Thich Nhat Hanh: Presenza e Condivisione.

La presenza e la condivisione.

“Sono qui per te”

Il dono più prezioso che possiamo offrire agli altri è la nostra presenza. Quando la nostra consapevolezza abbraccia coloro che amiamo, costoro sbocceranno come fiori. Se amate una persona, ma vi rendete raramente disponibili a lei, non si tratta di vero amore. Quando la vostra amata soffre, dovete riconoscerne la sofferenza, l’ansia e le preoccupazioni e questo è già sufficiente a offrire un certo conforto.

La consapevolezza dà sollievo al dolore, perché è traboccante di comprensione e compassione. Quando siete veramente presenti, mostrando amorevolezza e comprensione, l’energia dello Spirito Santo è in voi.

Vivere alla presenza di Dio.

Nella tradizione ebraica la sacralità delle ore dei pasti è posta in grande rilievo. Si cucina, si prepara la tavola e si mangia alla presenza di Dio. “Devozione” è una parola importante nell’ebraismo, perché tutto nella vita è un riflesso di Dio, la sorgente infinita della santità. Il mondo intero, tutte le buone cose nella vita, appartengono a Dio, sicché, quando traete godimento da qualcosa, pensate a Dio e ne godete alla Sua presenza.

Ciò s’avvicina molto alla valorizzazione buddhista dell’inter-essere e dell’interpenetrazione. Quando vi svegliate, siete consapevoli che Dio ha creato il mondo. Quando vedete i raggi del sole che filtrano dalla finestra, riconoscete la presenza di Dio. Quando state in piedi e i piedi toccano per terra, sapete che la terra appartiene a Dio. Quando vi lavate la faccia, sapete che l’acqua è Dio. Devozione è riconoscere che ogni cosa è legata alla presenza di Dio, in ogni momento. Il ‘seder’ (la Pasqua ebraica), per esempio, è il pasto rituale che celebra la liberazione degli israeliti dalla schiavitù d’Egitto e il loro viaggio verso la patria.

Durante il pasto, alcune verdure ed erbe, il sale e altri condimenti, ci aiutano a entrare in contatto con quanto accadde nel passato, con ciò che erano il nostro dolore e la nostra speranza. Questa è una pratica della consapevolezza.

Il pane che mangiamo è l’intero cosmo.

Al pari dell’islam, il cristianesimo è una sorta di prosecuzione dell’ebraismo. Tutti i rami appartengono allo stesso albero. Nel cristianesimo, quando celebriamo l’eucaristia, condividendo il corpo di Dio sotto le specie del pane e del vino, compiamo il rito nello stesso spirito di devozione, di consapevolezza, coscienti del nostro essere vivi, lieti di abitare il momento presente.

Il messaggio di Gesù, durante il ‘seder’, in seguito conosciuto come Ultima Cena, era chiaro. I Suoi discepoli erano andati seguendoLo, avevano avuto la fortuna di guardarLo negli occhi e di vederLo di persona, ma sembra che non fossero ancora entrati in vero contatto con la meravigliosa realtà del Suo essere. Cosicché, quando spezzò il pane e versò il vino, Gesù disse: questo è il Mio corpo, questo è il Mio sangue, bevetene, mangiatene e avrete la vita eterna. Era un modo drastico per risvegliare i Suoi discepoli dalla smemoratezza.

Quando ci guardiamo intorno, osserviamo numerose persone nelle quali non sembra dimorare lo Spirito Santo. Sembrano morte, quasi stessero trascinandosi appresso un cadavere, il loro stesso corpo. La partecipazione all’eucaristia ha lo scopo di aiutare a risorgere queste persone, così che possano raggiungere il Regno della Vita.

In chiesa si riceve l’eucaristia ad ogni messa, viene letto il passo biblico relativo all’Ultima Cena di Gesù con i suoi dodici discepoli e si condivide un tipo speciale di pane, chiamato ostia. Ognuno ne consuma per ricevere la vita del Cristo nel proprio corpo. Quando un sacerdote celebra il rito eucaristico, il suo ruolo è quello di portare la vita alla comunità.

Il miracolo accade non perché egli profferisce correttamente le parole, ma perché siamo consapevoli dell’atto di mangiare e bere..

