Riflessioni: Voglio, Devo, Desidero.

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  Voglio, Devo, Desidero.

Voglio, devo e desidero, tre verbi – che altro non sono, se non parole – ma carichi di significati psicologici, profondissimi, in ogni essere umano.

Basta far mente a quante volte, durante una giornata, ce li veniamo a trovare sulla punta della lingua o nella testa, per renderci conto di come, quasi ogni nostra azione venga, in realtà, mossa da uno o più di questi tre verbi,  i veri dominatori della nostra quotidianità.

A quanto pare, tutto ciò che intraprendiamo, dalla densa materialità fino alla meno tangibile interiorità, viene innescato da questi verbi, al punto che si potrebbero considerare come i motori principali che muovono e determinano le numerose attività di ogni essere umano.

Se osserviamo molto attentamente, qualsiasi essere umano sulla faccia della terra è in grado di riconoscere in sé, più o meno consapevolmente, il nascere di una sensazione; di fatto, nel momento in cui veniamo in contatto con un oggetto, o un evento, o una persona, in noi nasce, istantaneamente, una sensazione interiore, secondo il seguente schema:

 contatto/relazione > sensazione.

Questo è il meccanismo di base.

Ma cosa accade, una volta percepita la sensazione?

La sensazione viene ricercata nella banca dati della nostra memoria.

Questa sensazione, da una parte viene riconosciuta come tale, ma da un’altra, viene associata al tipo di “qualità” che l’esperienza ha registrato nella memoria; in altre parole, la sensazione viene istantaneamente percepita – consciamente o meno, non fa alcuna differenza – e, in un tempo infinitesimale, viene associata in base alla catalogazione presente in memoria e, conseguentemente, definita come “piacevole” o “spiacevole”.

Il ricordo, infatti, non solo viene immagazzinato, ma anche catalogato, cioè valutato e giudicato, come “gradito” o “sgradito” e, conseguentemente, associato a tali qualità.

A questo punto, la nostra formula può essere così ampliata:

 contatto/relazione > sensazione > memoria/associazione qualitativa.

E una volta giunti a questo punto, cosa succede?

Basta che osserviamo le nostre reazioni quotidiane e lo vedremo benissimo autonomamente, senza che nessuna autorità esterna si debba intromettere tra noi e la chiara percezione dei nostri atteggiamenti vitali.

Supponiamo di imbatterci in una relazione, con qualcuno o con qualcosa, che suscita in noi una sensazione e che questa sensazione venga riconosciuta come gradevole o gradita; quello che accadrà, con ogni probabilità, sarà che cercheremo di farla durare il più a lungo possibile o di ripeterla, perché ci dà piacere. Analogamente, se riconosceremo la sensazione come sgradevole, con ogni probabilità, metteremo in atto una serie di azioni e comportamenti atti ad evitarla, perché ci dà fastidio.

Lo si può vedere molto bene in noi, vero?

Quindi, direi che non è poi così difficile poter concludere che, se un contatto o relazione ci dà sensazioni piacevoli lo cercheremo, mentre, al contrario, se ci porta sensazioni sgradevoli, cercheremo di allontanarlo da noi, rifiutandolo.

Questo meccanismo è di una semplicità disarmante, no?

Possiamo, allora, perfezionare ulteriormente la nostra equazione, che ora può diventare:

 contatto/relazione > sensazione > riconoscimento/memoria/giudizio > reazione psico-fisica.

Non credo sia ignoto a nessuno che l’essere umano si “muove verso” ciò che gli è gradito e “si allontana da” ciò che gli è sgradito.

Per quanto possa sembrare riduttivo, purtroppo, pare che l’intera umanità si muova, da millenni, unicamente in base a queste due qualità: mi piace – non mi piace; si cerca ciò che piace e dà piacere, si tenta di evitare ciò che non piace e disturba.

Ma, allora, siamo, forse, tutti all’inseguimento dell’ “appagamento”?

Ho un po’ timore a rispondere … ma la risposta è: sì; con buona pace per la nostra cosiddetta spiritualità.

Non sto dicendo che il piacere sia, o non sia, da cercare, che il dispiacere sia da accettare o da rifiutare; nulla di tutto questo. Sto unicamente affermando che il piacere e il dispiacere sono i giudizi di base che ci spingono ad agire in una direzione o in un’altra; sono nient’altro che valutazioni e giudizi, per giunta soggettivi, cioè pura e semplice attività mentale. Oltre a ciò, sto affermando che, in assenza di attività mentale, queste categorie di valori sono inconfutabilmente assenti. Punto. Questo è un fatto assodato.

A questo punto, possiamo allora inserire nella nostra equazione un dettaglio molto significativo: l’emotività.

Sempre osservando da sé come funzioniamo, non è difficile riconoscere che, in seguito alla presa di contatto/relazione e una volta comparsa la sensazione, nel momento stesso in cui nasce il giudizio su quanto accade, prende corpo – è proprio il caso di dire così – una cosa nuova: un’emozione.

L’emozione è quindi conseguente al movimento del pensiero, cioè nasce insieme ad esso, ed è inseparabile da esso; è una sorta di “colore” o “gusto” che la nostra reazione, inevitabilmente, presenterà e che viene determinato, esclusivamente, dal tipo di giudizio emesso. L’emozione, quindi, è semplicemente la manifestazione fisica di un processo del pensiero; emozione e pensiero sono, dunque, la stessa, identica cosa.

