202).

Lo splendore della pratica risiede nell’affondare in questa verità durante la meditazione stessa, facendo dei mille luoghi del nostro sentire quegli oggetti dei sensi di cui godere spiritualmente.

All’inizio, questa cosa non viene accettata: si continua a barcamenarsi tra sì e no, piacevole e spiacevole. Si è in una pratica intesa come un barricarsi, come un costruirsi l’ennesima protezione. La pratica è un progressivo mollare la presa rispetto a tutto questo. E, allora, anche lo spiacevole diventa la possibilità del piacere della consapevolezza.

Tratto da: “La dottrina della vibrazione nello sivaismo tantrico dei Kashmir”, un saggio di Mark Dyczkowski.

Fonte: http://www.lameditazionecomevia.it/prenderepiacere.htm

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