Riflessioni: Il “ testimone silenzioso ”.

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Riflessioni: Il “ testimone silenzioso ”.

Premessa: Per chi ha già avuto un assaggio, anche solo momentaneo, della comparsa spontanea di una consapevolezza impersonale, le parole che seguono avranno un significato; per tutti coloro che, invece, non hanno ancora assistito al dispiegarsi di quella consapevolezza e che, di conseguenza, stanno ancora cercando di ottenere “qualcosa”, le stesse parole significheranno ben poco. Non è chi le dice o ciò che viene detto che fa la differenza, bensì l’ascolto. Non c’è proprio nulla che sia personale. Chi o che cosa sta ascoltando, dunque?

Conoscenza e sapere.

La conoscenza di sé è quanto di più appassionante ed affascinante un essere umano possa intraprendere…

Ovviamente, questo non vale per tutti gli esseri umani; infatti, ognuno ha le “sue” prerogative e priorità. Così è, senza alcun giudizio su cosa sia “meglio” o “opportuno”, “si debba” o “non si debba” fare nella vita e della Vita. E’ importante, comunque, notare che qui si sta parlando di “conoscenza” di sé e non di ricerca di sé, né di ricerca interiore.

La ricerca presuppone una meta, un conseguimento nel tempo ed un’attività positiva da parte di qualcuno, cioè di quello che viene chiamato “soggetto”, diverso e separato da ciò che viene cercato; la conoscenza è cosa assai diversa.

Vale dunque la pena soffermarsi sul significato della parola “conoscenza”, per come viene inteso qui.

Conoscenza e sapere, pur se, generalmente, vengono interpretate come sinonimi, qui vengono considerate come cose ben distinte. Il sapere è una collezione di informazioni, ottenute in vari modi, che poi vengono mantenute grazie al processo della memoria, come files in un computer, archiviati sul disco rigido. Il sapere non è nient’altro che questo processo: ricevo, immagazzino, ricordo. Oltre a ciò, accumulare sapere è un processo duale, nel senso che c’è un “qualcuno” che sa o che vuole sapere “qualcosa”, dove il qualcuno e il qualcosa sono due entità ben distinte.

Il conoscere è invece da intendersi come “gnosi”, cioè conoscenza diretta, non mediata, non appresa da fonte esterna, bensì frutto di un momento di consapevolezza o insight, che si manifesta spontaneamente, al di fuori dei concetti di tempo, di spazio e di un “qualcuno” che ne è consapevole. Questo “istante” non ha nulla a che fare con il pensiero o con gli schemi di pensiero e, conseguentemente, nemmeno con la memoria. E’ istantaneo, appunto, cioè “presente”… o “presenza” ed in esso non compare nessuno – nessun soggetto attivo – che possa fare o non fare alcunché. E’ quello che c’è, così com’è, in assenza di un chiunque che ne faccia l’esperienza. Nessuno, quindi, che possa affermare: “io sono consapevole”. Punto e basta.

Il “ testimone silenzioso ”.

E’ curioso… si parla tanto di libertà, poi non si riesce ad evitare di giudicare, di valutare… Ma cosa avrebbero a che fare il giudizio e la valutazione con la libertà? Proprio nulla. E questo vale tanto per ciò che viene giudicato, quanto per colui o per colei che giudica. Va tenuto presente, per maggior chiarezza, che giudicare e valutare, qui, sono considerati del tutto sinonimi.

Giudicare, credo sia evidente, limita fortemente ciò che viene giudicato; lo ingabbia, lo relega in una sorta di prigione concettuale statica, lo separa da tutto il resto, spezzandone l’integrità, facendo a pezzi ciò che è intero. Ciò che viene giudicato perde così, irrimediabilmente, la vitalità di ciò che E’, sia che si tratti di una persona, di una sensazione, di un evento, di un oggetto. Ciò che viene giudicato non ha più nulla a che fare con la realtà, bensì diventa semplicemente una storia, un “racconto”, per di più inconfutabilmente soggettivo ed arbitrario. E che cosa ce ne dovremmo fare di una storia passata, morta, soggettiva, ma di cui ci portiamo appresso il cadavere putrefatto?

E per chi giudica? Nessuna libertà nemmeno per “il giudice”, prigioniero di schemi mentali condizionati e, per lo più, appresi, ignorante del processo di identificazione in atto, che fa precipitare l’Essere vivente nella melma della dualità mentale, sempre separativa e conflittuale. Il giudice ignora che il pensiero non è frutto del “suo” pensare, ma è il figlio illegittimo di una mente inconsapevole di sé, dei propri schemi di funzionamento, delle proprie origini e del mondo degli oggetti “materiali”, che definisce “oggettivi” e reali.  Il giudice non riesce proprio ad essere libero di smettere di pensare e di giudicare… il giudice è sempre identificato con il complesso corpo-mente-mondo-tempo e, per quanto se ne renda conto uguale a zero, è la somma di tutte le presunzioni, ritenendo a priori che il suo giudizio non possa che essere ineffabile e vero, fonte auto-referenziata di autorità. L’autorità del pensiero… delle parole… del bla, bla, bla.

