Riflessioni: Credere o dubitare.

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Credere o mettere in dubbio.

Da che mondo è mondo, le autorità politiche, religiose, morali, sociali e tradizionali ci hanno sempre ripetuto che è assolutamente importante credere ed avere fede. Dicendo questo, in pratica, hanno sempre messo sullo stesso piano la credenza e la fede, rendendole sinonimi. Ma sinonimi non lo sono affatto.

Che cos’è il credere? In altre parole, il credere, che tipo di meccanismo mentale è?

Se si è confusi, ignoranti – nel senso di privi delle informazioni necessarie – incapaci di cogliere ciò che è reale e ciò che non lo è, di distinguere tra ciò che è vero e ciò che è falso, di riconoscere ciò che siamo e ciò che è, di ricordare la ragione per cui siamo qui, proprio ora, non ci resta che chiedere a qualcuno di dircelo o di spiegarcelo.

Se ci percepiamo diversi, separati, distanti dalla Verità e dalla Vita, non ci resta altro che domandare e sottometterci a chi riteniamo sappia più cose di noi. Nello stesso istante in cui facciamo questo, come già visto, nasce l’autorità esterna, con tutte le sue tremende implicazioni. Un uomo che chiede ad un altro uomo cosa fare, come farlo e quando farlo, si trasforma in uno schiavo; questo, a me, pare un fatto incontrovertibile.

Credere in qualcosa o in qualcuno, di conseguenza, è l’equivalente di abbandonare, di gettare via la propria autorevolezza e dignità di essere umano, per ottenere in cambio uno status di schiavo, dipendente e condizionato, privo di ogni libertà. Nel momento in cui crediamo a qualcuno o a qualcosa, si viene a creare una frattura, una divisione tra chi sa e chi non sa e chi sa viene immancabilmente posto su un piedistallo, dal quale, ben difficilmente, vorrà scendere.

Il mondo è pieno di uomini che affermano di sapere e che, dall’alto della loro conoscenza, si propongono come guide; preti, politici, guru, maestri, filosofi, scienziati si elevano al di sopra dei comuni mortali e li imboniscono con le loro teorie e i loro dogmi. I genitori vogliono insegnare ai figli, i mariti alle mogli, le mogli ai mariti, i popoli “civilizzati” ai popoli “primitivi”, i credenti in Dio agli atei, gli atei ai credenti e via di questo passo.

A prescindere da tutto ciò, resta il fatto che il credere è un meccanismo mentale ben definito, indipendentemente dall’oggetto della credenza.

Credere è prendere per buono, cioè per vero e reale, qualcosa che non abbiamo valutato pienamente con le nostre facoltà o che non conosciamo sufficientemente. Si può benissimo credere che qualcosa sia vero e reale anche quando non lo è, come, egualmente, si può credere che qualcosa non sia vero e reale anche quando lo è eccome; questo significa che possiamo credere in tutto quello che ci pare, ma resta il fatto evidente che, ciò che è vero e reale, non dipende affatto dal nostro riconoscimento o meno.

Oltre all’abominio dell’autorità, che divide gli uomini, con la credenza si innesca anche un altro processo nocivo all’uomo, che è la perdita della libertà. Di fatto, se crediamo a qualcuno o a qualcosa, ne diventiamo, in primo luogo dipendenti, ma anche condizionati; il condizionamento non ha nulla a che vedere con la libertà e suppongo che questo sia ben evidente a chiunque.

Se rimaniamo condizionati da qualcuno o da qualcosa, sarà ben difficile scoprire da sé cosa è vero e cosa è falso, dal momento che la scoperta si presenta nel momento in cui abbandoniamo, da un lato, le vecchie conclusioni e, dall’altro, i condizionamenti che ci impediscono di osservare ciò che è, in piena libertà. Se rimaniamo dipendenti da qualcuno o da qualcosa, diventiamo degli imitatori, dei seguaci, delle pecore, con infinite scuse nei confronti delle pecore.

Se crediamo a qualcuno o a qualcosa lo facciamo, comunque, con un motivo: vogliamo sapere come stanno le cose, per trarne beneficio, cioè vantaggio; in altre parole, crediamo per ottenere appagamento. Ci sentiamo piccoli piccoli, soli, indifesi, timorosi per il nostro futuro, feriti dal nostro passato, incapaci di trovare pace e sicurezza, corriamo ogni giorno, faticando per sopravvivere, ci sentiamo abbandonati a noi stessi, perduti in un mondo di ingiustizia e violenza inaudite … e tentiamo disperatamente di trovare qualcosa a cui aggrapparci, che possa dare un senso a questo modo di vivere, che possa garantirci, magari in futuro, di trovare quella sicurezza, quella pace, quella gioia che, fino ad ora, non abbiamo ancora scovato. Crediamo in Dio, nella nazione, nel partito, nel denaro, nell’economia, nella famiglia, con la speranza che qualcosa possa darci quel senso di completezza, di compiutezza, di pace e tranquillità che non riusciamo a tenere saldamente tra le nostre mani. Anche questi mi paiono fatti indiscutibili.

