Alan Watts: La grande corrente.

La grande corrente.

Sembriamo mosche invischiate nel miele. Siccome la vita è dolce, non la vogliamo abbandonare, ma, più vi siamo coinvolti, più ci sentiamo intrappolati, limitati, frustrati. La amiamo e la odiamo a un tempo.

Ci innamoriamo delle persone e delle proprietà solo per essere torturati dall’ansia per esse. Il conflitto non è soltanto fra noi e l’universo che ci circonda; è anche fra noi e noi. L’indocile natura è infatti sia intorno a noi, sia in noi. L’esasperante ‘vita’, che è insieme appassionante ed effimera, piacevole e dolorosa, benedizione e maledizione, è anche la vita del nostro corpo.

E’ come se fossimo divisi in due. Da un lato c’è l’ ‘Io’ cosciente, affascinato e ingannato al tempo stesso, la creatura presa in trappola. Dall’altro c’è il ‘me’ e il ‘me’ appartiene alla natura: la carne ribelle, con tutte le sue limitazioni, simultaneamente belle e frustranti.

L’ ‘Io’ ha un’alta opinione di sé, come persona ragionevole e critica eternamente il ‘me’ per la sua perversità: perché alimenta le passioni che mettono l’ ‘Io’ nei guai, perché va soggetto a malattie irritanti e dolorose, perché ha organi che si logorano e appetiti che non possono mai essere soddisfatti – progettati in modo tale che, se cerchiamo di acquietarli in maniera definitiva e completa in un solo grande ‘seno’, diventiamo ammalati.

Forse, la cosa più esasperante del ‘me’, della natura, dell’universo è la loro continua instabilità: sono come una bella donna che non si fa mai afferrare e il cui fascino sta proprio nella sua incostanza. La caducità e la mutevolezza del mondo sono parti integranti della sua vivacità e bellezza.

Perciò, tanto spesso, i poeti scrivono le loro cose migliori quando parlano di mutamento, di ‘fugacità della vita umana’: La bellezza di una tale poesia sta in qualcosa di più di una nota di nostalgia che dà un nodo alla gola:

I nostri divertimenti sono ora finiti. Questi nostri attori,

come vi avevo annunciato, erano tutti spiriti e

si sono dissolti nell’aria, nell’aria sottile:

e, come l’esile trama di questa visione,

le torri coperte di nuvole, i sontuosi palazzi,

i templi solenni, lo stesso enorme globo,

sì, tutto ciò che esso eredita, svanirà,

e, come questo inconsistente sforzo sbiadito,

non lascerà dietro di sé rovine.

In questa bellezza c’è qualcosa di più che una successione di immagini e il tema della dissoluzione non deriva la sua magnificenza soltanto dal dissolversi delle cose. E’ vero piuttosto che le immagini, pur belle in se stesse, prendono vita nell’atto di svanire. Il poeta le spoglia della loro statica solidità e trasforma una bellezza, che resterebbe altrimenti solo statuaria e architettonica, in una musica che si affievolisce e muore non appena la suoni.

Le torri, i palazzi, i templi diventano vibranti e si spezzano per la troppa vita che è in loro. Passare è vivere; rimanere e continuare è morire. “Se il granello di frumento caduto nella terra non muore, rimane solo; ma se invece muore, produce molto frutto”.

I poeti hanno colto questa verità: vita, mutamento, movimento e insicurezza non sono che nomi diversi della stessa cosa. Qui, se non ovunque, la verità è bellezza, perché movimento e ritmo sono l’essenza d’ogni cosa bella. Nella scultura, architettura e pittura, le forme finite sono immobili e, nondimeno, l’occhio trova piacere nella forma solo quando essa presenta una certa mancanza di simmetria, quando, seppure irrigidita nella pietra, sembra essere in pieno movimento.

Non è allora una strana incongruenza, un innaturale paradosso che l’ ‘Io’ si opponga al mutamento nel ‘me’ e nell’universo circostante?

