Pradeep Apte: Il tuo destino non è la morte.

Il tuo destino non è la morte, ma la sparizione dell’Io-sono. 

La vera devozione non significa recitare belle frasi a memoria.

Quanti libri sono stati scritti con dialoghi, sermoni, affermazioni di grandi saggi? Milioni. Le parole servono come indirizzi, ma andrebbero subito cancellate dalla mente, altrimenti è come portare un vestito con ancora tutte le etichette e i prezzi del negozio.

A volte serve una sola frase per rinverdire, non tanto dei concetti, ma per approfondire e verificare in sé il valore di quelle affermazioni. Trovare l’essenza comune delle scoperte di persone che hanno davvero perso l’individualità convenzionale e imparata, abbandonato ogni possibile definizione di ciò che è la Realtà Ultima, che in definitiva è indescrivibile, inconcepibile.

Essere la Realtà Ultima, significa abbandonare tutto: se SEI TUTTO o QUELLO, non puoi SAPERLO e se c’è un oggetto, anche sottile, impalpabile, come il senso di essere, è un pensiero, è divisione, ovviamente dualità. La maggior parte dei ricercatori rimane tale, perché arriva alla sensazione di essere che tutto avvolge e lì si ferma, perché si sente al traguardo e prova una vampata di felicità.

Purtroppo, poiché c’è un testimone, invisibile, ma è ancora un infimo ‘IO’, è passeggera, è ancora una bella etichetta che il ricercatore trattiene con l’ansia di perdere piede. Il ricercatore – diceva Nisargadatta Maharaj – deve sparire, poiché non è mai esistito.

L’affermazione che “SEI già QUELLO (sempre)” è ancora un’indicazione del maestro per spingerti a oltrepassare la soglia da solo, ma in genere si rimane fermi lì, al campanello, credendo di essere arrivati e si proclama contenti: Sono Nulla, sono Tutto (ovviamente ancora “qualcosa”!)

Il Nulla è ancora un concetto, come il Vuoto o il Tutto. Quando si è davvero il Vuoto, si è pieni di ciò che È, ma allora non puoi mai “saperlo”. Lo vivi e basta.

Si citano frasi profonde, si raccomandano maestri advaita che veramente vivono questo, ma è un po’ come vedere un film e immaginarsi di viverlo, quando in realtà si è seduti in una sala.

A quanti rosari e litanie ho assistito e di cui non ho mai compreso lo scopo, dal momento che le persone che lo recitavano – anche quelle che si alzavano all’alba per la prima messa – rimanevano nei loro agguerriti giudizi negativi su quanto li circondava o fingevano un buonismo apparente. Un rituale, anche con la devozione sentita, non assolve dalla dualità così ben impiantata: ci si sente come quando si è fatto il nostro dovere, l’anima è contenta, ma poi?

Un po’ meglio apparivano le sacre sillabe tibetane o indiane, i mantra che per lo meno potevano calmare la mente, ma nulla di più. Inoltre quelli che recitavano a memoria frasi scelte dei maestri zen o advaita, era un po’ come se si mettessero abiti protettivi per non affrontare la paura dell’ignoto (immaginato ovviamente) o si sentissero assolti da una dualità così profondamente installata, ma ben nascosta ed espressa nelle attività quotidiane. Il quotidiano, con tutte le reazioni suscitate nel viverlo, che siano le faccende domestiche o le attività lavorative, sono sempre lo specchio sincero di quanto si vive davvero all’interno.

Quante volte un vero maestro diceva di prendere una spina per togliersi quella conficcata, ma poi di gettarle tutte due! Il più delle volte si trattenevano entrambe, credendo di essere “arrivati” al traguardo. SIAMO QUELLO, ma lo cerchiamo come chi insegue nel buio un po’ di luce, mentre ha già la torcia accesa in mano.

Allora che cosa impedisce di rovesciare tutto il cestino fino all’ultima cartaccia? Si è convinti di farlo, si moltiplicano i seminari, le riunioni di adepti, le puje o i bhajans, ma quante stampelle rimangono e quante reazioni, anche soppresse, ci restano incollate?

Tutto rimane come prima, al massimo con le scuse di non poter cambiare nulla: non si tratta di rinunciare a questo o quello, ancora ego potente, ma sono le “cose” in contrasto evidente o inutili, a lasciarci da sé.

