Ajahn Sumedho: La libertà del cuore.

La libertà del cuore.

Molte persone si servono del concetto di libertà come ideale da seguire nella vita. Vogliamo ottenere una qualche forma di libertà: libertà fisica, spirituale o emotiva. Nessuno vuole essere imprigionato, costretto, legato, perciò la libertà diventa un ideale. È un concetto importante da contemplare, perché non sempre capiamo cosa significhi libertà.

Per buona parte della vita proviamo attaccamento agli ideali e la nostra società ce ne fornisce una gran quantità a cui aggrapparci. La libertà è uno di questi. Aggrapparsi all’ideale, senza una saggia riflessione sulle sue reali implicazioni, ci porta all’insoddisfazione, perché la vita raramente ci dà la libertà che vorremmo avere o che pensiamo di meritare.

Cercare la libertà che parte dal desiderio.

Possiamo sentirci continuamente delusi dalla vita, non perché stiamo vivendo qualcosa di veramente sbagliato, ma perché la vita non ci dà quello che vogliamo o che pensiamo di meritarci. Ci capita spesso di dire: “Non è giusto”. Pensiamo che le cose dovrebbero sempre essere giuste.

È facile rendersi conto che, al momento della nascita, certi possiedono il meglio che offra la vita, altri invece nascono in situazioni orribili e infelici. Tanta disuguaglianza è davvero ingiusta, non è così? Perché gli americani non distruggono gli armamenti? Perché in Medio Oriente non fanno altro che combattere, bombardando e distruggendo una bella città come Beirut? Perché si muore di fame in Africa? Perché nell’America Centrale ci sono povertà e ingiustizia? Non è giusto, non vi pare?

Non è giusto che la vita sia così e desideriamo che sia altrimenti. Quello a cui tendiamo è la libertà, ma ci tengono a freno le convenzioni e persino il corpo fisico.

L’aspetto paradossale in tutto questo è che, a quanto pare, seguire i propri impulsi e desideri non porta veramente alla libertà. Ho tratto questa deduzione dalla mia esperienza di vita. Ho scoperto che, quando pensavo di essere libero di seguire i miei desideri, finivo per sentirmi confuso e schiavo del desiderio. Avevo un’infinità di scelte, una molteplicità di possibilità da cui essere attratto o respinto.

La nostra ‘società libera’ non è che questo. Però, a quanto pare, la varietà di scelte e di possibilità porta sempre a uno stato di confusione. Al contrario, in una società che presenta un minor numero di opportunità, la vita non è così complicata.

La vita monastica, per esempio, non lo è, perché non dà molte scelte. Quando mi sveglio al mattino, non posso domandarmi: “Che mi metto stamattina?” “Come mi pettino i capelli?” Non c’è grande possibilità di scelta. A molti la vita monastica sembra una sorta di castigo, in cui tutto è proibito; non puoi far questo, non puoi far quello.

L’effetto della disciplina sulla mente è quello di semplificare la vita. Non si resta intrappolati in una quantità di scelte sul piano dell’esperienza sensoriale. Quando vi abbandonate alla vita monastica, quando smettete di resisterle e di desiderare altre opportunità, per fare ciò che volete, la vostra vita ne risulta, ovviamente, semplificata. È molto più chiara e diretta.

La libertà non si trova nel desiderio, ma c’è libertà nel Dhamma. Si può condurre una vita che non sia basata sulle preferenze e sugli attaccamenti. E, quando la vita non è più impegnata in scelte infinite, quando non ci sono più tutte le opinioni, le opportunità e le idee con cui siamo messi a confronto in una società complicata, c’è la semplicità.

La mente (o il cuore) si liberano per mezzo della semplicità e di una direzione morale. Siamo capaci di rispondere e aprirci alla vita come non potremmo fare in una vita complicata dal desiderio, dalla preferenza e dall’attaccamento personale. Essendoci aperti alla vita, ci rendiamo conto che la libertà del cuore non è libertà di fare quello che si vuole.