Il mutamento, infatti, non è pura forza di distruzione. Ogni forma è in realtà un modello di movimento e ogni essere vivente è come il fiume che, se non defluisse, non potrebbe mai fluire. Vita e morte non sono due forze opposte; sono semplicemente due diversi modi di considerare la stessa forza, perché il moto del mutamento è il costruttore nella stessa misura in cui è il distruttore.

Il corpo umano vive perché è un complesso di movimenti, di circolazione, respirazione e digestione. Opporsi al mutamento, cercare di aggrapparsi alla vita è come trattenere il respiro: persistendo ci si uccide.

Quando immaginiamo di essere divisi in un ‘Io’ e un ‘me’, dimentichiamo facilmente che anche la coscienza vive in quanto si muove. E’ parte e prodotto della corrente del mutamento alla stessa stregua del corpo e di tutto il mondo naturale.

Se la esaminiamo attentamente, vediamo che la coscienza – la cosa che chiamiamo l’ ‘Io’ – è in realtà una coscienza di esperienze, di sensazioni, pensieri e sentimenti in costante movimento. Ma, poiché queste esperienze comprendono i ricordi, abbiamo l’impressione che l’ ‘Io’ sia qualcosa di solido e stabile, come una tavola sulla quale la vita scrive una testimonianza.

Invece la ‘tavola’ si muove con il dito che scrive, come il fiume scorre con le sue increspature, sicché il ricordo è come una testimonianza scritta sull’acqua – testimonianza non di lettere incise, ma di onde messe in moto da altre onde, che vengono chiamate sensazioni e fatti.

La differenza tra l’‘Io’ e il ‘me’ è in gran parte un’illusione della memoria. In realtà, l’ ‘Io’ ha la stessa natura del ‘me’. E’ parte del nostro intero essere, come la testa è parte del corpo. Ma se non ce ne rendiamo conto, ci sembrerà che l’ ‘Io’ e il ‘me’, la testa e il corpo siano in disaccordo.

Non comprendendo di appartenere anch’esso alla corrente del mutamento, l’ ‘Io’ cercherà di dare un senso al mondo e all’esperienza, cercando di fissarla. Avremo allora guerra tra coscienza e natura, tra il desiderio della permanenza e la realtà del flusso. Una guerra amaramente vana e frustrante – un circolo vizioso – perché è un conflitto tra due parti della stessa cosa.

Essa guida inevitabilmente il pensiero e l’azione in un moto circolare sempre più rapido, che non porta in alcun luogo. Se infatti non riusciamo a vedere che la nostra vita è mutamento, ci poniamo contro noi stessi e diventiamo come Ouroboros, il serpente indotto in errore, che cerca di mangiarsi la coda.

Ouroboros è il simbolo perenne di ogni circolo vizioso, di ogni tentativo di spaccare il nostro essere e di far sì che una parte soggioghi l’altra. Per quanti sforzi possiamo fare, il ‘fissare’ non ci farà mai capire il significato del mutamento. Il solo modo di capire il significato del mutamento è tuffarsi in esso, muoverci con esso, partecipare alla danza.

La religione, come l’ha conosciuta la maggior parte di noi, ha cercato nel modo più evidente di capire il significato della vita come fissazione. Ha cercato di dare un significato a questo mondo transeunte, riferendolo a un Dio immutabile e vedendone l’obiettivo e lo scopo in una vita immortale, in cui l’individuo diventa tutt’uno con l’invariabile natura della divinità.

“L’eterno riposo dà loro, o Signore, e fa che su di essi splenda la luce perpetua”. Allo stesso modo, essa tenta di dare un senso ai vorticosi movimenti della storia, riferendoli alle stabili leggi di Dio, “il cui Mondo non avrà mai fine”.

Ci siamo così creati un problema, confondendo l’intelligibile con lo stabile. Pensiamo che sia impossibile trovare il significato della vita, a meno che non si riesca in qualche modo a immettere il flusso degli eventi in una struttura di forme rigide.

Per avere un senso, la vita dev’essere comprensibile in termini di idee e leggi stabili e, a loro volta, queste devono corrispondere a realtà immutabili ed eterne, che stanno dietro la scena che cambia.

