Arnaud Desjardins: Osate Vivere. 2 di 3

Osate Vivere. 2 di 3

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Senza dubbio conoscete il ruolo che giocava il lying in Swamiji, pratica ascetica che consisteva nel riportare alla superficie i ricordi dell’infanzia con il loro carico traumatico e, da lì, sul far luce sul modo in cui abbiamo cominciato a spaventarci, in cui si è impressa in noi l’idea che osare di fare affidamento sul nostro slancio può essere pericoloso o anche colpevole.

Rendere cosciente l’inconscio non si riduce ad attenuare certe sofferenze perché se ne scopre la causa, è anche comprendere come si è impressa in noi la seguente terribile legge: “Vivere è male”.

Tutte le forme di educazione, anche se non sono particolarmente religiose, sembrano dire al bambino: “questo va molto bene” e “questo è male, come hai potuto farlo!”. Molto presto, dividiamo il mondo in due e ci formiamo un’idea di ciò che è bene, vale a dire ciò che piace ai nostri genitori o ai nostri educatori e di ciò che è male, vale a dire, molto semplicemente, ciò che a loro dispiace. E da qui comincia la tragedia che Swamiji riassumeva in queste tre parole: storpio, gretto, superficiale.

Per voi si trattava di qualcosa di buono. Per vostro padre e vostra madre, che per altro voi amavate e ammiravate, era male. Dato che necessariamente sono papà e mamma che hanno ragione e quindi sono io che ho sbagliato, non posso più credere in me. Bisogna che diffidi del mio slancio vitale o delle forme che può prendere.

In seguito, tessiamo la nostra prigione come un ragno la sua tela o un bruco il suo bozzolo, siamo noi stessi che la costruiamo sotto l’impulso dei nostri educatori, soffocando le nostre pulsioni sempre di più. E qui interveniva la formula: “No denial, Arnaud”, “Non negare niente, non rifiutare niente”.

Dio sa quanto volessi rinnegare in me tutto quello che mi intralciava e che sembrava andare nella direzione opposta a quella saggezza che mi affascinava e di cui avevo l’immagine ammirabile negli occhi, dopo tutti i saggi induisti e i monaci tibetani che avevo inquadrato con passione nel mirino della mia macchina fotografica.

Ricordo la battaglia tra me e Swamiji, perché Swamiji voleva allontanarmi da quella spiritualità, per ricondurmi in un mondo che io volevo superare. Ma rischiavo di non superarlo, dato che non l’avevo mai guardato in faccia. Non si trattava soltanto del mondo delle attrazioni esteriori, le donne per gli uomini, gli uomini per le donne, il successo, i soldi, il potere, ma anche del mondo che portiamo dentro di noi.

Se, in più, si è stati nutriti da René Guenon, come lo ero stato io, dall’idea che c’è una coscienza superiore luminosa e una coscienza inferiore oscura, infernale, la resistenza sarà tanto più grande e il malinteso quasi inevitabile.

Ma lo dico oggi, con tutta la forza della mia convinzione: non possiamo raggiungere il regno dei cieli negando le forze naturali. Queste ci animano sin dall’infanzia e si manifestano sotto forma di pulsione sessuale nella pubertà, insieme con gli aspetti emotivi, l’entusiasmo, l’impegno politico, il sogno del grande amore, le nobili cause che infiammano gli adolescenti.

Dobbiamo ritrovare una forza di vita, in noi, che non sia divisa e in lotta con se stessa. Swamiji utilizzava abbondantemente la parola sanscrita ben nota shakti o ancora atmashakti, energia fondamentale del sé: energia unica, infinita, che si esprime attraverso tutte le morti, tutte le nascite, dal momento che ogni morte è l’altra faccia di una nascita, ogni nascita l’altra faccia di una morte.

Anche il metabolismo in noi non è che un gioco di nascite e di morti a livello fisiologico. Shakti, l’energia o fullness of life, la pienezza della vita. Swamiji impiegava molto anche la parola ‘ricchezza’, non quella dell’avere, ma quella dell’essere, che è impossibile far crescere nella divisione e nel conflitto. Se una parte delle nostre forze vitali viene utilizzata per reprimerne e negarne un’altra, quanta energia ci resta per esprimerci?

Il senso generale di soffocamento è collegato al soffocamento della forza di vivere stessa, dal momento che la forza vitale si è divisa tra il tentativo di esprimersi e quello di reprimersi. Certamente questa forza di vita può essere rischiarata, purificata, ma deve essere considerata come l’emanazione della più alta realtà.