Qualsiasi desiderio derivi dall’ignoranza ci porta ad attività o a esperienze non abili. Il desiderio ci spinge sempre a ottenere qualcosa, a sbarazzarci di qualcosa o ad aggrapparci a qualcosa, perché tale è la natura del desiderio.

Non appena il desiderio ottiene ciò che vuole, inizia a volere qualcos’altro. Non ho mai visto un desiderio soddisfatto, un desiderio felice per aver ottenuto ciò che voleva. Potrà esserci una certa soddisfazione personale, nel momento in cui si ottiene ciò che si vuole, poi però il desiderio inizia a muoversi verso qualcos’altro.

Non si può essere soddisfatti nemmeno quando si ottiene ciò che si desidera, nemmeno se si possiedono ricchezza, potere, prestigio e il meglio che offre la vita. Per esempio, se diventaste molto ricchi, iniziereste immediatamente a preoccuparvi di perdere tutto il vostro denaro. La paura della perdita e il desiderio di guadagno non hanno mai fine.

Fintanto che siamo intrappolati nelle illusioni, che il desiderio crea dall’ignoranza, il nostro resta un mondo fondato sulle illusioni. Il desiderio non libera mai il cuore; lo condiziona a sperare in una libertà futura. La ricerca della libertà tramite il desiderio non fa altro che aumentare la schiavitù e l’illusione.

Aprirsi al Dhamma.

Il Buddha diede risalto all’indagine sulle illusioni di cui siamo preda, tramite l’esame della natura stessa del desiderio, della sofferenza e della cessazione del desiderio. Esaminando il desiderio, vediamo che non è altro che un movimento. Non è una persona, né un assoluto; sorge e scompare: questo è il movimento del desiderio. Se non lasciamo che il desiderio cessi, un desiderio ne condizionerà un secondo che, a sua volta, ne condizionerà un terzo e il processo andrà avanti all’infinito.

Il termine buddhista ‘attenzione’ (in Pali: sati) significa ‘riflettere, portare alla coscienza, portare alla mente le cose così come sono’. Per essere attenti, bisogna concentrare gli sforzi sul momento presente, a meno che non vi sia un pericolo immediato verso il quale l’istinto di conservazione vi rende attenti.

Nelle situazioni normali, dovete esercitare un certo sforzo per osservare, in modo imparziale, come sono le cose. Impariamo a osservare senza giudizio, a non proiettare qualcosa sul momento, che poi cercheremo di giustificare o di difendere. Quando attenzione e saggezza cooperano, c’è la capacità di prendere nota e di essere ricettivi. Diventiamo sensibili alle cose come sono; in breve, al Dhamma.

Perciò, ‘Dhamma’ è un termine che abbraccia tutto. Significa ‘le cose così come sono realmente, senza alcun pregiudizio’. Significa ‘la legge naturale’. Quando contempliamo il Dhamma, non partiamo da un’idea preconcetta. Se ne dessimo una definizione precisa, cominceremmo a cercare qualcosa, non vi pare? Non è quella la via. La via dell’attenzione consiste nell’aprire la mente al come è: qui e ora.

Spesso, si ignorano tempo e luogo. Possiamo essere qui e desiderare di essere altrove. Il tempo è ora, ma raramente siamo col momento presente; gran parte della vita è occupata dai ricordi del passato o dalle aspettative e dalle paure per il futuro. Facciamo progetti per il futuro e pensiamo al passato, ma non prendiamo neppure nota del vero Dhamma del qui e dell’ora – così com’è, adesso.

Pensando al passato e al futuro siamo preda della forza del desiderio e attratti verso qualcos’altro. Riflettere in tal modo sulla condizione umana aiuta a capire perché il mondo è così com’è.

L’intenso desiderio del cuore.

Vediamo come, nella vita moderna, la gente cerchi di rendere giusta ogni cosa o di impedire terribili ingiustizie. È una nobile causa. È apprezzabile. Ma non è sufficiente. Finisce che cerchiamo di pulire la casa e di mettere a posto ogni cosa. Ma, non appena ne abbiamo pulito una parte, l’altra comincia di nuovo a sporcarsi. È come cercare di pulire Londra con uno spazzolino. Non si può. Non troverete mai la perfezione nelle strutture sociali che dovrebbero assicurare la giustizia, l’uguaglianza e la clemenza, perché vi si intrufola l’imperfezione.