La Santa Comunione è una possente campana di consapevolezza. Noi beviamo e mangiamo in ogni momento, ma di solito ingeriamo soltanto le nostre idee, progetti, preoccupazioni e ansie. Non mangiamo veramente il nostro pane, o non beviamo la nostra bevanda. Se facciamo in modo di venire profondamente a contatto con il nostro pane, rinasciamo, perché il nostro pane è la vita stessa. Mangiandolo consapevolmente, attingiamo il sole, le nubi, la terra e ogni elemento nel cosmo. Attingiamo la vita e il Regno di Dio.

Quando domandai al cardinale Jean Danielou se l’eucaristia potesse essere descritta in questo modo, egli rispose affermativamente.

Più porte per le generazioni future.

Matteo descrive il Regno di Dio come fosse un minuscolo granello di senape. Ciò significa che il seme del Regno di Dio è dentro di noi. Se sappiamo come piantarlo nel terreno umido delle nostre vite quotidiane, quel seme crescerà e diverrà un grande arbusto, su cui molti uccelli potranno trovare rifugio.

Non dobbiamo morire per giungere alle porte del Paradiso. Dobbiamo invece vivere veramente. La pratica consiste nello stare in profondo contatto con la vita, in modo tale che il Regno di Dio divenga una realtà. Non è questione di devozione, si tratta di una questione di pratica.

Il Regno di Dio è a disposizione, qui e ora. Numerosi passi dei vangeli confortano questa visione. Leggiamo nel Padre Nostro che non andiamo nel Regno di Dio, ma che è il Regno di Dio a venire da noi: “Venga il Tuo regno…”.

Gesù disse: “Io sono la porta”. Egli descrive Se stesso come la porta della salvezza e della vita eterna, la porta del Regno di Dio. Poiché Dio il Figlio è fatto dell’energia dello Spirito Santo, è per noi la porta d’ingresso al Regno di Dio.

Anche il Buddha viene descritto come una porta, un maestro che ci mostra la via in questa vita. Nel buddhismo una simile porta speciale è tenuta in profonda considerazione, perché quella porta ci permette di entrare nel regno della consapevolezza, dell’amorevolezza, della pace e della gioia. Si dice che esistano ottantaquattromila porte del Dharma, porte dell’insegnamento.

Se siete abbastanza fortunati da trovare una porta, non sarebbe molto buddhista affermare che la vostra è l’unica. In realtà, dobbiamo aprire un numero ancor più grande di porte, per le generazioni future. Non dovremmo temere un maggior numero di porte del Dharma: se mai, dovremmo temere che non se ne aprano più. Sarebbe un peccato per i nostri figli e i loro figli se ci ritenessimo soddisfatti con soltanto ottantaquattromila porte già disponibili. Ciascuno di noi, con la sua pratica e la sua amorevolezza, è in grado di aprire nuove porte del Dharma.

La società è in evoluzione, la gente cambia, le condizioni economiche e politiche non sono le stesse dei tempi del Buddha o di Gesù. Il Buddha fa assegnamento su di noi perché il Dharma continui a svilupparsi come un organismo vivente, non un Dharma superato, ma un autentico Dharmakaya, un vero “corpo della dottrina”.

Lo Spirito Santo è l’energia dell’amore e della comprensione.

Per avere un buon Sangha i suoi membri devono vivere in un modo che li aiuti a generare più comprensione e più amore. Se il vostro Sangha si trova in difficoltà, il modo per trasformarlo è quello di cominciare a trasformare voi stessi, di ritornare alla vostra isola del sé, ristorarvi e farvi più comprensivi.

Sarete come la prima candela, che illumina la seconda, che illumina la terza, la quarta e la quinta. Ma, se fate del vostro meglio per praticare questa via e le persone della comunità ancora non hanno la luce, può rivelarsi necessario cercare un altro Sangha, o persino inaugurarne uno nuovo.. Ma non arrendetevi troppo facilmente. Forse non avete praticato abbastanza a fondo la trasformazione di voi stessi in una vivida candela capace di accendere tutte le altre.