Nel prosieguo di quest’opera, vedremo come queste idee metafisiche dell’immutabile e dell’eterno possano avere un senso diverso. Esse non implicano, necessariamente, una visione statica della realtà e, seppure si usino di solito come tentativi di ‘fissare il flusso’, non sono sempre state tali.

Ma, se è questo che si intende per “trovare il senso della vita”, ci siamo assunti l’impossibile compito di trarre la stabilità dal fluire.

Prima di cercare se non vi sia un modo migliore per capire il nostro universo, dobbiamo vedere chiaramente come sia avvenuta questa confusione tra ‘senso’ e ‘stabilità’.

Alla radice della difficoltà sta il fatto che abbiamo sviluppato la capacità di pensare in modo così rapido e unilaterale da scordare il giusto rapporto fra pensieri ed eventi, parole e cose. Il pensiero cosciente ha progredito molto e si è creato un proprio mondo; quando constatiamo che questo è in conflitto con il mondo della realtà, abbiamo l’impressione che vi sia un profondo disaccordo tra l’ ‘Io’, il pensatore cosciente e la natura. Questo sviluppo unilaterale dell’uomo non è peculiare degli intellettuali e dei ‘cervelloni’, che sono solo gli esempi estremi di una tendenza che riguarda tutta la nostra civiltà.

Abbiamo scordato che pensieri e parole sono convenzioni e che è funesto prendere troppo sul serio le convenzioni. La convenzione è una comodità sociale, per esempio il denaro. Il denaro libera dal disturbo del baratto. Ma è assurdo prendere troppo sul serio il denaro, confonderlo con un bene reale, perché non possiamo certo mangiarlo né usarlo come indumento.

Il denaro è più o meno statico, perché l’oro, l’argento, le banconote o un conto in banca possono rimanere stabili a lungo. Ma un bene reale, come il cibo, è deperibile. Una comunità può possedere tutto l’oro del mondo, ma, se non coltiva le sue messi, muore di fame.

Pressappoco allo stesso modo, pensieri, idee e parole sono ‘monete’ per le cose reali. Non sono queste cose e, anche se le rappresentano sotto molti aspetti, non vi corrispondono affatto. Tra pensieri e cose c’è lo stesso rapporto che tra denaro e beni: le idee e le parole sono più o meno stabili, mentre le cose reali cambiano.

E’ più facile dire ‘Io’ che richiamare l’attenzione sul proprio corpo; dire ‘fame’ che cercare di indicare la vaga sensazione nella bocca e nello stomaco. E più comodo dire ‘acqua’ che portare l’amico al pozzo e compiere i gesti del caso. E’ anche comodo convenire di usare le stesse parole per le stesse cose e lasciare queste parole immutate, anche se le cose che esse indicano sono in costante movimento.

Da principio, il potere delle parole dev’essere sembrato magico: impressione pianamente giustificata dai miracoli compiuti dal pensiero verbale. Che meraviglia dev’essere stata la possibilità di sbarazzarsi del linguaggio dei segni e di chiamare un amico emettendo un breve suono: il suo nome!

Non stupisce che i nomi siano stati considerati manifestazioni misteriose di un potere sovrannaturale e che gli uomini abbiamo identificato il loro nome con la loro anima o se ne siano serviti per invocare delle forze spirituali.

In effetti, il potere delle parole ha dato alla testa all’uomo in vari modi. Definire è giunto a significare quasi la stessa cosa che capire. Anche più importante è il fatto che le parole abbiano reso l’uomo capace di definirsi, di etichettare come ‘Io’ una certa parte della sua esperienza.

E’ questo, forse, il significato dell’antica credenza che il nome sia l’anima. In effetti, definire è isolare, è separare un complesso di forme dalla corrente della vita e dire: “Questo sono io”. Quando l’uomo riesce a darsi un nome e a definirsi, si accorge di avere un’identità. Allora comincia a sentirsi, come la parola, separato e statico, in netta contrapposizione al reale e fluido mondo della natura.

Con il senso di separatezza nasce anche la sensazione di un conflitto, fra l’uomo da un lato e la natura dall’altro. Linguaggio e pensiero vengono alle prese con questo conflitto e si applica ora all’universo intero quel potere magico che permette di chiamare un uomo nominandolo.