Alla luce di quanto detto, la nostra equazione potrà pertanto essere riscritta così:

 contatto/relazione > sensazione > attività mentale/giudizio > emozione > reazione fisico/emotiva.

La Vita è relazione, che ci piaccia o meno, e non è possibile vivere in isolamento assoluto; siamo sempre in relazione con qualcuno o con qualcosa, anche se ci ritiriamo in una caverna sui monti più inaccessibili.

Dal momento che la relazione non è eliminabile dalla nostra quotidianità, risulta evidente che i meccanismi di cui abbiamo parlato assumono una importanza capitale.

E’ esperienza diffusa, infatti, che se le cose non vanno come piace, si tenta di tutto, pur di riuscire a  modificarle.

Ecco allora che entrano in scena i tre verbi più abusati dagli esseri umani: desidero altro, voglio che cambi, devo darmi da fare per ottenere ciò che desidero … o per te non è così?

E’ così evidente che mette addirittura a disagio, tanto è un fatto assodato, no?

Questa si chiama ricerca di appagamento. Punto.

Anche in questo caso, non sto dicendo che si debba o non si debba ricercare l’appagamento, che sia naturale o condizionato, che sia giusto o sia sbagliato … affermo unicamente che è ricerca di appagamento e che è un fatto evidente.

Ma, andando un pochino oltre, cosa accade una volta che l’emozione compare?

S’innesca una reazione, che è sia di movimento fisico, sia di movimento psicologico.

Facciamo un esempio: Supponiamo che quello che c’è, qualsiasi cosa sia, non piaccia.

Entro in relazione con qualcosa o qualcuno e, immediatamente, si presenta una sensazione; in un tempo infinitesimale, una ricerca a tappeto nella banca dati della memoria trova la stessa sensazione, ma associata a qualcosa di noto che, secondo il mio giudizio, non è gradevole. A questo punto “riconosco” la sensazione come spiacevole ed immediatamente, oltre che inevitabilmente, nasce un’emozione, che sarà di repulsione. In seguito a questo, molto probabilmente, nel mio dialogo interiore farà la sua comparsa il desiderio di cambiare quello che c’è – e che non mi piace – in qualcosa che mi piaccia o mi soddisfi di più; per tale ragione, cercherò di darmi da fare, con il duplice scopo di ottenere sia ciò che desidero, sia di mettere fine a ciò che mi disturba.

Ma che cosa accade, in realtà?

In realtà, per prima cosa ho giudicato quello che c’è, poi l’ho rifiutato e quindi ho immaginato qualcosa di diverso che, però, in questo momento non c’è. Successivamente, come reazione, do inizio ad una ricerca e, quindi, ad una lotta per trovarlo, raggiungerlo, conquistarlo, ottenerlo; se osserviamo bene, questo non è che conflitto. Molto semplice, no?

Ciò significa che, nel momento stesso in cui cerco di cambiare quello che c’è con qualcosa che ancora non c’è, creo conflitto.

Pertanto, dire a se stessi: devo riuscire, devo trovare, voglio cambiare, desidero migliorare – e qualsiasi altra istanza del pensiero – non farà altro che rinnovare ed alimentare questo conflitto.

Anche in questo caso, non sto dicendo che se qualcosa non piace bisogna tenersela e non fare nulla; sto unicamente affermando che il fatto reale è “quello che c’è”, mentre il non-fatto è “quello che sarebbe bello che ci fosse” ma che, comunque, al momento non c’è. Punto.

Questo equivale a dire che il presente è quello che c’è, qualunque cosa sia e comunque essa sia.

Il più delle volte, però, attraverso il meccanismo del riconoscimento/memoria/giudizio, noi ci trasciniamo dietro il passato, lo sostituiamo al presente, dopodiché proiettiamo la nostra conoscenza/esperienza/memoria/passato in un tempo che definiamo “futuro”. Infatti, se si osserva con molta attenzione, questo futuro immaginato si rivela essere il nostro conosciuto, che viene modificato nel momento presente, per poi essere proiettato più in là. Diventa, quindi, evidente che si possa proiettare qualcosa solo ed esclusivamente partendo dal noto, cioè dal passato; del resto, come si potrebbe immaginare l’ignoto? E’ semplicemente impossibile.

Difficile? A me pare di no.

Quando, consapevolmente o meno, lasciamo che il meccanismo del tempo psicologico subissi il momento presente, non siamo più in relazione con l’adesso, bensì con il nostro passato.

Questo è il vero addormentamento dell’essere umano.

Dopo aver osservato questo processo … possiamo ancora dire che i tre verbi più usati dagli esseri umani siano privi di conseguenze? Possiamo ancora dire che sono così naturali ed innocenti?

Un fatto non si può discutere, per quanto possa piacere o meno, ed è un fatto che l’attività del pensiero che dice: voglio, devo, desidero … crei unicamente conflitto, dentro e fuori di sé. Punto.

Vogliamo continuare a creare, mantenere e alimentare conflitti, dentro e fuori di noi?

Questa risposta la puoi dare solamente tu.

Grazie.

Sid… Love*

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