Solo quando siete convinti che la creazione di un nuovo Sangha sia l’unica alternativa alla resa, allora è tempo di procedere e creare un nuovo Sangha. Qualsiasi Sangha è migliore di un non-Sangha. Senza un Sangha sarete perduti.

Lo stesso è vero all’interno di una chiesa. Se constatate che lo Spirito Santo non è presente nella vostra chiesa, occorre in primo luogo che compiate lo sforzo per introdurvi lo Spirito Santo, vivendo profondamente gli insegnamenti di Gesù. Ma, se la vostra influenza è nulla, se la pratica nella chiesa non è in accordo con la vita e gli insegnamenti di Gesù, forse è per voi desiderabile riunire coloro che condividono la vostra convinzione e fondare un’altra chiesa, in cui possiate invitare lo Spirito Santo a entrare.

Per essere veramente d’aiuto alla vostra chiesa, o al vostro Sangha, dovete innanzi tutto accendere il vostro fuoco di comprensione, amore, fermezza e tranquillità. Allora riuscirete a ispirare gli altri, o in un gruppo esistente o in uno che contribuirete a fondare. Per favore non praticate l’imperialismo religioso. Anche se possedete un magnifico tempio o una chiesa stupenda, con splendidi ornamenti e opere d’arte, se al loro interno non ci sono tolleranza, felicità, comprensione o amore, si tratta di un falso Sangha, di una falsa chiesa. Continuate, ve ne prego, a fare del vostro meglio.

Praticare e condividere.

Il militante pacifista A.J. Muste ha detto: “Non esiste via alla pace, la pace è la via”. Egli intendeva che possiamo realizzare la pace proprio nel presente con ogni sguardo, sorriso, parola e azione. La pace non è soltanto un fine. Ogni passo che compiamo dovrebbe essere pace, dovrebbe essere gioia, dovrebbe essere felicità.

Precetti e comandamenti ci aiutano a dimorare nella pace, a sapere che cosa fare e non fare nel presente. Sono tesori che ci conducono lungo un sentiero di bellezza, rettitudine e verità. Contengono la sapienza delle nostre tradizioni spirituali e, quando li pratichiamo, le nostre vite diventano genuina espressione della nostra fede e il nostro benessere si fa incoraggiamento per i nostri amici e per la società.

La nostra felicità e quella altrui dipendono non solo da poche persone che diventano consapevoli e responsabili. L’intera nazione deve essere consapevole. Precetti e comandamenti devono essere rispettati e praticati dagli individui e dall’intera nazione. Quando tante famiglie sono lacerate, il tessuto della società è strappato. Di ciò dobbiamo avere una visione profonda, al fine di comprendere la natura di tali precetti e comandamenti.

Tutti devono unirsi nell’opera. Perché il nostro mondo abbia un futuro, abbiamo bisogno di linee di condotta essenziali. Sono la miglior medicina disponibile per difenderci dalla violenza che è in ogni luogo. La pratica dei precetti o dei comandamenti non è una questione di soppressione o limitazione della nostra libertà. I precetti e i comandamenti ci offrono un modo meraviglioso di vivere e possiamo praticarli con gioia. Non si tratta di costringere noi stessi o gli altri all’obbedienza di regole.

Nessuna singola tradizione religiosa monopolizza la verità. Dobbiamo trascegliere i valori migliori di tutte le tradizioni e lavorare insieme per eliminare le tensioni fra le tradizioni stesse, al fine di dare alla pace una possibilità. Dobbiamo unirci e cercare in profondità le vie per aiutare la gente a mettere di nuovo radici. Dobbiamo proporre il miglior piano per la salute fisica, mentale e spirituale della nostra nazione e della terra.

Perché sia possibile un futuro, vi sprono a studiare e mettere in pratica i valori migliori delle vostre tradizioni religiose e a farne partecipi i giovani, in modi a loro comprensibili. Se meditiamo insieme, come famiglia, comunità, città e nazione, riusciremo a identificare le cause della nostra sofferenza e a trovare le vie d’uscita.

Tratto da: “Il Buddha vivente, il Cristo vivente”, di Thich Nhat Hanh

Fonte: https://www.amadeux.it/forum/topic.asp?TOPIC_ID=21655

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