Le forze dell’universo ricevono un nome, sono personalizzate e invocate nella mitologia e nella religione. I processi naturali sono resi intelligibili, perché tutti i processi regolari – come la rotazione delle stelle e delle stagioni – possono essere messi in parole e attribuiti all’attività degli dei o di Dio, il Mondo eterno.

In un secondo tempo la scienza impiegherà lo stesso procedimento: studierà ogni tipo di regolarità nell’universo, stabilirà nomi e classificazioni e se ne servirà in modo anche più miracoloso.

Ma poiché è proprio dell’uso e della natura delle parole e dei pensieri il fatto di essere fissati, definiti, isolati, è estremamente arduo descrivere la più importante caratteristica della vita: il suo movimento e la sua fluidità.

Così come il denaro non rappresenta la deperibilità e la commestibilità del cibo, così le parole e i pensieri non rappresentano la vitalità della vita. Il rapporto fra pensiero e movimento è qualcosa di simile alla differenza che passa tra un uomo reale che corra e una pellicola cinematografica che mostri la corsa come una serie di fotogrammi.

Ricorriamo alle convenzioni dei fotogrammi ogni qual volta vogliamo descrivere o pensare un corpo in movimento, per esempio, un treno, specificando che in quei dati momenti esso si trova in quei dati luoghi. Ma, in realtà, le cose non stanno così.

Possiamo dire che un treno si trova in un particolare punto ‘adesso’. Ma ci occorre un certo tempo per dire ‘adesso’ e, durante questo tempo, anche se breve, il treno ha continuato a muoversi. Possiamo dire che il treno in movimento è (ossia sta fermo) in un particolare punto per un particolare istante, ma solo se entrambi sono infinitamente piccoli. Ma i punti infinitamente piccoli e gli istanti fissi sono sempre immaginari, appartengono alla teoria matematica, piuttosto che al mondo della realtà.

Per il calcolo scientifico la cosa più comoda è concepire il movimento come una serie di piccolissimi scatti o fotogrammi. Ma sorge una confusione quando il mondo descritto e misurato con queste convenzioni viene identificato con il mondo dell’esperienza.

Una serie di fotogrammi, a meno che non venga mossa rapidamente davanti ai nostri occhi, non ci dà l’essenziale vitalità e bellezza del movimento. La definizione, la descrizione tralascia la cosa più importante.

Per quanto queste convenzioni siano utili ai fini del calcolo, del linguaggio e della logica, sorgono delle assurdità se pensiamo che il tipo di linguaggio che usiamo, o il tipo di logica con cui ragioniamo, possano effettivamente definire o spiegare il mondo ‘fisico’.

La frustrazione dell’uomo è in parte dovuta al fatto che egli si è abituato ad attendersi che il linguaggio e il pensiero gli offrano spiegazioni che non possono dare. Volere che la vita sia ‘intelligibile’ in questo senso significa volere che essa sia qualcosa di diverso dalla vita. Significa preferire il film all’uomo reale che sta correndo.

Considerare la vita senza significato, se l’ ‘Io’ non può essere permanente, è come essersi innamorati disperatamente di un millimetro.

Parole e misure non danno la vita: si limitano a simboleggiarla. Perciò, tutte le ‘spiegazioni’ dell’universo espresse col linguaggio sono circolari e lasciano inspiegato e indefinito l’essenziale. Lo stesso dizionario è circolare, perché definisce le parole in termini di altre parole.

Il dizionario si avvicina un po’ di più alla vita quando di certi vocaboli ci dà anche l’immagine illustrata. Ma si noterà che tutte le illustrazioni dei dizionari riguardano sostantivi anziché verbi. L’illustrazione del verbo correre dovrebbe essere una serie di fotogrammi, come nei fumetti, poiché le parole e le immagini statiche non possono né definire né spiegare il movimento.

Anche i sostantivi sono convenzioni, Non definiamo questo ‘qualcosa’ di reale, di vivo associandovi il suono uomo. Quando diciamo: “Questo (indicandolo con il dito) è un uomo”, la cosa che indichiamo non è l’uomo. Per essere più chiari avremmo dovuto dire: “Questo è simboleggiato dal suono uomo”.

