Riflessioni: Sulla morte.

Big-Bang-21

Morte: Qualcuno nasce… qualcuno muore?

Solo a sentire questo termine, morte, molti esseri umani toccano ferro o le loro parti intime, si trovano a disagio o, magari, ti chiedono se stai vivendo una depressione. L’argomento non è molto bene accetto e parlarne diventa quanto mai difficile. Ma perché? Cosa accade, dentro di noi, quando ci veniamo a trovare al cospetto della morte?

Al momento della nascita, la Vita si manifesta in una forma fisica; da quel momento in poi, noi diciamo che siamo vivi o che viviamo. Nel momento della morte, la Vita lascia andare la forma in cui si è manifestata; noi diciamo che moriamo e che tutto finisce lì.

Ma come facciamo a saperlo? Chi lo dice? Chi lo ha detto? E’ mai tornato qualcuno per spiegare cosa accade? Pare proprio di no.

Anche in questo caso non facciamo che ripetere ciò che ci tramandano le varie tradizioni, credenze, speculazioni, teorie, dogmi, fantasie e superstizioni. Resta comunque il fatto che, mentre siamo in vita, non possiamo sperimentare cosa sia la morte; almeno così riteniamo.
Ma non è detto che questo corrisponda al vero.

Come sempre, l’unica cosa reale è quello che possiamo vedere in noi; ma se siamo in vita, come fare a vedere la morte… in noi?

Diciamo che non ci interessa nulla di quanto gli uomini o i libri dicono sulla morte, ma che ci interessa esclusivamente osservare che cos’è la morte, per noi ; partendo da questo presupposto, per quanto, inizialmente, possa apparire arduo, ci potremmo accorgere che, in effetti, non lo è poi tanto, anzi. Se non ci facciamo impressionare e non scappiamo a gambe levate, conoscere la morte da vicino, a tu per tu, potrebbe insegnarci molte cose su come vivere la Vita con pienezza.

Il vivere e il morire fanno parte, con eguale diritto, del movimento inarrestabile della Vita. Disgraziatamente, il meccanismo psicologico più tipico degli uomini è quello di correre incontro, o inseguire, ciò che piace e dà piacere, mentre si rivolge in fuga, o allontanamento, da ciò che non piace e dà fastidio; la morte, nella nostra quasi completa incomprensione, viene classificata come evento sgradito e, di conseguenza, è ben difficile starle sufficientemente vicino, in maniera da poterla conoscere approfonditamente. Oltre a ciò, molto spesso, la morte fa paura e questo ce la rende ancora più sgradevole.

Ma di che cosa abbiamo paura? E conosciamo, veramente, questa atavica paura?

Il più delle volte, la risposta è che, essendo un evento inconoscibile, la paura della morte equivale alla paura dell’ignoto, del non conosciuto, ma mai risposta potrebbe essere più inappropriata. Perché?
Perché non è possibile temere ciò che non si conosce, ciò che è assente dalla nostra coscienza.

Facciamo un esempio: se ti chiedessi se hai paura dello Sitklinger, tu che cosa mi risponderesti?
In pratica, se mi rifiutassi di descriverti che cos’è uno Sitklinger, potresti averne timore? Sicuramente no. Se non sai cos’è, dove sta, cosa fa e cosa comporta, come potresti nutrire paura nei suoi confronti? Ovviamente non potresti; è facile, no?

Ma, se non sbaglio, nemmeno sai cos’è, dove sta, cosa fa e cosa comporta la morte; quindi?
Non potrebbe essere che la paura della morte nasconda ai nostri occhi un timore ben diverso?
Potrebbe … anzi, lo fa. Pian piano, ci arriviamo.

Che cos’è la morte?

Se ce lo chiediamo con sincerità ed interesse investigativo, se osserviamo il movimento del pensiero in noi, ci potremmo accorgere che la paura che paventiamo non è per la morte in sé, ma per qualcos’altro.

Quando incorre la morte, sappiamo bene che il corpo resta inanimato, privo di tutti quei bisogni che ci costringevano a doverli soddisfare; non c’è più fame, ne’ sete, ne’ caldo, ne’ freddo, ne’ dolore. Tutto questo scompare; di conseguenza, non c’è più alcun bisogno di intraprendere tutta quella serie di attività che in vita dovevamo sobbarcarci, per soddisfare le richieste legate alla biologia del corpo. Più che una sciagura, questa mi pare una liberazione e sono certo che chiunque sarebbe ben felice di non dover più arrovellarsi per garantirsi la sopravvivenza.