La società diventerà ben ordinata, equa e giusta quando sarà libero il cuore della gente. Finché sarà preda dei desideri, delle richieste, delle illusioni e dell’ignoranza, il meglio che si possa fare è avere leggi che creino determinate norme. Se qualcuno non si attiene alle norme, finirà in prigione. È il meglio che si possa fare.

Non avremo mai vera uguaglianza o giustizia o clemenza nel regno sensoriale, perché esse provengono dal cuore. Non scaturiscono dagli occhi, dalle orecchie, dal naso, dalla lingua o dal corpo; è solo nel cuore che le cose sono eque, che ci sono clemenza, giustizia e uguaglianza.

Cosa intendiamo per cuore?

La parola può essere usata per indicare un organo del corpo, o può riferirsi alla nostra natura emotiva. Di solito, si riferisce ai sentimenti. Per esempio, se siamo delusi, diciamo che ‘ci hanno spezzato il cuore’.

Poi, c’è la parola ‘mente’, che si riferisce a qualcosa di meno emotivo. La mente ha a che fare col processo intellettivo, con la capacità di razionalizzare e di pensare; quando, però, parliamo della capacità di sentire e di reagire con amore, usiamo la parola ‘cuore’, non la parola ‘mente’.

Tutti anelano alla libertà, in un modo o nell’altro. Speriamo che arrivi qualcuno a esaudire i nostri desideri e a renderci felici, come Cenerentola in attesa del principe azzurro. Forse siamo in attesa del Messia, o di Maitreya se siamo buddhisti, o del primo ministro, del presidente giusto che metterà il paese sulla buona strada.

C’è il desiderio intenso di qualche forza esterna, di qualcosa al di fuori di noi, che ancora non si è presentata. Di solito, quel genere di aspirazione viene esaudita, in ogni cultura, dalla sua religione, dall’aspirazione spirituale verso qualcosa di supremo.

L’aspetto sensoriale dell’umanità non riesce mai a soddisfarci veramente; ecco perché esiste la religione: per soddisfare quel bisogno dell’aspirazione umana. Mira al divino, o a ciò che c’è di elevato, a qualcosa verso cui dobbiamo innalzarci. Quando qualcosa vi ispira, lo spirito sale in alto, non sprofonda verso il basso. Quando sprofonda, si colma di angoscia, di disperazione, di vanità o depressione; è quel che chiamiamo ‘andare all’inferno’. Vi si spezza il cuore, lo spirito affonda e voi non coltivate aspirazioni, non puntate a qualcosa di elevato.

La nascita e la coscienza sensoriale rafforzano il senso di separatezza. La coscienza sensoriale è una coscienza che opera separazioni e discriminazioni che ci fanno sempre sentire alienati dalle cose. Sul piano sensoriale c’è sempre una sensazione di separazione e di conflitto.

Possiamo aspirare alle cose mondane, alla ricchezza e alla fama, ma non sono sufficienti. Pur aspirando a una posizione mondana, nel momento in cui la contempliamo, ci rendiamo conto che non è effettivamente ciò che vogliamo.

Proviamo naturalmente l’aspirazione a elevarci. È il desiderio intenso dell’unione o non separazione. In termini buddhisti, è l’aspirazione al Dhamma, alla verità. Quando abbiamo un’aspirazione simile, ci eleviamo invece di lasciarci intrappolare dall’attaccamento ai sensi.

Accettare le condizioni planetarie.

Il corpo umano è composto da elementi planetari: l’elemento solido, l’elemento liquido, il fuoco e l’aria. Dobbiamo vivere del cibo che cresce sul pianeta. Abbiamo bisogno dell’acqua, del calore del sole, abbiamo bisogno dell’aria.

Quando il corpo muore, gli elementi fanno ritorno al pianeta; non vengono trasportati in cielo. In questa vita sensoriale, che comporta l’esistenza in un corpo umano, dobbiamo accettare le limitazioni del corpo terreno, non desiderare di uscirne per far ritorno al pianeta.