Ma allora, cos’è questo? Non lo sappiamo. Ossia, non lo possiamo definire in alcun modo stabile, anche se, in un altro senso, lo conosciamo come nostra esperienza diretta – un processo che fluisce senza principio o fine definibili. Solo la convenzione mi persuade che sono semplicemente questo corpo, legato allo spazio dell’epidermide e al tempo dalla nascita e dalla morte.

Dove comincio e dove finisco nello spazio? Ho rapporti con il sole e l’aria che, per la mia esistenza, sono parti altrettanto vitali che il mio cuore. Il movimento di cui sono un elemento o una spira ha avuto inizio in un’epoca infinitamente anteriore all’evento (isolato convenzionalmente) chiamato nascita e continuerà a lungo dopo l’evento chiamato morte.

Solo le parole e le convenzioni ci possono isolare da quel qualcosa di assolutamente indefinibile che è il tutto. Orbene, queste sono parole utili sino a quando le trattiamo come convenzioni e le usiamo come le linee immaginarie della latitudine e della longitudine tracciate sulle carte geografiche, ma che non troviamo certo sulla faccia della terra.

In pratica, però, siamo tutti stregati dalle parole. Le confondiamo con il mondo reale e cerchiamo di vivere nel mondo reale, come se fosse il mondo delle parole. Di conseguenza restiamo sorpresi e sgomenti quando esse sono inadeguate.

Più cerchiamo di vivere nel mondo delle parole e più ci sentiamo isolati e soli e rinunciamo alla gioia e alla vitalità delle cose in cambio della pura certezza e sicurezza. D’altra parte, più siamo costretti a riconoscere che viviamo effettivamente nel mondo reale, più ci sentiamo ignoranti, incerti, insicuri verso ogni cosa.

Ma non può esservi salute mentale sino a quando non si scorga la differenza tra i due mondi. La portata e la finalità della scienza sono disgraziatamente travisate se l’universo che essa descrive viene confuso con l’universo in cui vive l’uomo.

La scienza parla di un simbolo dell’universo reale e questo simbolo ha pressappoco la stessa utilità del denaro. E’ un comodo accorgimento che, nelle disposizioni pratiche, consente un risparmio di tempo. Ma se si confondono denaro e sostanze, realtà e scienza, il simbolo diventa uno svantaggio.

Allo stesso modo, l’universo descritto nella religione formale, dogmatica, non è che un simbolo del mondo reale, essendo formato anch’esso di distinzioni verbali e convenzionali. Separare ‘questa persona’ dal resto dell’universo è fare una separazione convenzionale. Volere che ‘questa persona’ sia eterna è volere che le parole siano la realtà e sostenere che una convenzione dura per sempre.

Agogniamo alla perpetuità di qualcosa che non è mai esistito. La scienza ha ‘distrutto’ il simbolo religioso del mondo perché, quando si confondono i simboli con la realtà, i vari modi di simboleggiare la realtà sembreranno contraddittori.

La maniera scientifica di simboleggiare il mondo si attaglia meglio alle finalità utilitarie che alla vita religiosa, ma ciò non significa che contenga più ‘verità’.

E’ più vero classificare i conigli secondo il tipo di alimentazione o secondo il pelo? Dipende da ciò che se ne vuol fare. Il contrasto tra scienza e religione non ha mostrato che la religione è falsa e la scienza è vera. Ha mostrato che tutti i sistemi di definizione sono relativi a vari scopi e che, di fatto, nessuno di essi ‘coglie’ la realtà. E poiché si stava facendo cattivo uso della religione, come mezzo per cogliere e possedere effettivamente il mistero della vita, era assolutamente necessario un certo ‘ridimensionamento’.

Ma sembra che, cercando di simboleggiare l’universo in questo o in quel modo, per questo o quello scopo, noi abbiamo perso la vera gioia e il vero significato della vita stessa.