Quindi il credere è una necessità, non è una scelta, indipendentemente da ciò in cui si crede.

Riepilogando, credere comporta la nascita dell’autorità esterna, dell’obbedienza, dell’imitazione, del condizionamento, della rinuncia alla libertà, dell’abbandono della spinta alla scoperta di qualcosa che non sia noto, dell’attaccamento al passato, della ricerca di appagamento, della divisione tra chi crede una cosa e chi ne crede un’altra; in poche parole, credere è condizionamento, passato, divisione e conflitto. E anche questo è un fatto.

Mettere in dubbio, per contro, non significa affatto dubitare, per la semplice ragione che avere dubbi è sinonimo di indecisione, confusione, insicurezza, paura, perdita della relazione con ciò che è. Mettere in dubbio non vuole dire non credere a X per credere a Y. Mettere in dubbio è aprirsi al presente, abbandonando il passato, con il suo enorme carico di memoria. Mettere in dubbio è aprirsi alla scoperta, è morire al conosciuto, è gettare nella spazzatura le conclusioni, le affermazioni, le valutazioni, i giudizi che il pensiero ha accumulato nel tempo. Mettere in dubbio è movimento costante, ben differente dalla staticità di una qualsiasi credenza. Mettere in dubbio il proprio conosciuto è umiltà, perché solamente l’umiltà è capace di dire “non lo so”. Mettere in dubbio è abbandono della conflittualità, perché chi sa di non sapere, non ha nessuna ragione, nessuna conclusione, nessuna verità da voler o da dover difendere ad ogni costo. Mettere in dubbio è gettare via l’identificazione con una fede religiosa, un partito politico, una razza, un popolo o una nazione, una classe sociale, una cultura, una tradizione che, inevitabilmente, ci condizionano, ci dividono gli uni dagli altri e ci imprigionano all’interno di schemi precostituiti. Mettere in dubbio è libertà totale, perché nulla ci resta attaccato addosso, né a nulla ci attacchiamo, per sentirci o per diventare qualcuno o qualcosa. Mettere in dubbio è fare riferimento a se stessi, alla propria indipendenza ed autorevolezza, è il riconoscimento della propria dignità di esseri umani, della falsità della credenza che vuole che l’uomo debba necessariamente avere degli intermediari tra sé e la Verità, tra sé e la Vita, tra sé e Dio, ammesso che Verità, Vita e Dio esistano veramente. Mettere in dubbio è passione per la scoperta, libera da ogni preconcetto e conclusione, che può mostrarci quali siano gli ostacoli, presenti in noi e in ogni altro essere umano, che ci impediscono di vivere nella pace, nella libertà, nell’amore, nella giustizia, nella condivisione, anziché nel conflitto in cui, da millenni, ci uccidiamo e devastiamo ogni cosa . Mettere in dubbio è la porta che, se oltrepassata, ci può condurre ad una fede che sia veramente sincera ed incrollabile.

A questo punto potrebbe benissimo sorgere una domanda: Cosa c’entra la fede con il mettere in dubbio?

Se mettiamo da parte il nostro conosciuto, le nostre conclusioni, i nostri attaccamenti, le nostre sicurezze, le nostre convinzioni, il nostro sapere, la nostra conoscenza, i nostri giudizi, il nostro passato o, in parole povere, noi stessi – visto che siamo assolutamente e incontrovertibilmente identificati con tutto ciò – che cosa ci rimane tra le mani?
Nulla, o meglio ancora, nessun oggetto del pensiero.

Pensare di abbandonare tutto questo, non fa istantaneamente nascere la paura?
E allora, come faremo a vivere così, nudi, soli, indifesi, poveri e mortali, esattamente come siamo venuti al mondo?

L’ego o io, se si preferisce, non accetta questa liberazione e la chiama rinuncia; ma non è affatto una rinuncia, anzi! E’ la vera ed unica reale liberazione dal passato, che è sempre condizionamento, in favore della unica e vera libertà di essere ciò che si è. E’ creatività totale, che non ha nulla a che vedere con la creatività dell’intelletto, che è sempre condizionata. E’ fede in se stessi, perché è già stata buttata alle ortiche la falsa percezione di essere diversi dalla Vita, che ci anima e ci sostiene in ogni istante. E’ profonda umiltà, perché non riteniamo più di sapere, meglio della Vita stessa, che cos’è la vita e come si fa a vivere. E’ vera povertà, perché non abbiamo più bisogno di sapere, di stabilire e di ottenere quello che ci serve per vivere meglio, ma accogliamo ogni relazione con la Vita con la certezza che nulla di necessario, mai, ci farà mancare.

La fede, dunque, non è che sentire, con tutto il proprio essere, che la Vita è noi.
Sentirlo da sé, sentirlo in sé, non certo credere che sia così, perché ce lo ha detto qualcuno, chiunque esso sia.

Tu credi in qualcosa o hai fede?
A questa domanda, ovviamente, puoi rispondere solamente tu.
Grazie.

Con affetto, Sid… Love*

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