Un desiderio simile sarebbe un’illusione dell’ego. Sarebbe come dire: “Non mi piace questo pianeta. Sono stufo di questo corpo. Verrò trasportato in uno spazio più sottile, più etereo”. Un desiderio simile si basa sull’illusione di un sé separato, sull’avversione nei confronti di quel sé separato e sul desiderio di ottenere qualcosa di meglio, di più raffinato, o più sottile. Questo è movimento del desiderio, non aspirazione.

Una delle lezioni più importanti che impariamo nella meditazione è l’accettazione della terra e del corpo. Meditiamo molto sul corpo; all’inizio, la meditazione si focalizza sul corpo fisico. Impariamo a calmare il corpo e a vivere senza ignorarne i bisogni o cercare di piegarli ai nostri desideri.

Se non comprendiamo il corpo, possiamo trascurarlo o trattarlo molto male. Quando, per esempio, meditando proviamo dolore, possiamo cercare di far tacere il corpo, imponendogli di non sentirlo. Possiamo cercare di ottenere uno stato simile a una trance in cui ci scordiamo del corpo. Ma quando il corpo inizia a sentire dolore o fame, quando dobbiamo andare al bagno, pensiamo che sia disgustoso. Non è giusto, non vi pare? Entriamo in un regno di beatitudine ed ecco che, improvvisamente, dobbiamo andare al bagno. Non è giusto!

Contemplando il corpo nella meditazione, non ci proponiamo di assumere una posizione favorevole o contraria nei suoi confronti, ma di capirlo. È così, il corpo è così. Non pensiamo ad esso in modo personale. Che sia attraente o sgraziato, vediamo il corpo semplicemente come corpo. Non vediamo più il mio corpo in opposizione al tuo corpo; è solo questo corpo. Sente in questo modo, è in questo modo e funziona in questo modo.

Quando lo accettiamo per quello che è, il corpo non crea tanti problemi. I corpi creano problemi quando non li accettiamo, quando li respingiamo, li esaltiamo, li usiamo come non dovremmo. Allora i corpi possono diventare condizioni davvero disgraziate e infelici con cui convivere. Ma il corpo in sé non è un ostacolo quando lo accettiamo, lo comprendiamo, lo conosciamo.

Questa è l’accettazione della nostra condizione planetaria, con tutto quello che comporta: il processo di invecchiamento del corpo, le malattie che contrae e la sua morte. Essendo nato, cresce, invecchia e muore. È ciò che si prevede che faccia. Quando lo consideriamo Dhamma, non presenta più alcun problema. È come è.

L’aspirazione al divino.

Il corpo umano non è un fine in sé. Non importa quanto è bello o sano, non è quello che siamo, non possiamo mai sentirci soddisfatti delle semplici funzioni corporee. Non è ciò che siamo, perciò non possiamo mai sentirci davvero tranquilli e a nostro agio col corpo; o col pianeta. C’è l’aspirazione, il sollevarsi verso qualcosa di più elevato, o di più sottile.

Quando osserviamo la vita planetaria, cosa vediamo?

Se studiamo la vita animale sul pianeta, ci accorgiamo che ha come fulcro la sopravvivenza: per sopravvivere gli animali debbono essere forti, intelligenti o essere in maggioranza. Gli animali non stipulano accordi e non possono avere leggi.

Per esempio, sul piano animale non ci si può mettere d’accordo per non uccidere. Anche noi del regno umano, non siamo molto meglio, non vi pare?

Siamo creature molto distruttive, disposte a ucciderci l’un l’altro e a uccidere gli animali, ma possiamo aspirare a elevarci al di sopra di tutto ciò. Se fossimo solo animali, non saremmo neppure capaci di aspirare a qualcosa di meglio. Ci sarebbero solo la legge della giungla e la selezione naturale; non concepiremmo nemmeno l’idea di qualcosa di più elevato. Ma lo facciamo.