Non si svuota tutto il cesto intellettuale perché? È la paura di piombare nel vuoto (di concetti) e questo la mente non lo perdona e si dà da fare a creare scenari inverosimili e a far continuare nei rituali che mantengono questo stato, affermando che è una via progressiva e che questa sarà la vera via dell’Illuminazione “un giorno” (?) … (se il tempo è relativo, irreale?) oppure che tanto tutto è LUI o QUELLO (non sapendo ben a cosa ci si riferisca).

All’inizio della famosa ricerca del Sé, la meditazione serve a calmare il chiacchierio imparato e incollato fin dall’infanzia, le memorie meccaniche e invasive. Si sprofonda nel senso di essere senza orpelli, si svuota la cassa di ricordi inutili e vani, finché si arriva al famoso indirizzo, ma è lì che nonostante la buona volontà ci si ferma.

La mente o ego, si blocca e fa credere che ormai siamo arrivati a destinazione. Cos’è in fondo la mente? Un pacco di pensieri ben cementati e decorati con cura, che camuffano tuttavia un senso di angoscia inspiegabile, ma ben sommerso.

Paura di morire? Di scomparire? CHI teme questo? Solo… un’idea, un concetto che mantiene incollate le memorie del pacco e non lascia andare oltre.

Molti dicono che è la paura di non sopravvivere, o della morte. Verifichiamo fino in fondo. Se ho paura di qualcosa, è perché ne ho un ricordo, ne ho ricevuto notizia, altrimenti com’è possibile? Se una sera prendo per un serpente una corda per terra, è perché so cos’è un serpente, se no come potrei?

Si può dire anche perché abbiamo visto morire qualcuno a noi caro o altri esseri viventi che non respirano più e ci immaginiamo scenari tremendi. Certamente, ma non è tutto. In sostanza è solo il NON SAPERE, l’inconoscibile e in-oggettivabile che immaginiamo, pensiamo, come un baratro senza fine. Ci addormentiamo al suono di belle parole per camuffare questa inconsapevole angoscia. Ma c’è altro.

È ormai risaputo che la nascita è qualcosa di terribilmente traumatico per il feto, che passa dalla vita intrauterina, con il senso di totalità e unità, a qualcosa di violento che lo spinge, lo scuote, lo stringe e che – grazie alle ricerche su moltissimi pazienti – il dottor Stan Grof ha potuto individuare in modo preciso nelle fasi di un normale parto.

Questi episodi corrispondono a eventi sperimentati come traumatici che la persona adulta risente e visualizza come terremoto, tsunami, guerra con mostri, sezionamento ecc. fino alla spinta finale, dove il respiro viene indotto con altrettanta veemenza. Il ricordo di questo non è forse un indizio di forte angoscia che si nasconde poi per sempre nell’inconscio?

Questo ci accompagna finché non ci addentriamo con determinazione in questa paura profonda e poi qualcosa si stacca dalla memoria, l’angoscia si risolve e rimaniamo … com’eravamo SEMPRE, prima del concepimento! Tutto questo processo di gestazione e nascita tuttavia NON ci riguarda, ma noi lo prendiamo per “personale”, festeggiamo i compleanni quando in realtà è solo nato il … tempo, al primo respiro; NOI non siamo mai nati, mentre prima non esistevano né lo spazio né il tempo e in fondo non ci sono mai stati!

Siamo l’IGNOTO qui – ora – sempre, il resto è un ologramma che ci appare e scompare a suo piacere. Nell’attimo del concepimento c’è tutto lo script già successo, ma non ci riguarda, è solo vibrazione apparente, immaginazione solidificata, memorizzata e presa per reale. Quando sogniamo storie appassionanti la notte, non è forse la stessa cosa? Quando ci svegliamo a volte, per un attimo, ci pare di tornare a sognare…

Una domanda che molti fanno è: È “scritto” nel destino se avviene l’illuminazione?

Potrei rispondere intanto in questo modo:

Si può vedere, riflettendo senza analizzare, che la domanda viene dall’identificazione all’entità che crediamo di essere. Il tema astrale, ad esempio, mostra tra l’altro anche quello che poi si proietta su ”altri” (padre, madre, nemici e amici ecc.) o su incidenti o eventi ESTERNI, che – poiché si notano NEL nostro tema – sono visibili chiaramente come INTERNI.

Ecco perché non serve declamare solo “Tutto è me stesso, tutto è LUI o Quello”: madre, padre, amici e nemici ecc. ma di “sentire dentro” soltanto la NOSTRA SENSAZIONE dolorosa, la nostra emozione che essi ci hanno provocato (siamo noi a concepirli!) e che si ripete come un copia-incolla in TUTTI gli eventi maggiori della nostra vita, anche in quello attuale.

