I Sat Guru e le loro risposte “incoerenti” ai ricercatori.

I Sat Guru e come si rivolgono ai ricercatori.

Si sente spesso esprimere sconcerto quando alcune persone, leggendo i dialoghi di vari noti sat-guru (che hanno realizzato totalmente l’Assoluto) danno indicazioni contrastanti alla realizzazione della nostra vera unica natura: essi sembrano, non solo essere in disaccordo sui metodi, ma soprattutto danno risposte diverse e contradditorie.

Tuttavia, il loro scopo ultimo non è di attrarre e mantenere a lungo studenti ai loro piedi, ma di rompere il chiacchiericcio mentale o le paratie intellettuali, spesso molto resistenti. Dipende anche dal momento in cui avviene il dialogo, poiché alcuni ricercatori hanno certamente scoperto l’evidenza di una Realtà oltre l’intelletto, ma ancora cercano di rimanere a livello psicologico o più superficiale e non afferrano la freccia dura e avvelenata che li uccide mentalmente.

Un esempio è l’ “Io Sono Quello”, i primissimi dialoghi raccolti da Maurice Friedman – che Nisargadatta Maharaj, anni dopo, lui stesso commenta come ancora non abbastanza profondi. Il livello cui poi è arrivato stabilizzandosi lo si nota negli ultimi dialoghi, trascritti da Jean Dunn, dove demolisce qualunque concetto possa essere sorto.

Inoltre, è chiaro anche nei video che ad alcuni consiglia di meditare molto, ad altri il semplice rimanere nell’’Io-sono”, senza interferenze di pensiero. Ad alcuni parla di Coscienza Cosmica, ad altri la definisce ancora l’effetto ipnotico di un’illusione. Si descrive come “realizzato” o che ha “realizzato la sua vera natura”, rivolgendosi a persone ancora inesperte della questione, per poi ricusare il fatto, considerando l’illuminazione o realizzazione un concetto utile solo per poterlo definire, ma inconsistente. Non esiste infatti “nessun realizzato e nessuna realizzazione” perché induce a credere che è uno stato da raggiungere, il che è falso.

Ranjit Maharaj co-discepolo di Nisargadatta, che, pur avendo realizzato da giovane la sua vera natura, dopo aver frequentato per breve tempo Siddharameshwar Maharaj, iniziò a parlare dietro insistenti richieste di alcuni discepoli di Nisargadatta, solo dopo la sua morte. A una domanda di uno studente poteva dilungarsi a dismisura, ripetendo all’infinito che c’è “Solo Lui”, mentre ad altri rispondeva in modo vivace, rapido, dicendo che lui stesso era la più grande delle illusioni e che Nulla È e non è mai stato. Tutto è vacuità e anche l’essere deve sparire nel non-essere e poi entrambi svanire.

Molti si soffermavano sul fatto di vedere questo ”LUI”, come Dio, che è onnipresente e trovavano un senso di appagamento, come un cristiano devoto che s’inchina davanti a un altare: ma questo era ancora un tranello della “coscienza” o senso di essere, che in definitiva è ancora il concetto primordiale, da eliminare in seguito.

La devozione per molti è certamente assai importante, per sopprimere il bisogno dell’intelletto di analizzare o immagazzinare nelle nozioni protettrici, imparate e mentali. Si tratta di dimenticarsi dell’ego onnipresente, spesso ben camuffato e fondersi in ciò che è inconcepibile.

Sidharameshwar Maharaj, il maestro di entrambi, era solito spiegare in dettaglio la composizione dei vari corpi, sottili, mentali, astrali, causali e supra-causali, per cercare in essi la presenza di un IO. Alla fine dimostrava che l’io era introvabile in nessuno di essi. Intanto però alcuni occidentali durante la lettura dei suoi dialoghi, rimanevano estasiati dalla precisione della descrizione e perdevano il vero senso dei discorsi.

Nessuno di essi acconsentì a creare né ashram, né organizzazioni spirituali o pedagogiche.

Nei dialoghi di Ramana Maharshi la situazione era simile. Egli acconsentì a lasciar creare un sito in cui potessero alloggiare persone venute da lontano, in un luogo assai inabitato a quei tempi. Folle di ricercatori, ma anche di curiosi o di scettici venivano da lui ed egli immancabilmente mostrava loro o diceva quello che avevano bisogno di sentire.

Questo appariva a volte sconcertante per chi leggeva le traduzioni, poiché appariva spesso una certa incoerenza, che tuttavia non lo era affatto, data la circostanza e il personaggio. Si raccontano a proposito molti aneddoti in cui, riguardo ad alcune persone che all’inizio si sprofondavano in inchini e genuflessioni, egli esprimeva dubbio e dichiarava che si sarebbe visto il risultato dopo qualche tempo.