La Manifestazione, l’espressione del Non-Manifestato, anima le nostre cellule, la nostra respirazione, il battito del cuore e la circolazione del sangue, sottende tutta la nostra psicologia e, in particolare, l’energia sessuale.

Se non è più in conflitto con se stessa, questa energia può essere dominata, trasformata, raffinata e posta al servizio di una comprensione più alta. Può essere posta al servizio della giustizia in ogni situazione, della saggezza, prajna, della volontà di Dio, ma soltanto nella riunificazione, soltanto nell’audacia di vivere.

L’audacia di vivere significa non avere più paura di sé, rifare il cammino inverso, vale a dire sciogliere i nodi e sollevare i divieti che ci hanno condannato a questa paura di noi stessi e a una menzogna di una spiritualità disincarnata, fatta di negazioni.

C’è una riunificazione, a partire dalla quale possono cominciare il dominio e il controllo. Dopo aver ritrovato il coraggio di riconoscere completamente ciò che è in voi, si tratta di avere il coraggio di gettarsi nell’esistenza, di assumersi i rischi, di accettare di ricevere i colpi dell’esistenza, sapendo già che si verrà esposti al gioco dei contrari: riuscito-fallito, felice-infelice, lode-biasimo.

Certo, dovrete far fronte a situazioni che sinora avete considerato dolorose, ma sarete in grado di accettarle dal momento che, se sarete ‘uno con’ una situazione, quale che sia, non ne sarete più colpiti e, se viene accettata, la sofferenza sfocia nella pace del profondo.

In pratica, non esistono grandi destini spirituali che non implichino l’attraversamento di momenti terribili di sofferenza, di smarrimento, di prova. Conoscete forse il proverbio inglese che gli induisti citano così volentieri: “Man’s extremity is God’s opportunity”, “Quando l’uomo è ridotto all’estremo bisogno, Dio ha infine la sua possibilità”.

Può darsi che abbiate ricordi di questo genere: nel momento in cui vi sembrava di aver toccato il fondo del tormento e di trovarvi in un vicolo cieco, qualcosa ha ceduto dentro di voi e una pace inimmaginabile, incredibile vi ha improvvisamente inondato, nonostante la situazione non fosse cambiata.

Riprenderò la formula brutale e magnifica di Karlfried von Dürckheim: “Ciò che non vi uccide vi fa crescere”. E per morire veramente ce ne vuole. Nessuno di voi è morto, nessuno di voi è arrivato a suicidarsi. Ma tutti voi, in un momento o nell’altro, avete avuto l’impressione di soffrire e di soffrire sempre di più e che la vita fosse dura, difficile, dolorosa.

Se comprendete queste nozioni basilari, sulle quali tornerò instancabilmente, non avrete più paura di soffrire, perché la sofferenza, se accettata, non è dolorosa; le situazioni tormentose acquistano un senso e raggiungiamo dentro di noi il regno dei cieli. E’ a questo che dobbiamo arrivare. E’ a questo che bisogna arrivare.

Intendetemi bene: se seguite questo cammino per paura di soffrire, non progredirete mai. Siamo d’accordo che la meta del cammino sia la scomparsa della sofferenza, la pace permanente, la gioia che supera ogni comprensione. Il Buddha ha detto: “Io non insegno che due cose, discepoli, la sofferenza (tutte le leggi che ci permettono di comprendere la sofferenza) e la scomparsa della sofferenza”.

Siamo tutti d’accordo che la meta, la beatitudine, ananda, la libertà, implica la scomparsa della sofferenza e uno stato di amore universale e immutabile. Ma il cammino passa per la sofferenza. E non è un discepolo chi cerca di apprendere tutto ciò che gli viene proposto nell’ashram o nel monastero allo scopo di non soffrire più, bensì chi non ha più paura della sofferenza e non teme più di mettersi in situazioni che potrebbero farlo soffrire.

Almeno avrà sperimentato, avrà vissuto, saprà che cosa l’esistenza poteva o non poteva dargli, avrà iniziato a comprendere la verità di ciò che noi chiamiamo maya, l’illusione, e moha, l’attaccamento, con il suo gioco di attrazione e repulsione. Un discepolo accetta di soffrire.

Un uomo accetta di soffrire il freddo se vuole esplorare il polo nord, un altro di subire le intemperie in alta montagna e si espone eventualmente al freddo e alla nebbia, un altro accetta di affrontare una tempesta, se naviga in alto mare. Chi è impegnato nel cammino preferisce vivere e soffrire piuttosto che non vivere per non soffrire.