La paura che proviamo, di fatto, non è certo nei confronti di questa innegabile liberazione. In realtà, abbiamo paura di un concetto, di un’idea: abbiamo paura della cosiddetta “fine”. Per noi umani, dire morte e dire fine è la stessa cosa; associamo l’una all’altra, dando ad entrambe lo stesso significato. Una fine irreversibile, una fine senza ritorno, una fine inevitabile, una fine senza appello. Questo urta terribilmente contro il desiderio di permanenza del me. Questa è la reale paura che si cela dietro la parola morte.

E’ evidente, a questo punto, che non stiamo più argomentando sulla paura dell’ignoto, bensì sul timore che deriva dalla fine di tutto quello che conosciamo e che in una vita intera abbiamo acquisito, attraverso la nostra esperienza. Stiamo parlando della fine del conosciuto. Stiamo, cioè, parlando della fine dei desideri, del piacere, del dispiacere, degli affetti, della conoscenza, dell’esperienza, dei sentimenti, ma anche della paura, dei conflitti, della sofferenza, dell’infelicità; stiamo, di fatto, parlando della fine della memoria, della fine del passato, della fine del tempo psicologico. Questo ci fa veramente paura, non la morte!

Abbiamo paura di perdere i nostri riferimenti, i punti fermi, le certezze, la conoscenza, il frutto dell’esperienza, i ricordi, le conquiste e non vogliamo rinunciare al desiderio – pur sapendo che è insanabile conflitto – non vogliamo rinunciare a ciò che ci appartiene – pur sapendo che è mortale attaccamento – non vogliamo rinunciare a “noi stessi”, pur sapendo che questo “me” è costituito da una sostanza identica al conflitto e all’infelicità: la divisione, l’isolamento, la dualità.

E così, finalmente, abbiamo svelato i retroscena di questa atavica paura. Qualcosa, però, dovrebbe aver attratto l’attenzione.

Abbiamo già considerato come pensiero, memoria, passato e tempo siano un’unica cosa; abbiamo anche visto che il pensiero e l’io sono un unico movimento, cioè che il pensatore ed il pensiero sono assolutamente identici. Ora possiamo anche aggiungere qualcos’altro.

Dal momento che “io” e memoria sono un’identica cosa, per analogia, anche l’esperienza, che viene immagazzinata come memoria, non può che essere identica al me. Questo implica che il contenuto del me non può essere diverso dal contenitore stesso; in altre parole, il me e l’esperienza sono la stessa cosa, o possiamo dire anche che lo sperimentatore e la cosa sperimentata sono perfettamente identici. Così facendo, abbiamo rinsaldato una serie di fratture, eliminando semplicemente il processo di frammentazione. Ancora una volta, questa non è azione positiva, bensì negativa; infatti, scoperta la falsità della divisione, quello che resta è l’integro.

Tornando al tema della morte, cosa potrebbe, come dicevo prima, aver attratto l’attenzione?

Che la fine del conosciuto corrisponde esattamente alla fine del me. Il contenuto del me è il conosciuto e la sua fine comporta, inevitabilmente, la fine del me. Questa è una notizia magnifica, almeno per chi scrive.

Alla luce di quest’ultima considerazione, siamo ancora certi di non poter sperimentare la “morte” mentre siamo ancora in vita?

La fine del conosciuto è la fine del me e la fine del me non è che la fine del processo del pensiero. A ben guardare, quindi, morire al conosciuto, che è memoria, passato, tempo, equivale a sperimentare la “morte” mentre siamo ancora in vita; questa morte è libertà totale da ogni condizionamento e attaccamento, è la fine di ogni “oggetto” del pensiero con cui ci siamo identificati e, ben lungi dall’essere la fine della vita, cioè dell’Essere che è noi e che è in noi, non è che la fine dell’ego, o come alcuni dicono, la fine dell’infelicità.

“Chiunque vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chiunque sarà disposto a perderla nel mio Nome, la troverà e vivrà in eterno. Io sono la Verità, la Via, la Vita.”
Ti Ricorda qualcosa?

E tu, hai paura della morte?

A questa domanda, come sempre, puoi rispondere solamente tu.
Grazie, con affetto… Sid… Love*

WooshDe7Torna Su