Infatti, la persona che restava nell’ashram cominciava poi a borbottare, poi a lagnarsi apertamente e infine far fagotto e partire molto arrabbiata. Un aneddoto noto fu quello di una persona che arrivò e fece una grossa donazione all’ashram. Rimase a lungo, ma un giorno dopo essersi abbandonata a critiche veementi, chiese che le restituissero i soldi donati. A questo con calma Ramana rispose di renderle tutto il dovuto, aggiungendo un po’ di soldi in più. Alla domanda del perché di quel gesto, Ramana rispose che probabilmente lei ne avrebbe avuto bisogno in futuro. L’insegnamento fu: “Quello che si dà ci torna indietro e quello che si toglie ci viene tolto”.

Robert Adams, americano – che fin da bambino non credeva alla realtà del suo corpo e del perché si ostinavano a farglielo credere – si era realizzato da adolescente e raccontava che quando era ancora molto piccolo, vedeva vicino al suo lettino uno strano omino barbuto che gli parlava una lingua ignota, diversa da quella materna. Un giorno, intorno ai diciassette anni, mentre era in cerca di un libro in una biblioteca, il suo sguardo cadde su una foto di un vecchio con la barba che assomigliava enormemente al vecchio ignoto che vedeva da bambino: era Ramana Maharshi.

Poco tempo dopo decise di partire per l’India e incontrarlo, dato che era ancora vivo. Non aveva soldi, ma poco dopo la sua decisione, una vecchia zia morì e gli lasciò una piccola eredità, che gli servì a pagare il suo viaggio. In realtà tutto si svolge come dev’essere, senza dover credere a una nostra decisione consapevole.

Robert, tornato da un lunghissimo soggiorno presso il Maharshi, cominciò a radunare a casa sua qualche persona interessata e a rispondere alle domande sempre più frequenti dei vari studenti e visitatori. Sposato, con una figlia, viveva senza molte risorse, ma si accontentava e dichiarava che per lui tutto era solo un film che osservava e che non voleva certo disturbare.

Ogni studente riceveva la risposta che gli spettava: spesso parlava di Coscienza cosmica e Beatitudine infinita dello stato senza nome, ma poi affermava ad alcuni, più addentro nelle questioni profonde, che tutto era assolutamente un’enorme ipnosi, coscienza compresa. Il senso di gioia era solo un sottoprodotto che non corrispondeva alla Realtà inconoscibile e inafferrabile che siamo.

Quando si leggono i suoi dialoghi appare spesso una discrepanza nelle repliche, ma a volte, lo spiegava lui stesso, che non poteva dare le stesse risposte a chi era solo all’inizio, cui raccomandava molta meditazione, mentre ad altri suggeriva soprattutto la domanda-chiave proposta da Ramana, quella di chiedersi costantemente: “A chi succede questo?”, rimanendo soprattutto senza attendere nessuna risposta. In quel modo il falso ego, pacco di memorie accumulate, non poteva avere spazio e, poco alla volta, si spegneva.

Il danese Sorensen, fìglio di poveri contadini, fu un altro che fin da bambino rifiutò l’educazione intellettuale ed ecclesiastica. Diventò giardiniere – perché soprattutto a suo agio nella natura e nel silenzio – e gli fu in seguito richiesto da un signore inglese di occuparsi del suo parco in Inghilterra.

Un giorno, il famoso poeta indiano Tagore, venne in visita in quella dimora e, passeggiando nel giardino, incontrò Sorensen e volle discorrere con lui. Interessato dal suo modo di vedere, gli propose in seguito di venire da lui in India e di conoscere… il silenzio! Al che, con calma, Sorensen gli rispose: “Ma… sono il silenzio!”.

In seguito, dopo qualche anno, partì per l’India e si stabilì in un eremo himalayano, non disdegnò le visite occasionali, ma per molti rimase difficile capirlo, per il suo linguaggio enigmatico, che ad alcuni appariva perfino confuso: egli viveva in quel ”non-stato” per cui gli era perfino difficile esprimersi in termini linguistici comprensibili.

Un altro fenomeno di cui si è abbondantemente parlato fu Uppaluri Gopala Krishnamurti. Indiano, da giovane aveva praticato fino a quasi impazzire tra rituali e meditazioni, vivendo nella società teosofica in cui vi era la sua famiglia, ma fu presto disgustato da tutte le pratiche, poiché un giorno vide uno zio il quale, mentre stava meditando ed essendo disturbato dal pianto di un bimbo, si alzò e andò a dargli uno schiaffo.

