Matthieu Ricard: La cristallizzazione dell’io.

La cristallizzazione dell’io.

Per il buddismo, la confusione mentale è come un velo che ci impedisce di percepire chiaramente la realtà e oscura la comprensione della natura autentica dei fenomeni.

Da un punto di vista pratico, si tratta anche dell’incapacità di identificare i comportamenti che permetterebbero di trovare la felicità e di evitare la sofferenza.

Tra le diverse forme di confusione mentale, quella più dannosa consiste nel legarsi al concetto di identità personale, o “io”. Il buddismo distingue un io innato e istintivo, quando pensiamo, per esempio, “mi sono svegliato”, oppure “ho freddo” e un ego concettuale, plasmato dalla forza dell’abitudine, al quale attribuiamo diverse qualità e che ognuno considera come il nucleo del proprio essere, indipendente e permanente.

In ogni momento, dalla nascita alla morte, il corpo subisce continue trasformazioni, mentre la mente è teatro di innumerevoli esperienze emotive e razionali.. Nonostante questo, continuiamo ostinatamente ad attribuire al nostro io permanenza, singolarità e autonomia.

Rendendoci conto, poi, che l’io è estremamente vulnerabile, vogliamo proteggerlo e soddisfarlo, entrando così nel meccanismo dell’avversione e dell’attaccamento: proviamo repulsione per qualsiasi cosa minacci l’io e attrazione per tutto ciò che gli piace, lo conforta, lo rende fiducioso e a proprio agio. Sulla base di queste due emozioni fondamentali, l’attrazione e l’avversione, si generano una grande quantità di emozioni diverse.

L’io, ha scritto il filosofo buddista Han de Wit, “è anche una reazione affettiva al nostro campo di esperienze, un ripiegamento mentale basato sulla paura”. Per il timore di essere danneggiati, per la paura di soffrire, per l’angoscia di vivere e di morire, ci proteggiamo all’interno di una bolla, quella, appunto, dell’io. Ci illudiamo di essere separati dal mondo, sperando così di allontanare la sofferenza.

Ci ritroviamo invece in una condizione precaria e pericolosa rispetto alla realtà. Siamo infatti fondamentalmente interdipendenti con gli altri esseri e con il nostro ambiente. La nostra esperienza altro non è che il contenuto di un flusso mentale, di un continuum di coscienza e l’io non è un’entità distinta da questo flusso. Dobbiamo immaginarlo come un’onda che si propaga, influenzando il proprio ambiente ed essendone influenzata, senza per altro trasportare alcuna entità.

Ma siamo talmente abituati a mettere su questo flusso mentale l’etichetta dell’io che ci identifichiamo con quest’ultimo e temiamo disperatamente che possa scomparire. Ne consegue un forte attaccamento alla propria identità e al concetto di “mio”: il mio corpo, il mio nome, la mia mente, le mie proprietà, i miei amici… Da ciò scaturiscono sia il desiderio di possesso, sia l’avversione verso gli altri.

I concetti di “me” e di “altro” si cristallizzano nella nostra mente, portando al sentimento erroneo di un dualismo irriducibile che è alla base di tutte le altre afflizioni mentali, i desideri alienanti, l’odio, l’invidia, l’orgoglio e l’egoismo. Percepiamo il mondo nello specchio deformante delle nostre illusioni, trovandoci in costante dissonanza con la vera natura dei fenomeni e questo porta inevitabilmente alla sofferenza.

Possiamo osservare la cristallizzazione dell’io e del mio in tutta una serie di situazioni quotidiane. Stiamo tranquillamente riposando in un’imbarcazione, in mezzo a un lago, quando veniamo urtati da un’altra barca e ci svegliamo di soprassalto. Siamo furibondi con il conducente maldestro, se non addirittura malintenzionato e ci ergiamo per insultarlo… quando ci rendiamo conto che l’imbarcazione è vuota.

Ci viene da ridere per quel nostro immotivato eccesso d’ira e ci riaddormentiamo tranquillamente. La sola differenza tra le due reazioni è che, in un primo momento, pensavamo di essere stati l’obiettivo della malevolenza di qualcuno e poi ci siamo resi conto che nessuno voleva attentare alla nostra identità.

Così, se qualcuno ci sferra un pugno, probabilmente ce la legheremo al dito per un bel po’. Se invece ci limitiamo a considerare il dolore fisico, noteremo che si attenua rapidamente, fino a diventare impercettibile. L’unica cosa che continua a farci male è l’ammaccatura dell’io. Invece, concependo l’io come un semplice concetto e non come un’entità autonoma, da proteggere e soddisfare a ogni costo, non ci sentiremmo affatto feriti.

Il Dalai Lama fa spesso un esempio che spiega bene l’attaccamento al sentimento del “mio”. Stiamo contemplando uno splendido vaso di porcellana in una vetrina, quando un commesso maldestro lo fa cadere. Pensiamo: Che peccato! Era un vaso talmente bello! Ma poi continuiamo tranquillamente per la nostra strada.

Se invece avessimo appena acquistato quel vaso, l’avessimo esposto orgogliosamente sul nostro caminetto e fosse caduto, andando in mille pezzi, avremmo esclamato sgomenti: “Il mio vaso si è rotto!” e il nostro morale ne avrebbe risentito. L’unica differenza tra i due casi è l’etichetta “mio” che abbiamo posto sul vaso.

Un esperimento psicologico ha attestato un caso simile. Ad alcuni studenti si regalano diversi oggetti, tutti con un valore di mercato di cinque dollari e con questi si organizza una vendita all’asta. Si verifica puntualmente che gli studenti non vogliono sborsare, in media, più di quattro dollari per i regali messi in vendita dagli altri e rifiutano di cedere a meno di sette dollari il proprio regalo. Si rivela così, in modo quasi caricaturale, il valore aggiunto dal sentimento di possesso.

La percezione erronea di un io reale e indipendente è all’origine dell’egocentrismo, che ci porta ad attribuire alla nostra sorte un valore ben più grande di quella di chiunque altro. Se il nostro capo insulta un collega che detestiamo, fa una lavata di capo a un altro che ci è indifferente o se la prende aspramente con noi, saremo soddisfatti nel primo caso, non proveremo niente di particolare nel secondo e ci sentiremo feriti e amareggiati nel terzo. Ma in nome di che cosa il benessere di una queste tre persone dovrebbe prevalere su quello delle altre?

L’egocentrismo, che ci pone al centro dell’universo, ha un punto di vista assolutamente relativo. L’errore consiste nel fossilizzarci sul nostro punto di vista e sperare, se non addirittura esigere, che il nostro mondo prevalga su quello degli altri.

Nel corso di una visita del Dalai Lama in Messico, qualcuno gli ha mostrato un planisfero e gli ha detto: “Santità, guardi qui! Se si considera la disposizione dei diversi continenti ci si rende immediatamente conto che il Messico è al centro del mondo”.

Quando ero bambino, un mio amico bretone mi dimostrò in modo simile che la piccola isola di Dumet, al largo di La Turballe, era il centro delle terre emerse!

Comunque sia, il Dalai Lama ha risposto: “Se prendiamo per buono questo ragionamento, Città del Messico è al centro del Messico, la mia casa è al centro della città, la mia famiglia è al centro della mia casa e nella mia famiglia sono io a essere al centro del mondo!”.

Tratto da: “Il gusto di essere felici”, di Matthieu Ricard

Fonte: http://www.rebirthing-milano.it/brani-traduzioni/dal-libro-gusto-felici-matthieu-ricard-saggezza-benessere-momento-della-vita/

WooshDe7Torna Su