Alan Watts: Niente da capire. 5 di 6.

Terra x Blog + Nero 2015

Non C’è Niente Da Capire. Parte 5.

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Se avessi il coraggio di usare la parola “disciplina”, potrei dire che la disciplina meditativa, lo Za-zen, è quel che sta dietro la straordinaria capacità dei giapponesi di sviluppare arti come il giardinaggio, la composizione floreale, la cerimonia del tè, la calligrafia, la grande pittura della dinastia Sum e della tradizione Sumi ecc.. Perché essi scoprirono la magia nelle più semplici e ordinarie cose della vita quotidiana. Ciò è evidente soprattutto nella cerimonia del tè, in giapponese “cha-no-yu” che significa, alla lettera “acqua calda di tè”.

Scrive il poeta Hokoji: Meraviglioso potere e attività soprannaturale: attinger l’acqua, portar la legna.

Sapete che se si ripete in continuazione una parola, questa diviene insignificante? Prendiamo, per esempio, la parola “sí”: provate a ripetere “sí, sí, sí, sí, sí, sí, sí, sí, sí, sí, sí, sí” per qualche minuto e constaterete che la parola perderà alla vostra mente ogni significato. Per questa ragione nell’addestramento zen si usa la parola “Mu”, che significa no. Ciò va avanti a lungo, finché la parola cessa di avere un significato qualunque e diventa magica.

In ogni caso, il modo più facile per smettere di pensare è, innanzitutto, pensare a qualcosa che non abbia alcun significato, come “mu”. Un altro metodo è di contare i respiri, o di ascoltare un suono che non abbia significato, perché si smette di pensare e si resta affascinati dal suono. Continuando ad ascoltare si arriva al punto in cui il suono svanisce e ci si apre completamente. A questo punto avviene una sorta di cosiddetto satori preliminare, talché potreste pensare “Uao, Eccolo!”. E’ una condizione di felicità, come se si camminasse per l’aria.

Quando chiesero T.D.Suzuki come fosse l’esperienza del satori, rispose: “Beh, è come l’ordinaria esperienza quotidiana, tranne che si sta cinque centimetri sollevati da terra”. Ma c’è un altro detto, secondo cui lo studente che “consegue” il satori va all’inferno come un razzo. Non ci sono satori in giro, perché chiunque “abbia” un’esperienza spirituale, con lo Za-zen o con qualunque altro metodo, se si aggrappa ad essa, pensando: “Adesso l’ho presa”, in quello stesso istante l’esperienza se ne va via dalla finestra, perché cercare di afferrare una cosa viva è come cercare di prendere una manciata d’acqua: più si stringe la presa, più presto sfugge via tra le dita.

Non c’è nulla cui aggrapparsi, perché non c’è nessun bisogno di aggrapparsi a niente. Ciò che cerchi è sempre stato lì, fin dall’inizio. Si può verificarlo con svariati metodi di meditazione, ma il problema è che c’è sempre qualcuno che salta fuori a vantarsi: “Io l’ho visto!”. Ugualmente intollerabili sono gli studenti di Zen che si vantano con gli amici di quanto facciano male le gambe, di quanto a lungo siano stati seduti e che cosa tremenda sia stata quell’esperienza ecc. Sono insopportabili. Perché l’aspetto disciplinare dello Zen non s’ispira alla credenza sadomasochista secondo la quale la sofferenza fa bene perché forma il carattere.

Quando andavo al college in Inghilterra la premessa fondamentale dell’educazione era che la sofferenza serviva alla formazione del carattere; perciò era tollerato, fra l’altro, anche il “nonnismo” che le “matricole” subivano dai ragazzi “anziani”. Questi, dal canto loro, erano convinti di agire per il “bene” dei più giovani e di far loro un favore, perché in tal modo li aiutavano a costruirsi un carattere. Come risultato di quest’impostazione, la parola “disciplina” ha incominciato a puzzare e puzza tutt’ora. Perciò noi oggi abbiamo bisogno di un atteggiamento completamente nuovo verso la disciplina, perché senza questa quiete, senza questo sforzo-senza-sforzo, le nostre vite s’incasinano sempre di più.

Quando, infine, si molla, perché non c’è nulla cui appigliarsi, bisogna stare tremendamente attenti a non sbracare del tutto. Consentitemi di farvi due esempi opposti. Quando si chiede a qualcuno di sdraiarsi sul pavimento e di rilassarsi, si nota, nella maggioranza dei casi, che le persone stanno attentissime perché non si fidano; rimangono così tese, in guardia, come se temessero che il pavimento non regga, o paventassero di trasformarsi all’improvviso in una massa gelatinosa che si sparge in ogni direzione. E poi ci sono altre persone che, al contrario, quando chiedete loro di rilassarsi, s’afflosciano come una pelle di fico.

L’organismo umano, sapete, è una sottile combinazione di morbidezza e durezza, di carne e di ossa. Così, il lato dello Zen che non ha a che fare col fare, né col non fare, bensì col sapere che in ogni modo si è Quello e che non c’è alcun bisogno di cercarlo, è la “carne” zen. Ma per l’altro lato, per cui si può ritornare nel mondo senza cercar più nulla, sapendo di esser Quello senza andare allo sfascio, occorrono ossa.

Qualche tempo fa, quando ci fu la moda dello Zen, si cominciò a fare una pittura tutto-fa-brodo, o una scultura tutto-fa-brodo, fino a imporre a un’intera generazione uno stile di vita tutto-fa-brodo. Adesso, io credo, ci stiamo riprendendo da questa sbornia. I nostri pittori stanno ricominciando a dipingere e stanno ritornando alla meraviglia della forma e del colore. Non si vedeva più nulla del genere dalle vetrate della cattedrale di Chartres! E’ un buon segno. Ma ciò richiede presenza mentale nel nostro uso quotidiano della libertà, e non parlo semplicemente della libertà politica, bensì della libertà conseguente dalla conoscenza che si è Quello per sempre, nei secoli dei secoli. Allora sarà dolce morire perché, sì, ci sarà un cambiamento, ma anche un ritorno in qualche altro modo.

Quando saprete questo, quando avrete visto attraverso l’intero miraggio, allora dovrete stare più in guardia, perché potranno esservi ancora, in voi, alcuni semi di ostilità, alcuni semi di superbia, alcuni semi di desiderio di prevaricare gli altri o semplicemente di sfidare la società. Questo è il motivo per cui nei monasteri zen vengono assegnati vari compiti: ai novizi toccano compiti leggeri e, man mano che diventano anziani, compiti sempre più pesanti. Per esempio l’abate (roshi) è spesso quello che pulisce i gabinetti (benjo). Ogni cosa viene tenuta a posto. C’è una sorta di bellezza, un principesco estetismo, perché in virtù della conservazione continua dell’ordine, la grande energia libera contenuta nel sistema non va sprecata. Fine parte 5.

Alan Watts

Fonte del Post: http://www.crescitainteriore.com/?p=603

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