Possiamo pensare alla giustizia, all’uguaglianza, all’equità; abbiamo una mente che può concepire simili possibilità. Lo spirito umano aspira a un piano più elevato di quello della pura e semplice sopravvivenza.

La mente che sprofonda afferma che gli esseri umani sono in ogni caso solo animali: la selezione naturale è una legge di natura e le cose stanno così. Questa mente pensa che non siamo meglio degli altri animali e che dobbiamo accettare il fatto. Dovremmo procurarci quanto possibile per noi stessi, perché dobbiamo sopravvivere.

Questa mente pensa: “Io mi sono preso la parte che mi spetta. Se tu sei così stupido e debole da non prenderti la tua, peggio per te; così è, peccato”. È un affossamento pessimista e fatalista dello spirito ai livelli più infimi. Ma parlando con la mia mente, io so che posso aspirare a qualcosa di più elevato e vedo le persone intorno a me pensarla allo stesso modo. Gli esseri umani possono aspirare al divino.

Parlando del divino, cosa significa effettivamente?

‘Divinità’ non è una parola che di solito si usa nel Buddhismo. Spesso, la gente si accosta al Buddhismo perché è stanca della divinità. Tutto quel parlare di Dio e della vita oltre la morte… li hanno stancati. Non ci credono. Vogliono qualcosa di più realistico. Non mirano a qualcosa che avverrà dopo la morte o nella prossima vita, a qualcosa che non vedono, non conoscono, non toccano.

Ma se non ci fosse nulla di divino, non potremmo concepire la divinità. La capacità di concepirla deriva dal fatto di averla sfiorata in ciò che conosciamo e sperimentiamo effettivamente… per lo meno a sprazzi.

La divinità della gentilezza, della compassione, della gioia e della serenità.

La gentilezza di una madre nei confronti del figlio è una specie di divinità, non vi pare? È un’esperienza di divinità. Dare con generosità, solo perché qualcuno ha bisogno di qualcosa, sacrificare i privilegi e le comodità personali per il benessere altrui, è per me un tocco di divinità.

Quando siamo equi e onesti con le cose, quando non agiamo in base a pregiudizi o inclinazioni, quando c’è gioia e serenità mentale, quando la mente è chiara e non vincolata a stati inferiori, siamo in contatto con la divinità.

Invece di parlare della divinità, i buddhisti dicono: “La nostra intenzione è quella di realizzare il nibbāna”. Che cosa significa realmente nibbāna?

Si riferisce alla realizzazione che otteniamo quando non ci aggrappiamo a nulla; la realizzazione in cui sperimentiamo le qualità generose della gentilezza, della compassione, della gioia e della serenità. Creiamo un collegamento con qualcosa di elevato; siamo allineati col divino; sperimentiamo il vero benessere, la vera tranquillità e beatitudine.

Se foste in procinto di incontrare un essere divino, che aspetto pensereste che abbia? Che percezione prende forma nella vostra mente?

Quando, ad esempio, pensate a Gesù Cristo, è probabile che il pensiero si accompagni alla percezione della compassione. Osservando quello che accade nella mia mente, mi accorgo che quando non c’è alcun interesse personale, quando non faccio richieste alla vita, sorge il sentimento della compassione.

Non è qualcosa che proietto in una situazione; avviene spontaneamente. Quando non c’è alcun desiderio personale di guadagno o di alcunché d’altro, si manifesta la compassione per l’infelicità e la confusione degli altri esseri. La compassione non è uno stato d’animo che deriva da un’idea preconcetta; niente del genere. È comprensione delle cose così come sono, della quantità di sofferenza presente nel mondo, a causa dell’ignoranza.

Al contrario, provare dispiacere per qualcuno può scaturire da una paura personale. Qualcuno ha il cancro, e noi pensiamo: “Oh, quel poveraccio ha il cancro; sono felice di non averlo. Spero di non ammalarmi di cancro”. Allora proiettiamo le nostre idee su quella persona. Ma quella non è compassione.

