Matthieu Ricard: Che cosa fare con l’io?

Che cosa fare con l’io?

A differenza del buddismo, ci sono ben pochi metodi psicologici che si occupano del problema di restringere la percezione del possesso, restrizione che, nel caso del saggio, arriva fino allo sradicamento dell’ego.

Si tratta certo di un’idea nuova, per un occidentale addirittura sovversiva, visto che ritiene sia questo l’elemento fondamentale della personalità.

Sradicare completamente l’ego? Quindi non esistere più? Come si può concepire un individuo senza io? Una concezione del genere, sconfinando in una forma di schizofrenia, non è forse psichicamente pericolosa? L’assenza di identità, o un’identità debole, non sono forse i segni clinici di patologie più o meno gravi? Non sarebbe il caso di possedere una personalità ben costruita invece di rinunciare all’ego? Questa è la reazione difensiva tipicamente occidentale di fronte a questi concetti poco familiari. L’idea che sia necessario possedere un io ben solido si basa sulla supposizione che le persone che soffrono di problemi psichici abbiano un io frammentario, fragile e insufficiente.

La psicologia della prima infanzia descrive come un neonato impara a conoscere il mondo e a mettersi a poco a poco in rapporto con la madre, con il padre e con quelli che lo circondano. Spiega come, verso l’età di un anno, capisca che lui e la madre sono due entità distinte, che il mondo non è semplicemente un’estensione del suo essere e che il suo comportamento può determinare una serie di conseguenze.

Questa presa di coscienza si chiama “nascita psicologica”. Successivamente l’individuo viene concepito come una persona, idealmente stabile, solida, fondata sulla certezza dell’esistenza di un io. L’educazione dei genitori, e poi quella scolastica, puntellano questi concetti, che ritroviamo in tutta la nostra letteratura e la nostra storia.

In un certo senso, la credenza in un io solido e concreto costituisce uno dei tratti dominanti della nostra civiltà. Non si parla forse continuamente di plasmare personalità forti, resistenti, capaci di adattarsi e di lottare?

Nasce qui la confusione tra io e fiducia in sé. L’io non può che procurarci una fiducia artificiale, fondata su attributi precari come il potere, il successo, la bellezza, la forza fisica, il brio intellettuale, le opinioni altrui e tutto ciò che crediamo costituisca la nostra identità, sia per noi che per gli altri.

Quando le cose, cambiano e il divario con la realtà si fa troppo grande, l’io si irrita, si contrae e vacilla. La fiducia in sé crolla e non restano che frustrazione e sofferenza.

Secondo il buddismo, la fiducia in sé è tutt’altra cosa. E una qualità innata dell’assenza dell’ego! Dissipare l’illusione dell’io significa dunque liberarsi dalla vulnerabilità.

Infatti, la sensazione di sicurezza che deriva da questa illusione è estremamente fragile. La fiducia autentica scaturisce invece dal riconoscimento della vera natura dei fenomeni e dalla presa di coscienza delle nostre qualità fondamentali, quelle che il buddismo definisce “natura Buddha”, presente in ogni essere. Questo produce una forza serena, che non è più minacciata né dalle circostanze esteriori né dalle paure interiori, una libertà che va al di là della fascinazione e del timore.

Un altro pensiero molto comune è che senza un io forte non proveremmo più emozioni e la vita diventerebbe tristemente monotona. Non avremmo la creatività, lo spirito d’avventura: in breve, una personalità.

Ma proviamo a osservare quelli che manifestano un io ben sviluppato e a volte ipertrofico. Non abbiamo che l’imbarazzo della scelta. I campioni del “sono io il più forte, il più celebre, il più influente, il più ricco e il più potente” non mancano.

Chi sono invece quelli che hanno ridotto al minimo l’importanza dell’io per aiutare gli altri? Socrate, Diogene, il Buddha, Gesù, i Padri del deserto, Gandhi, Madre Teresa di Calcutta, il Dalai Lama, Nelson Mandela… E tanti altri che operano nell’anonimato.

L’esperienza dimostra che chi si è liberato dai diktat dell’ego pensa e agisce con una spontaneità e una libertà opposta alla costante paranoia generata dai capricci di un ego tronfio.

Paul Ekman, uno dei più eminenti esperti della scienza dell’emozione, che si è dedicato in particolare allo studio di persone dotate di qualità umane eccezionali, fra i tratti fondamentali di questi individui riscontra “il balenare della bontà, una modalità d’essere che gli altri percepiscono e apprezzano e, a differenza dei tanti ciarlatani carismatici, una perfetta coerenza tra la loro vita privata e la loro vita pubblica”.

Ma, soprattutto, “spicca l’assenza di ego: queste persone ispirano gli altri proprio grazie alla minima importanza che attribuiscono al loro status, alla loro fama, per farla breve al loro io. Non si preoccupano affatto di sapere se la loro posizione o la loro importanza sono riconosciute”.

Ekman sottolinea inoltre che “la gente aspira istintivamente a trovarsi in compagnia di esseri del genere e, anche se non sa bene spiegarsi il perché, si sente arricchita dalla loro presenza”. Le loro qualità contrastano con i difetti dei campioni dell’ego, la cui presenza risulta fastidiosa, se non nauseante. Tra la messa in scena di un io sovrano assoluto e la calorosa semplicità dell’assenza di egocentrismo, la scelta non è difficile.

Ma non tutti sono d’accordo. Per esempio, Pascal Bruckner: “Benché molte religioni orientali non facciano che ripeterci pedissequamente il contrario, occorre riabilitare l’io, l’amor proprio, la vanità, il narcisismo, tutte cose eccellenti nella misura in cui contribuiscono a rafforzare il nostro potere”.

Una definizione del genere si addice però più a un dittatore che a Gandhi o a Martin Luther King. Questa è, in effetti, la tentazione totalitaria: attribuire all’io il massimo potere, pensando che così possa modellare il mondo a propria immagine e somiglianza. Ma i risultati non si chiamano forse Hitler, Stalin, Mao o il Grande Fratello? Megalomani che non sopportano che al mondo ci sia un solo granello di polvere diverso da come lo desiderano?

La confusione tra potere e forza d’animo è grande. Il potere è uno strumento con il quale possiamo uccidere o guarire, mentre la forza d’animo è ciò che ci permette di attraversare le tempeste dell’esistenza con la tenacia del coraggio e della serenità. La forza interiore scaturisce proprio dalla libertà nei confronti della tirannia dell’ego.

L’idea che per riuscire nella vita sia necessario un io potente deriva dalla confusione tra l’attaccamento all’io e alla propria immagine e la forza d’animo, la determinazione indispensabile alla realizzazione delle nostre aspirazioni più profonde.

In pratica, minore è l’importanza che attribuiamo all’io, più facilmente riusciamo a sviluppare una forza interiore duratura. La ragione è semplice: ritenere che il nostro io sia la cosa più importante ci trasforma in un bersaglio, esposto a ogni sorta di proiettile mentale: gelosia, paura, avidità, repulsione… Tutti fattori che non fanno che destabilizzarlo.

Tratto da: “Il gusto di essere felici”, di Matthieu Ricard

Fonte: http://www.rebirthing-milano.it/brani-traduzioni/dal-libro-gusto-felici-matthieu-ricard-saggezza-benessere-momento-della-vita/

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