Si rifiutava di accettare la superficialità e l’ipocrisia del mondo spirituale. Vagò per il mondo, rimase senza un soldo e fu rispedito da Londra fino all’ambasciata indiana in Svizzera, dove una donna lo raccolse, gli diede alloggio e con la quale finì col convivere, anche se perseguitato da strane coincidenze, visioni e la condizione in cui non riusciva più a riconoscere gli oggetti attorno a lui.

Aveva comunque fatto della sua vita una ricerca assillante della realtà essenziale, ma senza risultati. Un giorno, mentre contemplava un magnifico paesaggio montano, all’improvviso comprese che proprio quella ricerca era ciò che gli aveva impedito di annullare tutto il conosciuto. Era il ricercatore, la “palla al piede”. Non vi era “nessuno stato e nessuna origine”. Tutta la spiritualità andava in frantumi e questo assomigliava molto a quanto Nisargadatta diceva a pochi, ossia che la spiritualità era da buttare nel lavello con l’acqua sporca!

U.G. – come si era abituato a chiamarsi – si arrabbiava quando gli si parlava di tutti quei noti guru, da cui era andato anni prima per un consiglio e che gli avevano dato risposte evasive, forse per una ragione che a noi è oscura, dato che all’epoca era ancora un ricercatore quasi disperato. Forse è proprio quello che lo fece entrare più in profondità in se stesso, senza appigli esterni, come succede spesso.

Era caustico con tutti, soprattutto con Jiddu Krishnamurti (che stava a poca distanza dalla sua abitazione provvisoria – e che aveva poi fondato organizzazioni e fondazioni che contraddicevano la legge di semplicità insita nell’insegnamento) ma se gli si poneva una domanda seria, cambiava tono ed era chiarissimo, ne fui sconcertata io stessa.

La sua casa era aperta, come un bar della stazione. Una volta entrai nel salottino in cui raccontava storielle con degli amici e timidamente gli posi una domanda sulla coscienza. Rimase un attimo in silenzio e mi fulminò con un mezzo sorriso rispondendomi: “Non capisco cosa ci faccia qui dentro, in un così bella giornata!” Poi aggiunse che non esisteva nessuna coscienza e che era solo un’impressione, un pensiero, una conoscenza. (lo racconto nel mio libro “I non guru…”)

All’epoca non ero ancora abituata agli ultimi dialoghi di Nisargadatta, in cui lo ripete spesso, per cui mi “lavorai dentro di me” la risposta, con grande intensità. Nei suoi dialoghi rifiutava tutto e tutti, perché faceva capire che non serve attaccarsi a questo o quel guru, insegnante o simile – giudicando inoltre quello che fa o dice a determinate persone – perché questo è sempre un tranello del pensiero.

Ripeteva sempre che lui non poteva fare nulla per nessuno e che l’io cerca solo stampelle e piacere. La ricerca della realizzazione ultima era ancora un bisogno di continuità. Senza pensiero, senza punto di riferimento (inventato), non ci può essere continuità e quindi nessun io. “Si usa, certo, ripeteva, ma mi serve al momento, se devo comprare il biglietto per il treno o comprare le carote al mercato!”

“Ogni volta che un pensiero nasce, voi nascete”, diceva. Lui viveva un non-stato che si adattava solo alle circostanze o esigenze del momento e allora il pensiero poteva esprimersi. Altrimenti… non c’era nulla. (In questo assomigliava ad Adams). “Il mondo non è un’illusione, ma è tutto quello che si riferisce a un punto di riferimento (immaginario o imparato) che è illusorio, è condannato ad essere un’illusione. Se non c’è un punto di origine, non c’è circonferenza”. In questo confermava la fisica quantistica, senza conoscerla: se non c’è osservatore l’atomo è un fantasma.

Impossibile giudicarlo, nemmeno lontanamente, tranne dire che davvero egli non esisteva più. Si comportava con cortesia, se necessario al momento, ma con estrema virulenza quando si trattava di spingere le persone lontane da qualsiasi guru o insegnante spirituale, poiché per lui era solo un’impostura della mente per mantenersi in sella, con la credulità di essere al riparo, seguendo questo o quel mentore.

Si capiva poi che il vero lavoro era di respingere qualsiasi insegnamento, tranne quello di indagare in se stessi o al massimo qualche frase anonima di un sat-guru, che, come una freccia avvelenata, cancellava ogni nozione precedente o imparata.

(Un’ ottima trascrizione e commento in francese di J.M Terdjman si trova nel libro: U.G. Le dos au mur, le mythe de la perfection – Les deux océans- Paris – oltre a tutti i notevoli ricordi e scritti di PierLuigi Piazza che lo seguì per anni, mostrandone tutte le sfaccettature inedite).

Isabella di Soragna

Fonte: http://www.isabelladisoragna.com/articoli/i-sat-guru/

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