Le varie definizioni dell’universo hanno tutte un motivo recondito: riguardano più il futuro che il presente. La religione vuole assicurare il futuro oltre la morte, mentre la scienza vuole assicurarlo fino alla morte e rimandare la morte.

Ma il domani e i progetti per il domani possono restare senza alcuna importanza, se non siamo in pieno contatto con la realtà del presente, perché è nel presente e solo nel presente che viviamo. Non c’è altra realtà che la realtà presente, per cui, se anche dovessimo vivere per un tempo senza fine, vivere per il futuro significherebbe continuare eternamente a non capire la vita.

Ma è proprio questa realtà del presente, questo adesso in movimento, vitale, a eludere ogni definizione e descrizione. Ecco il misterioso mondo reale, che le parole e le idee non possono mai immobilizzare.

Vivendo sempre nel futuro non siamo in contatto con questa sorgente e centro di vita, con il risultato che ogni magia del denominare e del pensare è quasi giunta al collasso.

I miracoli della tecnologia ci fanno vivere in un mondo febbrile, meccanico, che fa violenza alla biologia umana, rendendoci atti a non far altro che inseguire, sempre più in fretta, il futuro. Il pensiero calcolato si sente incapace di controllore l’insorgere della bestia nell’uomo – una bestia più ‘bestiale’ di ogni creatura del mondo selvaggio, resa furibonda ed esasperata dal perseguimento delle illusioni.

La specializzazione del frasario, della classificazione, del pensiero automatizzato ha fatto perdere all’uomo il contatto con molte delle meravigliose facoltà dell’istinto che governano il suo corpo. Gli ha anche dato l’impressione d’essere completamente separato dall’universo e dal suo stesso ‘me’.

Così, mentre ogni filosofia si è dissolta nel relativismo e non riesce più a dare un senso stabile all’universo, l’ ‘Io’ isolato si sente miseramente insicuro e impaurito, accorgendosi che il mondo reale è in netta contraddizione con tutto il proprio essere.

Certo, non c’è niente di nuovo in questa triste situazione della scoperta che le idee e le parole non possono aderire ai misteri ultimi della vita, che la Realtà o, se si preferisce, Dio, non può essere compresa dalla mente finita. L’unica novità è che ora questa situazione è sociale anziché individuale, è avvertita da molti, non limitata a pochi.

Quasi tutte le tradizioni spirituali riconoscono che, a un certo punto, devono accadere due cose: l’uomo deve rinunciare al proprio ‘Io’ separatamente-senziente e affrontare il fatto che non può conoscere, ossia definire, il fondamento supremo.

Queste tradizioni riconoscono anche che, al di là di questo punto, c’è una ‘visione di Dio’ che non può essere espressa a parole e che certo è assai diversa dal fatto di percepire un signore splendente in un trono d’oro o un vero e proprio lampo di luce abbagliante.

Indicano anche che questa visione è il ripristino di qualcosa che avevamo e che abbiamo ‘perso’ perché non lo apprezzavamo o non sapevamo apprezzarlo. Questa visione è dunque la limpida consapevolezza di questo indefinibile ‘qualcosa’ che chiamiamo vita, realtà presente, la grande corrente, l’eterno ora – una consapevolezza senza il sentimento di esserne separati.

Nel momento in cui lo nomino, esso non è più Dio; è uomo, albero, verde, nero, rosso, molle, duro, lungo, corto, atomo, universo. Saremmo senz’altro d’accordo con ogni teologo il quale deplori il panteismo sul fatto che questi elementi che appartengono al mondo del lessico e della convenzione, queste svariate ‘cose’ concepite come entità stabili e distinte, non sono Dio.

Se mi chiedi di mostrarti Dio, ti indicherò il sole, o un albero o un verme. Ma se dici “Intendi dire, allora, che Dio è il sole, l’albero, il verme e tutte le altre cose?”, dovrò risponderti che sei completamente fuori strada.

Tratto da: “La Saggezza del Dubbio, Messaggio per l’Età dell’Angoscia”, di Alan W. Watts

Fonte: http://www.rebirthing-milano.it/brani-traduzioni/messaggio-per-leta-dellangoscia-da-la-saggezza-del-dubbio-di-alan-w-watts/

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