Lo spazio-tempo virtuale allinea le vicende causalmente, (causa-effetto apparente) ma sono in realtà un unico punto di partenza e di arrivo. Si deve scovare il nucleo-sensazione – che abbiamo rifiutato e proiettato fuori – perché troppo dura e dolorosa e che ora si ripropone come l’eterna freccia avvelenata che abbiamo schivato o soppresso con cura (proiettato): quella freccia è solo la sensazione dolorosa unica che si è allargata come un virus in tante parti della vita, assumendo varie forme o condimenti, ma SEMPRE la stessa e si deve cercarla solo DENTRO.

Nella mitologia greca era l’IDRA dalle mille teste, ne tagliavi una e ne ricresceva un’altra … poi arriva Ercole che, invece di continuare inutilmente a tagliar una testa dopo l’altra, le cauterizza (fuoco spirituale) e poi seppellisce quella “immortale” sotto terra.

“…la testa principale del mostro è immortale, monito per chi dovesse credere che si possa eliminare il male: in quanto polarità del bene, continuerà ad esistere, ma tenuto sotto controllo dalla presenza e dalla forza dell’attenzione …“

A parte la mitologia, che spesso individua le vere attività della psiche umana, la mente è all’erta e ripete di nuovo la stessa domanda: È GIÀ scritto nel programma di vita anche QUELLO (o Realizzazione definitiva), oppure no e a chi può succedere?

“Chi” pone la domanda? = un individuo identificato. Infatti non esistono “realizzati” !! è un controsenso. È un modo di definire con un concetto che la realizzazione è avvenuta in apparenza IN qualcuno che la vive totalmente, ma in realtà non esistono né “altri” né entità separate: se consideriamo di poter “diventare” ciò che già siamo, è come se un’ombra volesse diventare luce… se c’è pieno sole dove sono le ombre?

Nulla esiste, tranne in apparenza e quindi non ci possono essere individui separati, “realizzati o illuminati”. C’è forse una non-entità, che crede di diventare qualcosa di speciale? (ammessi tutti i sotterfugi mentali). Anche se poi vediamo un individuo, un sat-guru (che non è una “persona”, anche se appare come quella) che lo vive e ce lo mostra e a cui abbandoniamo tutto.

S. Francesco lo viveva pienamente, senza istruzioni o maestri e ringraziava anche per le calamità che la Provvidenza gli inviava e alla quale si abbandonava totalmente. Rituali, prostrazioni, atti di devozione sono solo mezzi molto utili all’inizio, apparenze anche quelle, che servono fino a che non si veda CHIARAMENTE (non per sentito dire!) che tutto è ipnosi, illusione e anche per ovviare la ricaduta nel mondo illusorio.

Come dice Ranjit Maharaj, non si tratta di restare davanti alla casa, di cui dai l’indirizzo, accontentandoti di osservarla, ma di ENTRARVI da solo, per vedere come ti sei preso in giro (aggiungo)!

A questo punto non vi possono essere più domande, tutto è chiaro come il sole, senza nuvole o ombre: se sei il sole, che fastidio ti può dare una nuvola o un cono d’ombra sulla terra? È la solita eterna storia del “figlio di una donna sterile”, che parla del futuro dei propri figli…! Concetti, come ombre che si sciolgono al calore del sole…

Ecco un commento perfetto di un discepolo di Nisargadatta, che egli non conobbe personalmente:

“Prendi l’ “Io-sono” come il tuo destino, poiché il tuo destino non è la morte, ma la sparizione dell’Io-sono. Quando comprendi e ti stabilisci nel Io-sono, tutte le vasanas (memorie) possono essere chiaramente visualizzate come “post-Io-sono”, ossia modificazioni o aggiunte che sono cresciute durante il cammino della vita e dipendono da varie circostanze.

ANCHE L’IO-SONO è una vasana, la prima e l’ultima, di cui poi sbarazzarsi definitivamente. L’Io-sono medita sull’Io-sono per annullare l’Io-sono. È molto simile al vortice d’acqua in cui devi scendere fino alla sua origine, ove la corrente sparisce e poi puoi continuare a nuotare tranquillamente.”

Pradeep Apte – discepolo di Nisargadatta Maharaj

Fonte: http://www.isabelladisoragna.com/articoli/la-vera-devozione-non-significa-recitare-belle-frasi-a-memoria/

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