E non ho dimenticato che in me, dietro i resti di una educazione troppo severa e a un ideale che non volevo rinnegare, si nascondeva la menzogna e la paura di soffrire. Mi rivedo nel 1966, mi difendevo colpo su colpo davanti a Swamiji (“You are a coward, Arnaud”, “Sei un vigliacco, Arnaud”), cercando di convincermi che Swamiji non fosse un guru ma uno psicoanalista, ma, tutto sommato, attirato da quell’uomo così buono, così nobile e sorridente. In superficie non avevo che dubbi, ma in profondità sentivo che occorreva fidarsi.

Il 1966 è stato un anno abbastanza doloroso della mia vita. E’ l’anno in cui Il messaggio dei tibetani (Documentario piuttosto noto realizzato dall’autore, a cui è seguito un libro dallo stesso titolo.) è andato in onda e in cui sono diventato improvvisamente molto noto e in cui è cambiata la mia vita professionale; ma è stato anche l’anno di quella lotta con Swamiji, che mi obbligava a vivere in modo più ampio, più vasto e a riconoscere tutto ciò che era in me, a mettere in discussione la mia grettezza e superficialità, ad accettare le forze della profondità in me e a osare vivere ancora di più nel gioco dell’esistenza nella consapevolezza che sarei stato messo a dura prova.

Era la sola possibilità di crescere veramente e di raggiungere, un giorno, una realizzazione all’embracing, come si dice in India, includendo tutto ciò che ci mette completamente al riparo da ogni ritorno di manovella, da ogni delusione, da ogni nuova esplosione di disperazione o dall’ira.

Se vogliamo sentire di essere a un tempo completamente invulnerabili e completamente indifesi. È necessario andare sino in fondo a noi stessi. Se certe vasana (tendenze, pulsioni) sono state rimosse o represse, come possiamo diventare veramente solidi, se dobbiamo lottarvi continuamente? Come possiamo essere in comunione con l’esistenza, che ci rimanda senza sosta a noi stessi, se non siamo in comunicazione con la nostra realtà?

Swamiji mi obbligava a vedere in me l’ambizione e non il distacco, le domande affettive e sentimentali, le domande sessuali, tutto quello che concerne il livello ordinario dell’esistenza. Mi obbligava a portarlo alla luce del sole e decidere in seguito il modo in cui lo avrei vissuto, perché egli mi richiamava allo stesso tempo al controllo e alla padronanza.

“Oh, Arnaud, can you miss the fullness of life?”, “Oh, Arnaud, puoi lasciarti sfuggire la pienezza della vita?”. Potete essere soddisfatti di vivere la vita soltanto a metà?

Certo, se la questione viene posta in certi termini, la nostra dignità, non soltanto di discepoli ma anche di esseri umani, risponde di no. No, non voglio vivere la vita a metà, una volta che mi sono incarnato su questa terra. Tutto ciò che amiamo rappresenta una metà della vita e tutto ciò di cui abbiamo paura, perché lo associamo all’idea della sofferenza, rappresenta l’altra metà.

Pienezza della vita significa armonizzare, purificare, trascenderne la totalità. Ma allora interviene una difficoltà a me ben nota: per timidezza, per debolezza si rifiuta la metà dolorosa (il “mentale” è un gran bugiardo, ma è sempre sincero sul momento) e crediamo che si tratti in realtà di una scelta deliberata.

Io credevo di seguire i valori del bene e del male, frutto della mia razionalità. Invece, quei valori non erano altro che il prodotto dell’esperienza di un bambino, un bambino segnato dalla legge che ho già descritto secondo la quale: “Ciò che mi piace è male, ciò che piace ai miei genitori è bene”. C’era un fondamento di solidità e di verità in questo samskara (una impressione scolpita in noi con il suo particolare dinamismo) massiccio, che si ramifica in tanti samskara particolari?

Comunque, non temete, non ho detto che in tutti esistono le pulsioni più crudeli, più bestiali, più immonde e, soprattutto, non ho detto che prendere coscienza di quelle pulsioni farà di voi dei seviziatori, degli stupratori o degli imbroglioni.

Quei timori sono ancora le menzogne del ‘mentale’; non si tratta affatto di questo, bensì di non avere più paura della vita in sé.

Fine della Parte 2
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Tratto da: “L’audacia di Vivere”, di Arnaud Desjardins – Traduzione di Giovanna Visini.

Fonte: http://www.rebirthing-milano.it/brani-traduzioni/osate-vivere-da-laudacia-di-vivere-di-arnaud-desjardins/

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