“Dietro” la percezione dei sensi fisici, che riportano il contenuto della coscienza, però, c’è qualcos’altro. Alcuni se ne sono accorti, altri no.  Alcuni hanno indagato, altri no. Alcuni hanno dubitato, altri no. Alcuni sono rimasti con le mani completamente vuote, altri no. Alcuni hanno smesso di “seguire” questo o quello, altri no. Alcuni sono “universalmente soli”, altri no. Alcuni si sono resi conto dell’illusione della salvezza, della sicurezza, del controllo, dell’appagamento, altri no. Potrei continuare ancora a lungo, ma non ne ho più voglia. Basta così. Chi ha orecchie per intendere ha inteso.

Percezione sensoriale e consapevolezza.

Mentre queste parole compaiono sullo schermo del computer, in sottofondo c’è un brano musicale che si sta svolgendo. Da dove arrivano queste parole? E la musica?  La percezione sensoriale fa sì che gli occhi vedano i caratteri scuri delle lettere sul monitor retroilluminato, che le dita avvertano le superfici lisce e compatte dei tasti, che le orecchie odano la melodia musicale e il ticchettare della tastiera, oltre alla voce nella testa che ripete ogni parola, a riprova di avere capito cosa viene scritto… E poi? Basta così, o c’è ancora altro?

Tutti questi “fenomeni” sono compresi all’interno della coscienza, sono cioè oggetti di coscienza. Se non fosse presente uno stato di coscienza vigile, nulla di tutto ciò potrebbe essere osservato, toccato, udito, né ora, né mai. Questo è, a dir poco, lampante. La coscienza, però, ha una stranissima caratteristica: è sia un contenitore, sia un contenuto; in parole diverse, la coscienza è costituita dal suo stesso contenuto. Se il contenuto è un oggetto – e lo è – allora anche la coscienza è un oggetto; infatti, la coscienza è senz’altro un fenomeno transitorio e, in quanto tale, non può essere il “soggetto”, visto che quello, in realtà, è sempre presente… immancabilmente, pur in assenza di coscienza vigile. Ma attenzione!!! Non è un rompicapo e non c’è nulla da capire. O arriva in profondità o resta dov’è.

A questo punto, la domanda è: ma questa cosiddetta coscienza… dove appare? Appare, forse, a qualcuno? O appare e basta? C’è qualcosa o qualcuno che si rende conto di ciò che c’è? Oppure no?

Per fare un esempio pratico, se l’attenzione è rivolta all’ascolto della musica in sottofondo, la musica in sé rappresenta ed è l’oggetto di osservazione; ma chi o che cosa sta ascoltando? La musica “compare” nel campo di coscienza… ma è possibile notare lo “spazio silenzioso e imperturbabile” che ospita, per così dire, la fenomenologia? Quello spazio è sempre presente e non rimane mai coinvolto in ciò che in esso compare… Pensieri, emozioni, sensazioni ed eventi non lo alterano, lo lasciano immutato ed immutabile, così com’è: vuoto di oggetti, silenzioso e imperturbabile. Se si manifesta, questa è una presa di coscienza significativa, un vero e proprio balzo trasformativo; non che ci sia qualcuno o qualcosa che debba o possa trasformarsi, bensì la trasformazione avviene da sé e nulla sarà più come prima, per nessuno.

Se questi “istanti” di consapevolezza si manifestano, quello che resta, una volta che dovesse ricomparire l’idea di sé come individuo, è una presa di coscienza a posteriori. Tale presa di coscienza potrebbe dunque essere che la sensazione di esserci e il dialogo interiore, che afferma “io sono”, vengano correttamente visti per quello che sono, cioè come oggetti contenuti nella coscienza; in questo caso, cioè se la presa di coscienza accadesse, l’idea di essere una persona non potrebbe che decadere spontaneamente e senza alcuno sforzo da parte di nessuno.

Questo è o sarebbe sufficiente per ritenersi liberi? Probabilmente no, dal momento che la mente, generalmente, torna ad alzare la sua testa e ricomincia a definirsi come “io”, cioè rimane comunque identificata con il complesso corpo-mente-mondo-tempo. Ma è anche vero che, ormai, l’inganno dell’identificazione sarebbe stato visto per quello che è: un inganno, appunto. E che autorità e fede si potranno mai concedere a ciò che divide e inganna per consuetudine?

A questa domanda, come sempre, puoi rispondere solamente tu.

Con affetto, Sid… Love*

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