Compassione significa apertura vera alle sofferenze altrui, non perché si voglia ricavarne qualcosa, ma perché si è disposti a essere pazienti e a condividere le infelicità che altri stanno sopportando. Siamo disposti a sopportare la disgrazia, la tristezza e l’infelicità che vediamo intorno a noi, senza cercare di uscirne o di incolparne qualcuno. Quella è la compassione; è ciò che chiamerei una qualità divina.

Per me, la gioia è il sentimento che si prova quando vediamo che nella vita una cosa veramente bella è anche buona. È un sentimento molto positivo e non deriva dalla volontà di possesso del buono o del bello; non c’è gioia in questo. La gioia è un modo spontaneo di entrare in contatto col bello, col buono, col vero, presente negli altri esseri e in ogni cosa.

In questo stato di letizia, non c’è nulla dell’invidia e della gelosia che provengono dal coinvolgimento di aspetti personali. Se siamo ancora intrappolati nella visione egoica, quando vediamo qualcuno veramente bello e buono, possiamo provare invidia. Pensiamo: “È meglio di me”. E forse proseguiamo il discorso dicendo: “Sarà anche buono, però… ”. Lo mortifichiamo, non è così? Godere della bellezza, della verità o della bontà solo se la possediamo, non è gioia. È avidità. L’esperienza vera della gioia è un’altra qualità divina.

La serenità d’animo esiste quando la mente è calma e distaccata. La mente serena sa stare con la vita, con le cose così come sono, senza attaccamento. Allora la mente è imparziale, volta alla conoscenza e luminosa. Quella è un’altra esperienza di divinità.

Libertà è nibbāna, la realizzazione dello stato di non attaccamento in cui sperimentiamo vera gentilezza, compassione, letizia e serenità. Si può parlare di libertà in rapporto all’equità e alla giustizia, ma ciò di cui parlo è l’aspirazione del cuore umano al divino, all’unicità e alla non separazione.

Che cos’è la libertà del cuore? Direi che è la libertà di scelta tra l’elevazione e lo sprofondamento. Quale volete scegliere? In ogni momento dato della nostra vita, possiamo provare dispiacere per noi stessi, pensare a quello che non ci piace e che non va nel mondo, oppure possiamo scegliere di riflettere sul Dhamma, cercare di capirlo e seguire la nostra aspirazione al divino.

Domanda: Quando penso alla libertà, mi viene in mente la spontaneità. Se, quando pratichi l’attenzione, non fai altro che osservare e scrutare tutto, prima di fare qualsiasi cosa, non significa che hai perso la spontaneità?

Risposta: No, ma hai sottolineato una difficoltà di linguaggio. Quando dici ‘osservare e scrutare’ viene in mente qualcuno impegnato a fare qualcosa. Ma essere attenti non significa impegnarsi a osservare tutto, in modo da non riuscire a reagire alle situazioni che si presentano. La spontaneità deve scaturire dalla fiducia, non è così? Non puoi tenerti legato a un’idea preconcetta ed essere spontaneo.

Per essere spontaneo devi aver fiducia e, in termini buddhisti, la fiducia ha il proprio fondamento nel Buddha-Dhamma-Sangha. Quando la fiducia si trasforma in una solida base, non c’è necessità di esseri diffidenti o ansiosi nei riguardi delle esperienze della vita. La spontaneità opera a partire da quella fiducia, che non si basa su una visione personale.

La nuda attenzione – la presenza mentale – ci consente di rispondere in modo spontaneo alle esperienze della vita, perché riponiamo la fiducia nel Buddha-Dhamma-Sangha. Siamo più spontanei perché non partiamo dall’illusione fondamentale di un sé che deve proteggersi. Decade completamente l’illusione sintetizzata in: “Sono uno che deve stare in guardia dalla forze del male o ne verrò schiacciato”. C’è il riconoscimento, la conoscenza, la purezza del cuore in cui si confida e ci si acquieta. Il resto si prende cura di sé.

Tratto dal libro: “La mente e la via”, del venerabile Ajahn Sumedho
Traduzione di Elizabetta Valdrè

© Ass. Santacittarama, 2006. Tutti i diritti sono riservati.

SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.

Fonte: https://www.pomodorozen.com/zen/la-liberta-del-cuore-ajahn-sumedho/

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