B. Alan Wallace: Coltivare l’equanimità.

Il significato di Equanimità.

Coltivare l’equanimità serve da antidoto a due delle principali affezioni mentali: l’attaccamento e l’avversione.

L’attaccamento include l’aggrapparsi alla serenità trasmessa dallo samatha e l’avversione può sorgere se si considerano spiacevoli ostacoli al proprio benessere tutte le distrazioni dalla pratica spirituale, comprese le altre persone.

L’equanimità, la cui essenza è l’imparzialità, consente invece all’amorevole gentilezza, alla compassione e alla gioia empatica di espandersi illimitatamente. In genere, queste qualità sono frammiste all’attaccamento, ma possiamo superare tale afflizione mentale comprendendo che ogni essere senziente è ugualmente degno di trovare la felicità e di liberarsi dalla sofferenza.

Nel buddhismo si ritiene che concepire il proprio sé come un ‘io’ immutabile, unitario e indipendente sia causa radice della sofferenza. Aggrapparsi a quest’illusorio io autonomo porta alla convinzione che il nostro benessere sia più importante di quello altrui.

Normalmente, viviamo suddividendo gli affetti in una serie d’anelli concentrici, dove noi stessi siamo posizionati nel mezzo. L’anello più vicino al centro include i nostri cari e gli amici intimi, quello successivo la cerchia dei conoscenti. Più in là si trova il vasto anello delle persone che ci sono indifferenti, mentre l’anello più esterno comprende quanti consideriamo nemici, ovvero gli individui che, secondo noi, hanno ostacolato o potrebbero ostacolare il nostro desiderio di essere felici.

Questo modo di stabilire l’ordine di priorità degli affetti personali perpetua il nostro egocentrismo, ma l’equanimità permette di superare tale difetto e le sue conseguenze, cioè l’attaccamento o l’avversione nei confronti degli altri.

La prima volta che mi recai a meditare in una casupola sui monti sopra Dharamsala, feci visita all’eremita tibetano Gen Jhampa Wangdü. Nella primavera del 1959, poco dopo la rivolta tibetana contro l’invasione comunista del Tibet, Jhampa Wangdü abbandonò la terra natia per riprendere in India la sua vita di yogi.

Il giorno del nostro primo incontro nel suo eremo rimasi molto colpito. Poiché non era in stretto ritiro, sapevo che non l’avrei disturbato arrivando a mezzogiorno. Quando bussai alla porta, mi aprì un piccolo uomo che ricordava un personaggio del film Guerre stellari, Yoda. Il suo volto era illuminato da un grande sorriso affettuoso, quasi rivedesse un figlio scomparso da lungo tempo e finalmente ritornato a casa. Irradiava. felicità e gentilezza e, invitatomi a entrare, mi offrì un tè.

In altre circostanze, avrei potuto sentirmi una persona speciale o pensare che l’eremita avesse per me una particolare simpatia. In realtà però capii che, per quanto genuini, la compassione e il calore umano di Jhampa Wangdü erano totalmente liberi da attaccamento personale.

Immagino che avrebbe ricevuto chiunque nello stesso modo, ma sapere questo non rendeva meno dolce la sua accoglienza. Fu un’esperienza d’amore incondizionato, vera chiave per la felicità in tutte le circostanze. Ecco come i mistici solitari si mantengono in connessione con gli altri, a dispetto dell’isolamento e delle privazioni che caratterizzano la loro vita.

È anche sorprendente quanto i meditanti realizzati siano liberi dall’impazienza, una volta affrancatisi dall’atteggiamento mentale che porta sempre a domandarsi: “Siamo ancora a questo punto?”.

Dato che la meditazione è il loro stile di vita, possono anche meditare dodici ore al giorno o più, fino a raggiungere l’illuminazione. Questa è la loro routine quotidiana, non cercano il successo scrutando con ansia il calendario nella speranza di risultati veloci.

In effetti, il verbo tibetano drupa, in genere tradotto ‘praticare’, significa anche `realizzare’. Quando gli si chiede cosa stia facendo, un mistico potrebbe pertanto rispondere: “Sto praticando e realizzando lo samatha” . La pratica coincide con la realizzazione.

Nelle nostre comuni condizioni d’esistenza, costellate d’impegni familiari e professionali, è essenziale integrare nella vita quotidiana la saggezza degli insegnamenti buddhisti, così da riuscire ogni giorno, come esperti meditanti, a ‘praticare e realizzare’.

A questo scopo, occorre intendere la pratica spirituale in un’accezione assai ampia, giacché non si tratta solo di meditare seduti su un cuscino: anche riposare, passeggiare o ascoltare musica può giovare a cuore, corpo e mente e, con una motivazione altruistica, tutta la vita può risultare permeata di pratica spirituale.

Nell’ottica della psicologia moderna, è sconcertante come i meditanti riescano a vivere per anni in solitudine senza cadere nella depressione, nell’apatia o nella confusione mentale. In verità, ottengono tale risultato in quanto attingono a una fonte interiore di serenità, una fonte che loro stessi alimentano e che calma corpo e mente, dissolvendo ogni senso d’impazienza o aspettativa.

Stabilizzandoci profondamente nella calma e nella luminosa quiete della consapevolezza, anche noi sentiremo scaturire una sorgente interiore d’autentico benessere, grazie a cui si dileguerà ogni senso di solitudine, depressione o disagio mentale.

Coltivare l’equanimità significa imparare a considerare tutti con imparzialità; nessuno ci è estraneo. Quando trent’anni fa Gen Jhampa Wangdü mi aprì la porta, il suo sorriso cordiale e la sua cortese ospitalità emanavano equanimità. È una capacità che ciascuno può scoprire in sé.

Tratto da: “La rivoluzione dell’attenzione. Liberare il potere della mente concentrata“, di B. Alan Wallace

Fonte: https://zeninthecity.org/letture/autori-vari/b-alan-wallace-il-significato-di-equanimita/

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